Ordinanza di Cassazione Civile Sez. 1 Num. 4585 Anno 2024
Civile Ord. Sez. 1 Num. 4585 Anno 2024
Presidente: COGNOME NOME
Relatore: COGNOME NOME
Data pubblicazione: 21/02/2024
ORDINANZA
sul ricorso iscritto al n. 35625/2019 R.G. proposto da:
RAGIONE_SOCIALE, in persona del legale rappresentante, elettivamente domiciliato in INDIRIZZO, presso lo studio dell’avvocato COGNOME (CODICE_FISCALE) che lo rappresenta e difende unitamente agli avvocati COGNOME NOME (CODICE_FISCALE), COGNOME NOME (CODICE_FISCALE);
-ricorrente-
Contro
RAGIONE_SOCIALE, in persona del Sindaco elettivamente domiciliato in INDIRIZZO, presso lo studio dell’avvocato COGNOME NOME (CODICE_FISCALE) rappresentato e difeso dall’avvocato COGNOME NOME (CODICE_FISCALE);
-controricorrente-
avverso la SENTENZA di CORTE D’APPELLO MILANO n. 1753/2019 depositata il 19/04/2019.
Udita la relazione svolta nella camera di consiglio del 24/01/2024 dal Consigliere COGNOME NOME COGNOME.
RILEVATO CHE
La società RAGIONE_SOCIALE ha adito la Corte d’appello di Milano chiedendo il riconoscimento e la liquidazione di un indennizzo in base all’art. 39 del D.P.R. 327/2001, per la limitazione della capacità edificatoria del compendio Cascina Cascinazza di sua proprietà, deducendo che esso è soggetto a una Convenzione urbanistica del 1962 e al PRG del 1971 (“Piano Piccinato”), che ne definiscono la capacità volumetrica residenziale. Tuttavia, nonostante la capacità edificatoria assegnata, il Comune ha adottato diverse varianti di PRG, impedendo l’utilizzo effettivo del compendio. ll Comune si è opposto a questa richiesta, contestando l’esistenza di vincoli espropriativi dopo il 1962.
La Corte d’Appello di Milano in esito ad una consulenza tecnica d’ufficio ha respinto le richieste, rilevando che per le vicende antecedenti al 1993 è intervenuto un giudicato, in esito a un complesso procedimento che aveva visto per due volte l’intervento della Corte di Cassazione e si era infine concluso con la sentenza n. 1754/2007, con la quale la Corte di legittimità ha ritenuto che i vincoli imposti in quest’arco di tempo e cioè quelli previsti dal piano servizi del 1980, fossero vincoli ablativi e non meramente conformativi, escludendo tuttavia il diritto all’indennizzo, rilevando che il fatto costitutivo del diritto all’indennizzo non è individuabile nell’imposizione originaria di un vincolo di inedificabilità, e neppure nella protrazione di fatto del medesimo dopo la sua decadenza – giacché in tal caso ben può il proprietario sollecitare l’esercizio del potere pianificatorio attraverso la procedura di messa in mora, e far accertare, di risulta, l’illegittimità del silenzio – bensì nell’atto che esplicitamente lo reitera. Pertanto, la Corte di merito, rilevato che in relazione ai vincoli urbanistici intervenuti nel periodo tra il 1964 e il 1993 sussiste un giudicato che copre il dedotto e deducibile, delinea il thema decidendum con riferimento ai soli vincoli urbanistici
intervenuti successivamente, tenendo conto che il DPR n. 327 del 2001 (TUE) è applicabile solo a decorrere dal 30 giugno 2003.
Rese queste premesse, la Corte d’appello osserva che le due varianti al piano regolatore predisposte nel periodo tra il 1993 e il 1997 non sono state approvate e al riguardo il proprietario non ha provato il danno, segnatamente la richiesta di concessioni edilizie sacrificate senza un preventivo bilanciamento di interessi; per il periodo successivo (1997-2007) la Corte osserva che decaduti i vincoli si è determinato un periodo di vuoto urbanistico, per sua natura provvisorio e avverso il quale il privato può reagire tramite la procedura di messa in mora poiché la pubblica amministrazione ha l’obbligo di ripianificare. Osserva poi la Corte che solo nel 2004 la proprietà aveva presentato un piano di lottizzazione in attuazione della convenzione. Indice che essa stessa riteneva che eventuali vincoli di inedificabilità in precedenza apposti dovessero ritenersi tutti decaduti. La commissione edilizia però aveva dato parere negativo e nel 2007 era stato adottato il nuovo piano che ha conferito all’intero compendio destinazione agricola mentre nel 2017 era intervenuta una variante generale che aveva confermato la destinazione agricola dell’area, vincolo che la Corte di merito considera di natura conformativa perché predisposto nell’ambito di una pianificazione urbanistica generale.
