Ordinanza di Cassazione Civile Sez. 3 Num. 7086 Anno 2025
Civile Ord. Sez. 3 Num. 7086 Anno 2025
Presidente: NOME COGNOME NOME
Relatore: COGNOME NOME
Data pubblicazione: 17/03/2025
ORDINANZA
sul ricorso iscritto al n. 31093/2021 R.G. proposto da :
NOMECOGNOME NOME COGNOME domiciliate all’indirizzo Pec del difensore, rappresentate e difese dall’avvocato NOME COGNOME
-ricorrente-
contro
PRESIDENZA DEL CONSIGLIO DEI MINISTRI, domiciliata ex lege in Roma, INDIRIZZO presso l’AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO, che la rappresenta e difende ope legis.
–
resistente
– avverso la SENTENZA della CORTE D’APPELLO di LECCE n. 533/2021 depositata il 30/04/2021.
Udita la relazione svolta nella camera di consiglio del 03/12/2024 dal Consigliere dr.ssa NOME COGNOME
Rilevato che
Con ricorso ex art. 702 bis cod. proc. civ. le sorelle NOME e NOME, in conseguenza della morte del loro padre NOME NOME, assassinato dalla moglie Mehemeti RAGIONE_SOCIALE il 21 luglio 2012 in Melissano, convenivano in giudizio, avanti al Tribunale di Lecce, la Presidenza del Consiglio dei Ministri, per sentirla condannare all’indennizzo in loro favore per la mancata attuazione da parte dello Stato Italiano alla Direttiva Europea n. 2004/80/CE.
La Presidenza del Consiglio dei Ministri si costituiva, resistendo, con l’Avvocatura Distrettuale di Lecce.
1.1. Con ordinanza del 18 settembre 2017, il Tribunale di Lecce accoglieva il ricorso, dichiarava quindi la responsabilità della Presidenza del Consiglio dei Ministri, per la mancata attuazione della direttiva 2004/80/CE del 29 aprile 2004, e per l’effetto la condannava al pagamento della somma di euro 180.000,00 in favore di ciascuna delle ricorrenti, per un totale di euro 360.000,00, oltre interessi legali e spese di lite.
Avverso tale sentenza la Presidenza del Consiglio dei Ministri proponeva appello; si costituivano, resistendo al gravame, NOME e NOME
2.1. Con sentenza n. 533/2021 del 30 aprile 2021 la Corte di Appello di Lecce, dopo aver rilevato che l’appellante aveva proposto impugnazione sia sotto il profilo della responsabilità dello Stato per mancata trasposizione della direttiva comunitaria, sia in riferimento alla misura dell’indennizzo, prospettata come quantificata in maniera ‘inammissibilmente corrispondente ad un risarcimento’, accoglieva parzialmente l’appello e riformava l’impugnata sentenza in punto di quantum debeatur , pervenendo a riconoscere l’indennizzo nel minor importo di euro 60.000,00 a
favore di ognuna delle due appellate.
Avverso tale sentenza NOME COGNOME e NOME COGNOME propongono ora ricorso per cassazione, affidato a due motivi.
Si è costituita, per la Presidenza del Consiglio dei Ministri, l’Avvocatura Generale dello Stato, tardivamente e per la sola evenienza della partecipazione alla discussione orale del ricorso in pubblica udienza.
La trattazione del ricorso è stata fissata in adunanza camerale ai sensi dell’art. 380 -bis .1, cod. proc. civ.
Il Pubblico Ministero non ha depositato conclusioni.
Le ricorrenti hanno depositato memoria.
Considerato che
Rileva preliminarmente il Collegio che la notifica alla difesa erariale è nulla, in quanto effettuata presso l’Avvocatura Distrettuale di Lecce. Tuttavia, l’Avvocatura Generale dello Stato si è costituita, tardivamente, espressamente al solo fine di chiedere di partecipare all’eventuale pubblica udienza, e dunque senza svolgere difese e senza eccepire la nullità, che pertanto risulta essere stata sanata.
Con il primo motivo le ricorrenti denunciano ‘Violazione e falsa applicazione dell’art. 345 c.p.c. in relazione all’art. 360 1° comma n. 3 e 5 c.p.c.. Divieto domande ed eccezioni nuove in appello’.
Lamentano che la Corte di Appello di Lecce si è limitata ad osservare che la Presidenza del Consiglio dei Ministri non aveva svolto alcuna censura circa l’esistenza, nel caso di specie, dei presupposti per ottenere l’indennizzo richiesto, quali il nesso causale e la mancata prova dell’impossibilità di ottenere il ristoro da parte dell’autore del reato, ed avrebbe omesso di rilevare che nessuna censura era stata svolta sotto il profilo del quantum
debeatur , come invece accertato dal giudice di prime cure a pag. 6 della sua ordinanza, resa a definizione del procedimento sommario.
