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Indennizzo eccessiva durata: come si calcola?

La Corte di Cassazione, con l’ordinanza n. 20637/2024, ha stabilito un principio cruciale per il calcolo dell’indennizzo per eccessiva durata del processo (Legge Pinto) nell’ambito delle procedure fallimentari. La Corte ha chiarito che il parametro per determinare il valore della causa non è la somma effettivamente ricevuta dal creditore nel piano di riparto, ma il valore del credito per cui è stato ammesso al passivo. Questa decisione annulla la precedente sentenza che aveva limitato l’indennizzo, riconoscendo che l’aspettativa del creditore si basa sull’intero diritto accertato, non sull’esito, spesso parziale, della liquidazione fallimentare.

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Indennizzo per eccessiva durata nei fallimenti: la Cassazione fa chiarezza sul calcolo

L’eccessiva durata dei processi è una delle problematiche più sentite del sistema giudiziario italiano. Per tutelare i cittadini, la Legge Pinto prevede un indennizzo per eccessiva durata a favore di chi subisce un ritardo irragionevole. Ma come si calcola questo indennizzo quando il processo presupposto è una procedura fallimentare, spesso lunga e dall’esito incerto? Con l’ordinanza n. 20637/2024, la Corte di Cassazione ha fornito un’interpretazione fondamentale, stabilendo che il valore di riferimento è il credito ammesso al passivo, non la somma effettivamente incassata.

I Fatti di Causa

Un gruppo di creditori, dopo aver partecipato a una procedura fallimentare durata oltre vent’anni, aveva proposto una domanda per ottenere un equo indennizzo a causa dell’irragionevole durata del procedimento. Al termine della procedura, avevano ricevuto solo una minima parte del loro credito originario.

La Corte d’Appello, in un primo momento, aveva parzialmente accolto la loro richiesta ma, in sede di opposizione, aveva limitato l’indennizzo. Secondo i giudici di merito, il parametro di calcolo non doveva essere l’intero importo del credito ammesso al passivo fallimentare, bensì la somma, notevolmente inferiore, che i creditori avevano effettivamente ricevuto con il piano di riparto finale. La motivazione si basava sulla natura ‘endofallimentare’ del provvedimento di ammissione al passivo, sostenendo che i creditori avrebbero potuto agire contro il debitore, una volta tornato in bonis, per la parte residua del credito.

La Decisione della Corte di Cassazione

I creditori hanno impugnato questa decisione dinanzi alla Corte di Cassazione, che ha accolto il loro ricorso principale. Gli Ermellini hanno cassato il decreto della Corte d’Appello, affermando un principio di diritto opposto e di grande rilevanza pratica.

Parallelamente, la Corte ha accolto anche un ricorso incidentale del Ministero della Giustizia, relativo alla posizione di una singola creditrice. In questo caso, è stato rilevato che la Corte d’Appello non aveva adeguatamente verificato se la creditrice, erede del creditore originario, avesse i requisiti per richiedere l’indennizzo sia iure proprio (per un danno subito personalmente) sia iure hereditatis (come diritto ereditato).

Le motivazioni: perché conta il credito ammesso e non quello riscosso

Il cuore della decisione della Cassazione risiede nell’interpretazione dell’art. 2-bis della Legge Pinto. Questa norma stabilisce che l’indennizzo non può superare il “valore della causa” o, se inferiore, “quello del diritto accertato dal giudice”.

La Corte ha chiarito che, nel contesto di una procedura fallimentare, il “diritto accertato” corrisponde al credito per il quale il creditore è stato ammesso allo stato passivo. Questo è il momento in cui il diritto del creditore viene formalmente riconosciuto nell’ambito della procedura.

Legare l’indennizzo alla somma effettivamente riscossa nel piano di riparto sarebbe errato per diverse ragioni:
1. Certezza del Diritto: L’ammissione al passivo rappresenta la concretezza dell’aspettativa del creditore. È il diritto per cui egli ha subito il ritardo processuale.
2. Indipendenza da Fattori Esterni: L’importo finale distribuito dipende da variabili che non hanno nulla a che fare con il diritto del singolo creditore, come la presenza di altri creditori, la capienza dell’attivo fallimentare e le spese della procedura. Far dipendere l’indennizzo da questi fattori snaturerebbe la sua funzione riparatoria.

In sostanza, l’indennizzo per eccessiva durata deve ristorare il danno derivante dal tempo impiegato per ottenere il riconoscimento del proprio diritto, non dall’esito economico, spesso deludente, della procedura liquidatoria.

Le conclusioni e le Implicazioni Pratiche

Questa ordinanza rafforza la tutela dei creditori coinvolti in procedure concorsuali eccessivamente lunghe. Il principio stabilito è chiaro: per calcolare l’equo indennizzo, si deve guardare al valore del diritto che è stato oggetto del processo, ovvero il credito ammesso al passivo. La somma concretamente incassata alla fine del percorso è irrilevante a tal fine. Si tratta di una decisione che garantisce una maggiore equità e certezza, evitando che il diritto al ristoro per i ritardi della giustizia venga vanificato dalle incertezze e dalle inefficienze della fase di liquidazione dell’attivo fallimentare.

Come si calcola l’indennizzo per l’eccessiva durata di una procedura fallimentare?
L’indennizzo si calcola prendendo come riferimento il valore del credito per cui il creditore è stato ammesso allo stato passivo della procedura, oppure, se inferiore, il valore del credito originariamente insinuato. Non si deve considerare la somma inferiore che il creditore ha eventualmente ricevuto alla fine con il piano di riparto.

La somma effettivamente ricevuta da un creditore in un fallimento può limitare il suo diritto all’indennizzo per la lentezza del processo?
No. La Corte di Cassazione ha stabilito che l’importo effettivamente riscosso non è un limite per il calcolo dell’indennizzo. L’ammontare del riparto dipende da molteplici variabili indipendenti dal diritto del creditore e dalla durata del processo, quindi non può essere usato per limitare il risarcimento per il ritardo.

Un erede può chiedere l’indennizzo per un processo lento iniziato dal defunto?
Sì, ma a determinate condizioni. Per ottenere un indennizzo iure proprio (per un danno personale), l’erede deve aver partecipato attivamente alla procedura dopo la morte del dante causa. Per richiederlo iure hereditatis (come diritto ereditato), è necessario che il termine di durata ragionevole del processo fosse già superato al momento della morte del creditore originario.

La selezione delle sentenze e la raccolta delle massime di giurisprudenza è a cura di Carmine Paul Alexander TEDESCO, Avvocato a Milano, Pesaro e Benevento.

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