Avverso la predetta sentenza ha proposto ricorso per Cassazione la società affidandosi a due motivi. Ha presentato controricorso il Comune. Entrambe le parti hanno depositato memoria.
La causa è stata trattata all’udienza camerale non partecipata del 24 gennaio 2024
RITENUTO CHE
1.Con il primo motivo del ricorso si lamenta l’omesso esame di fatti decisivi per il giudizio ex. art 360, n. 5 c.p.c. e la violazione del giudicato. La parte deduce che erroneamente la sentenza
impugnata nega l’esistenza di vincoli sostanziali espropriativi e il diritto all’indennizzo, in ragione della mancata considerazione di fatti significativi da parte della Corte nella valutazione del caso. Infatti, nonostante il giudicato riguardante il periodo antecedente al 1993, la situazione del Compendio di RAGIONE_SOCIALE RAGIONE_SOCIALE è rimasta invariata nei suoi effetti sostanziali, con vincoli e impedimenti simili replicati attraverso varie fasi urbanistiche successive, e, pertanto, considerando il ‘post factum’ la società avrebbe avuto diritto all’indennizzo. In particolare, si sottolinea che la sentenza non tiene conto di un vincolo sostanzialmente espropriativo introdotto dal Piano dei Servizi del 1980 e ribadito nel 1981, il quale limitava la destinazione del terreno a servizi anziché a edilizia residenziale. Nonostante la decadenza di tale vincolo nel 1993, viene contestato il fatto che la sentenza non consideri le successive varianti urbanistiche e gli atti che, secondo il ricorrente, hanno replicato gli stessi contenuti e impedimenti.
Si evidenzia che il giudice di merito avrebbe dovuto valutare il periodo successivo al 1993 alla luce di ciò che era stato già accertato nel periodo precedente, sostenendo che la situazione di fatto e gli impedimenti sono rimasti invariati e si sono protratti nel tempo, giustificando così la richiesta di indennizzo da parte del proprietario. Infine, si fa notare che la sentenza non tiene conto delle risultanze della consulenza tecnica d’ufficio riguardanti il diniego di approvazione del Piano dei Servizi da parte della Regione Lombardia e la successiva conoscenza di tale provvedimento tramite un giudizio presso il TAR. La tesi sostenuta nella sentenza impugnata, secondo cui non ci sarebbero state iniziative della proprietà per avviare progetti residenziali nel periodo tra il 1985 e il 1993, viene contestata.
2.- Il motivo è infondato.
In primo luogo si osserva che, come correttamente osservato dalla Corte di merito, sulle vicende anteriori al 1993 è intervenuto
un giudicato non soltanto sulla natura del vincolo imposto ma anche sul diritto del privato a percepire una indennità; e segnatamente sul punto già la prima sentenza della Corte di Cassazione intervenuta nella vicenda (n. 13778/2002), aveva statuito che -nel caso di specie- soltanto l’ingiustificato rifiuto di rilasciare la concessione edilizia avrebbe reso configurabile il diritto del privato al risarcimento dei danni; e pertanto anche nella seconda sentenza di legittimità è stata respinta la richiesta di configurare la responsabilità della pubblica amministrazione anche in difetto della presentazione di una espressa istanza di concessione e del rifiuto della medesima, in quanto ciò avrebbe comportato una inammissibile riconsiderazione del principio già ormai definitivamente ed irrevocabilmente fissato nella sentenza n. 13778/02. Inoltre, è stato enunciato nella sentenza di questa Corte n. 1754/2007 (la seconda), un principio di diritto vincolante per la parte e cioè che il fatto costitutivo del diritto all’indennizzo non è individuabile nell’imposizione originaria di un vincolo di inedificabilità, e neppure nella protrazione di fatto del medesimo dopo la sua decadenza – giacché in tal caso ben può il proprietario sollecitare l’esercizio del potere pianificatorio attraverso la procedura di messa in mora, e far accertare, di risulta, l’illegittimità del silenzio – bensì nell’atto che esplicitamente lo reitera.