In sostanza, nel giudizio di primo grado l’Amministrazione avrebbe prestato tacito riconoscimento sul quantum .
Tanto premesso, deducono quindi che la corte territoriale sarebbe incorsa nella violazione dell’art. 345 cod. proc. civ. e in una ulteriore violazione di legge, nel richiamare, ai fini della determinazione del quantum debeatur , i decreti ministeriali 31/08/2017 e 22/11/2019, essendo gli stessi abbondantemente successivi alla messa in mora, risalente all’anno 2016.
Con il secondo motivo le ricorrenti denunciano ‘Violazione e falsa applicazione della Sentenza del 16 luglio 2020 della Corte Europea, Grande Sezione, in relazione all’art. 360 1° comma n. 3 e 5 c.p.c. ‘.
Deducono: a) che la legge n. 122 del 7 luglio 2016, all’art. 14, ha previsto che il Fondo di rotazione per la solidarietà alle vittime dei reati di tipo mafioso, delle richieste estorsive e dell’usura, sia destinato anche all’indennizzo delle vittime dei reati intenzionali violenti, come indicati all’art. 11 della stessa norma; b) che pertanto, in forza della suddetta legge, è stato varato il Fondo di rotazione per la solidarietà alle vittime dei reati di tipo mafioso, delle richieste estorsive, dell’usura e dei reati intenzionali violenti nonché agli orfani per crimini domestici; c) che non è previsto alcun potere discrezionale del Fondo in ordine alla determinazione del quantum del risarcimento dei danni in favore delle vittime.
Lamentano che a tale ultimo principio ha inteso uniformarsi anche la Corte di Appello di Lecce con la sentenza impugnata, ma è incorsa ‘in palese violazione del successivo principio espresso sempre dalla stessa Corte UE circa il quantum da riconoscere alle vittime’ (così p. 5 del ricorso).
Sostengono che ‘Le vittime, invero, in ossequio al predetto ultimo principio espresso dalla Corte UE con la Sentenza del 16 luglio 2020, Grande Sezione, devono essere risarcite in misura che può variare caso per caso, specie con riferimento al danno emergente e al lucro cessante che deriva dalle accertate potenzialità economiche della vittima, non sussistendo alcun limite risarcitorio giacché, in tal caso, non si parla di mero indennizzo quanto di risarcimento. Lo Stato, pertanto, si è finalmente fatto carico di provvedere al risarcimento (non più indennizzo) sulla scorta dell’esatto quantum dei danni decisi, caso per caso, in sede giurisdizionale a seconda dei parametri che fanno riferimento ai criteri di calcolo dei danni patrimoniali (danno emergente e lucro cessante) e non patrimoniali (cd. “pretium doloris”), in uno ai criteri di computo degli interessi legali maturati e delle spese legali’.
Lamentano che mentre la sentenza di primo grado ha riconosciuto ‘legittimamente e prudentemente, in favore delle ricorrenti, un risarcimento fondato sulle tabelle del Tribunale di Milano relative al danno biologico per la perdita di un genitore’, invece la corte d’appello avrebbe liquidato importi ‘pressochè modesti oltrechè svincolati dai parametri che devono fare riferimento ai criteri di calcolo ai criteri di calcolo dei danni patrimoniali (danno emergente e lucro cessante) e non patrimoniali (cd. “pretium doloris”), espressi dalla Corte UE’ (v. p. 6 del ricorso).
4. Il primo motivo è inammissibile.
Svolge argomentazioni generiche e non solo deduce una violazione dell’art. 345 cod. proc. civ., inerente al divieto dei cd. nova in appello, là dove avrebbe dovuto semmai denunciare, ove effettivamente il quantum non fosse stato contestato con l’appello, la violazione del principio di cd. corrispondenza tra il chiesto ed il pronunciato di cui all’art. 112 cod. proc. civ. (v., tra
le tante, Cass., 21/03/2019, n. 8048; Cass., 23 ottobre 2024, n. 27551), ma anche, e soprattutto, viola manifestamente l’art. 366, n. 6, cod. proc. civ., in quanto non indica il contenuto degli atti su cui si fonda né direttamente né indirettamente, in questo secondo caso precisando la parte dell’atto corrispondente cui l’indiretta riproduzione corrisponderebbe.
L’argomentare stesso del motivo appare, del resto, del tutto generico.