Le vicende successive non possono quindi essere esaminate alla luce degli eventi anteriori nel senso auspicato dalla parte, e cioè per desumerne una complessiva illegittimità della azione amministrativa, perché così si terrebbe conto non già della verità processuale, ormai definitivamente accertata per il periodo anteriore al 1993, e che va decisamente a sfavore della ricorrente, ma di una diversa ricostruzione dei fatti e della relativa valutazione in diritto. Ricostruzione dei fatti frutto di soggettiva interpretazione, contrastante con il giudicato civile e, secondo quanto deduce il Comune nella memoria conclusiva, anche con i
giudicati nelle more formatosi in sede amministrativa, poiché tutti i giudizi in sede amministrativa si sono conclusi a sfavore della società ricorrente e quindi non si evidenzia una illegittimità dell’azione della pubblica amministrazione.
Deve qui ribadirsi che la prospettazione del vizio ex art 360 n. 5 c.p.c. non può consistere nella difformità dell’apprezzamento dei fatti e delle prove dato dal giudice del merito rispetto a quello preteso dalla parte, spettando, come si è già anticipato, solo al giudice predetto individuare le fonti del proprio convincimento, valutare le prove, controllarne l’attendibilità e la concludenza, scegliere tra le risultanze istruttorie quelle ritenute idonee a dimostrare i fatti in discussione, dare prevalenza all’uno o all’altro mezzo di prova (cfr. Cass., SU, n. 8053 del 2014); mentre alla Corte di cassazione non è conferito il potere di riesaminare e valutare autonomamente il merito della causa, bensì solo quello di controllare, sotto il profilo logico e formale e della correttezza giuridica, l’esame e la valutazione compiuti dal giudice del merito, cui è riservato l’apprezzamento dei fatti (cfr. Cass. n. 30878 del 2023). 2.2.1. Inoltre, la già indicata nuova formulazione dell’art. 360, comma 1, n. 5, cod. proc. civ. ha ormai ridotto al ‘minimo costituzionale’ il sindacato di legittimità sulla motivazione (cfr. tra le più recenti, anche nelle rispettive motivazioni, Cass. n. 28390 del 2023; Cass. n. 26704 del 2023; Cass. n. 956 del 2023; Cass. n. 33961 del 2022; Cass. n. 27501 del 2022; Cass. n. 26199 del 2021; Cass. n. 395 del 2021; Cass. n. 9017 del 2018)
L’attuale art. 360, comma 1, n. 5, cod. proc. civ., riguarda, un vizio specifico denunciabile per cassazione relativo all’omesso esame di un fatto controverso e decisivo per il giudizio, da intendersi riferito ad un preciso accadimento o una precisa circostanza in senso storico naturalistico, come tale non ricomprendente questioni o argomentazioni, sicché sono inammissibili le censure che, come nella specie, irritualmente,
estendano il paradigma normativo a quest’ultimo profilo (cfr. Cass., SU, n. 23650 del 2022; Cass. n. 9351 del 2022; Cass. n. 2195 del 2022; Cass. n. 595 del 2022; Cass. n. 4477 del 2021; Cass. n. 395 del 2021; Cass. n. 22397 del 2019; Cass. n. 26305 del 2018; Cass., SU, n. 16303 del 2018).
La Corte di merito non ha omesso l’esame dei fatti salienti che connotano la vicenda, anzi l’ha ricostruita per intero, distinguendo i periodi in esame, individuando un diverso regime a seconda dei periodi.
In sintesi, la Corte ha ritenuto che vi sia stato un periodo connotato da vincoli espropriativi in cui però la parte non aveva comunque dato la prova di alcun pregiudizio, nè di avere sfruttato il periodo in cui scaduti i vincoli l’edificazione era tornata possibile e un periodo di c.d. vuoto urbanistico, cui la parte non ha reagito con gli appropriati strumenti a sua disposizione. Occorre qui ricordare che il vuoto urbanistico non è equiparabile alla compressione del diritto dominicale provocata dai vincoli preordinati all’esproprio, né è definibile come espropriazione di valore, attesa la provvisorietà del regime urbanistico di salvaguardia, ma il proprietario non resta senza tutela, ben potendo promuovere gli interventi sostitutivi della Regione, oppure reagire attraverso la procedura di messa in mora per far accertare l’illegittimità del silenzio , sicché solo in caso di persistente inerzia della P.A. può configurarsi la lesione del bene della vita identificabile nell’interesse alla certezza circa la possibilità di razionale e adeguata utilizzazione della proprietà, con conseguente diritto del privato al risarcimento del danno (Cass. n. 15162 del 11/06/2018). Infine la Corte ha individuato negli strumenti urbanistici più recenti la apposizione di vincoli conformativi e non espropriativi perché adottati nell’ambito di una generale pianificazione del territorio, giudizio di fatto, che in questa sede non è soggetto a revisione.