Si aggiunga che il motivo potrebbe considerarsi, all’esito della lettura della sentenza impugnata, denunciare un errore di fatto ai sensi dell’art. 395, n. 4 cod. proc. civ., dato che la corte leccese ha espressamente detto a pag. 4 che il quantum era stato contestato.
Il secondo motivo è inammissibile, oltre che infondato.
5.1. In disparte il pur non marginale rilievo per cui non critica specificatamente l’articolata motivazione resa dalla corte d’appello, che ha ridotto l’ammontare della somma spettante alle allora attrici in ragione della natura indennitaria della responsabilità dello Stato italiano per omessa o tardiva attuazione della direttiva comunitaria non autoesecutiva (v. la non numeratapag. 8, al paragrafo 2d. dell’impugnata sentenza), il che già di per sé integra profilo di inammissibilità (sull’inammissibilità del motivo non correlato alla motivazione, come pure del motivo che trascura di censurare la specifica ratio decidendi dell’impugnata sentenza, v. Cass., 22/04/2022, n. 8036; Cass., Sez. Un., n. 7074/2017, in motivazione), il motivo è ulteriormente inammissibile, là dove rimane su un piano puramente assertorio nel sostenere che la corte di merito avrebbe violato i principi di cui all’invocata sentenza della Corte europea, che l’impugnata sentenza richiama espressamente a partire dal paragrafo 2c., ponendola a base del proprio percorso motivazionale.
5.2. Il motivo risulta anche infondato, per le ragioni che seguono.
Questa Suprema Corte (v. Cass., 24/11/2020, n. 26757), espressamente richiamando i principi posti dalla citata sentenza CGUE, 16 luglio 2020, ha già avuto modo di affermare: 1) che la responsabilità dello Stato per omessa incompleta o tardiva trasposizione di direttiva comunitaria nell’ordinamento interno riveste natura di illecito contrattuale, e dunque genera un’obbligazione risarcitoria in conseguenza di detto inadempimento, i cui effetti pregiudizievoli (perdita subita e mancato guadagno) sono da ristorare integralmente ai sensi dell’art. 1223 cod. civ. o con valutazione equitativa del danno non altrimenti dimostrabile nel suo preciso ammontare ex art. 1226 cod. civ.; 2) che in questa prospettiva, che tiene conto anzitutto del principio di ristoro integrale del pregiudizio effettivamente patito dal creditore danneggiato, va letto il principio espresso dalla giurisprudenza del Lussemburgo secondo cui il danno può essere anche risarcito in forma specifica, con un adeguamento completo alle disposizioni della direttiva non auto esecutiva da parte del legislatore nazionale ad effetto retroattivo, se ciò è sufficiente a rimediare alle conseguenze pregiudizievoli derivanti dalla violazione del diritto unionale, fatta salva comunque la prova di un’eventuale maggior danno subìto per non aver potuto fruire a suo tempo dei vantaggi garantiti dalla norma, danno che può essere di natura patrimoniale o anche non patrimoniale, giacché anche l’inadempimento contrattuale può dar luogo a quest’ultimo tipo di pregiudizio (art. 2059 cod. civ.), allorquando ricorrano le ipotesi espressamente previste dalla legge e se è stato leso in modo grave un diritto della persona tutelato dalla Costituzione (Cass., Sez. Un., 11/11/2008 numero 26.972; 3) che, ciò premesso, il criterio parametrico basilare per la valutazione e liquidazione del danno patito dal soggetto
danneggiato dall’inadempimento dello Stato nella tardiva attuazione della direttiva 2004/80/CE, al di là quindi dell’eventuale sussistenza di un maggiore pregiudizio, è quindi costituito dall’ammontare dell’indennizzo di cui esso in quanto vittima del reato intenzionale violento avrebbe avuto diritto a origine come bene della vita garantito dall’obbligo di conformazione del diritto nazionale a quello dell’Unione; 4) che, posta dunque tale indefettibile correlazione, deve per altro verso essere chiarito che l’indennizzo, ai sensi del citato art. 12 par. 2 della direttiva, ed il risarcimento del danno civilistico, conseguente al reato violento, delineano due distinti diritti, tra i quali non vi è coincidenza, giacché il primo è la risultanza di un intervento conformativo rimesso alla discrezionalità del legislatore, mentre il secondo attiene all’ambito dei danni alla persona ed al principio dell’integrità del ristoro delle conseguenze pregiudizievoli patite dalla vittima del fatto illecito commesso dal suo autore; 5) che, per altro verso ancora, tuttavia, il considerando (6) della direttiva 2004/80/CE afferma, per quanto qui di interesse, che le vittime di reato nell’Unione Europea dovrebbero avere il diritto di ottenere un indennizzo ‘equo e adeguato’ per le lesioni subite, per cui la discrezionalità del legislatore nel realizzare il sistema di indennizzo delle vittime di reati intenzionali violenti deve comunque essere necessariamente orientata dai criteri di ‘equità’ e di ‘adeguatezza’ imposti dal citato articolo della direttiva; 6) che inoltre la Corte UE, con la citata sentenza del 16 luglio 2020, ha precisato che l’articolo 12 par. 2 della direttiva 2004/80/CE deve essere interpretato nel senso che un indennizzo forfettario concesso alle vittime di violenza (nel caso esaminato: violenza sessuale), sulla base di un sistema nazionale di indennizzo delle vittime di reati intenzionali violenti, ‘non può essere qualificato come equo ed adeguato, ai sensi di tale disposizione, qualora sia fissato senza tenere conto
della gravità delle conseguenze del reato per le vittime e non rappresenti quindi un appropriato contributo al ristoro del danno materiale morale subito’, altresì sottolineando che ‘il sistema indennitario non deve necessariamente corrispondere al risarcimento del danno che può essere accordato, a carico dell’autore di un reato intenzionale violento, alla vittima di tale reato’, e che l’indennizzo di conseguenza ‘non deve necessariamente garantire un ristoro completo del danno materiale morale subito dalla vittima’, ma, per contro, ‘non può essere puramente simbolico o manifestamente insufficiente alla luce della gravità delle conseguenze del reato’ intenzionale violento, dato che l’indennizzo ‘rappresenta un contributo al ristoro del danno materiale e morale subito da queste ultime’. Ne deriva che lo Stato membro che opti per il regime forfettario di indennizzo deve provvedere affinché la misura degli indennizzi sia sufficientemente dettagliata ‘così da evitare che l’indennizzo forfettario previsto per un determinato tipo di violenza possa rivelarsi alla luce delle circostanze di un caso particolare manifestamente insufficiente’.
5.3. Orbene, in forza di quanto sopra illustrato, le censure delle ricorrenti sono, oltre che inammissibili, anche infondate, giacché la sentenza impugnata: a) ha anzitutto colto ed affermato la differenza giuridica e concettuale tra l’indennizzo di cui all’art. 12 par. 2 della direttiva e il risarcimento del danno civile per le conseguenze negative derivate alla vittima del reato intenzionale violento, con la conseguenza della diversa consistenza economica delle due poste; b) ha poi espressamente rilevato come lo Stato italiano abbia emesso i decreti ministeriali del 31 agosto 2017 e, soprattutto, del 22 novembre 2019, in cui sono stati rideterminati gli importi dell’indennizzo alle vittime dei reati intenzionali violenti, proprio in considerazione dei principi fissati dalla citata sentenza 16 luglio 2020 della Corte UE; c) ha
(ri)determinato la quantificazione dell’indennizzo ‘nella stessa somma alla quale le appellate avrebbero diritto alla luce della normativa che ha dato definitiva e piena attuazione alla direttiva CE’ (così penultima pagina dell’impugnata sentenza), normativa rispetto alla quale, soprattutto in riferimento a quella contenuta nel d.m. 22 novembre 2019, è già stato da questa Suprema Corte rilevato come ‘sì è di gran lunga ristretta la forbice tra il liquidato quantum risarcitorio e il valore dell’indennizzo’ (v. Cass., 2020, n. 26757, cit.).
Dalla lettura dell’impugnata sentenza -e non risultando, stante la già rilevata violazione dell’art. 366, n. 6, cod. proc. civ., che le odierne ricorrenti, in origine attrici, abbiano svolto censura in ordine al mancato riconoscimento di un maggior danno eventualmente risarcibile, del quale anzi neppure argomentano emerge quindi che la corte leccese si è pronunciata nella scrupolosa applicazione al caso di specie dei principi di diritto posti sia dalla Corte di Giustizia europea sia da questa Suprema Corte di Cassazione.
In conclusione, il ricorso deve essere dichiarato inammissibile.
Non è luogo a provvedere in ordine alle spese del giudizio di legittimità, non avendo la parte intimata svolto l’unica attività difensiva che, in ragione del tenore della sua costituzione, avrebbe voluto svolgere.
P.Q.M.
La Corte dichiara inammissibile il ricorso.
Ai sensi dell’art. 13 comma 1 -quater del d.P.R. n. 115 del 2002, inserito dall’art. 1, comma 17 della l. n. 228 del 2012, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, al competente ufficio di merito, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso, a norma del comma 1bis , dello
stesso articolo 13, se dovuto.
Così deciso in Roma nella camera di consiglio della Terza