Pertanto con il motivo in esame si censura in realtà come la Corte d’appello ha valutato i fatti e non già l’omessa valutazione di fatti decisivi; anche la censura sul giudicato non è pertinente alla ragione decisoria prospettata la Corte.
3.- Con il secondo motivo del ricorso si lamenta la violazione e falsa applicazione, ex. art 360, c.1, n.3, c.p.c., degli artt. 3, 41, e 42 Cost; e dell’art. 1 del primo Protocollo addizionale alla CEDU nonché dell’art. 39 DPR 327/2001. Si lamenta altresì la violazione dei principi costituzionali e sovranazionali in materia di tutela della proprietà e iniziativa economica privata e di indennizzabilità dei vincoli alla proprietà privata. Parte ricorrente deduce che l’entrata in vigore dell’art. 39 del DPR 327/2001 solo a far data dal giugno 2003, non giustifica l’assenza di un obbligo di indennizzo per i periodi anteriori. Deduce che la Corte d’Appello non ha considerato adeguatamente le sue argomentazioni riguardo al diritto all’indennizzo. Si evidenzia che la giurisprudenza costituzionale e la CEDU considerano compressivi del diritto i periodi di vincolo e limitata edificabilità, ritenendo entrambi meritevoli di indennizzo.
Inoltre, si sottolinea che anche per il periodo precedente all’entrata in vigore dell’art. 39, esisteva l’obbligo di indennizzo secondo normative nazionali e sovranazionali e che il Comune, mediante ritardi e reticenze, ha impedito il pacifico godimento del diritto di proprietà. Parte ricorrente deduce altresì che, in base all’articolo 42, comma 3 della Costituzione e al primo protocollo addizionale alla Convenzione europea per i diritti dell’uomo (CEDU), il Comune è obbligato a fornire un indennizzo per la proprietà espropriata. Esprime dubbi sulla compatibilità del caso in esame con la normativa nazionale e internazionale, sottolineando l’importanza di considerare l’intera vicenda come un’unica e continua situazione. Si analizzano le diverse fasi della vicenda, includendo l’adozione di piani urbanistici, varianti non approvate, e misure di salvaguardia, sostenendo che tali azioni hanno
comportato una compressione ingiustificata del diritto di proprietà, rimarcando che nel 2004 la società aveva presentato un piano di lottizzazione che rappresentava l’unica opportunità concreta per adeguare il progetto alle esigenze del mercato immobiliare e alle normative territoriali.
4. Il motivo è inammissibile.
La censura presenta un duplice profilo di inammissibilità: in primo luogo non si confronta adeguatamente con la ratio decidendi poiché la Corte non ha affermato che in linea generale prima della entrata in vigore del testo unico sull’espropriazione non fossero indennizzabili i danni arrecati alla proprietà da vincoli reiterati, quanto piuttosto che in concreto nella fattispecie non si è evidenziato un pregiudizio, né vi sono state le appropriate reazioni del proprietario avverso il perdurare dello stato di incertezza. Inoltre la censura propone, come già si è osservato con riferimento al primo motivo, una valutazione dei fatti alternativa rispetto a quella data dalla sentenza impugnata, volta ad evidenziare una presunta illegittimità complessiva dell’azione amministrativa (non confermata in sede di pertinente contenzioso amministrativo). Sotto questo profilo si tratta di un giudizio di fatto che non può essere rivisto in questa sede; anche la vicenda relativa alla proposta di lottizzazione del 2004 è stata esaminata dalla Corte di merito ed anche su questo punto è stato reso un giudizio di fatto, rilevandosi che essa aveva ricevuto parere negativo da parte della commissione edilizia e che nessun addebito poteva essere mosso al Comune per la mancata attuazione del piano stante le negative emergenze dell’istruttoria.
Ne consegue il rigetto del ricorso; le spese seguono la soccombenza e si liquidano come da dispositivo
P.Q.M.
Rigetta il ricorso. Condanna la ricorrente al pagamento, in favore del controricorrente, delle spese del giudizio di legittimità, che liquida in euro 8.000,00 per compensi, euro 200,00 per spese non documentabili oltre alle spese forfettarie nella misura del 15 per cento , ed agli accessori di legge. Ai sensi dell’art. 13 comma 1 quater del d.P.R. n. 115 del 2002, inserito dall’art. 1, comma 17 della l. n. 228 del 2012, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso principale, a norma del comma 1-bis, dello stesso articolo 13, se dovuto.
Così deciso in Roma, il 24/01/2024.