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Indennizzo contratti a termine: prova del danno non serve

La Corte di Cassazione ha confermato la decisione della Corte d’Appello che dichiarava inammissibile il ricorso di un’amministrazione pubblica. Il caso riguarda un lavoratore che ha ottenuto un indennizzo per la reiterazione abusiva di contratti a termine. La Suprema Corte ha ribadito che l’indennizzo previsto dall’art. 32, comma 5, L. n. 183/2010 costituisce una forma di danno presunto, di natura sanzionatoria (definito “danno comunitario”), che esonera il lavoratore dall’onere di provare la perdita di chance o qualsiasi altro pregiudizio specifico.

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Pubblicato il 7 novembre 2025 in Diritto del Lavoro, Giurisprudenza Civile, Procedura Civile

Indennizzo contratti a termine: la Cassazione conferma che la prova del danno non serve

Una recente ordinanza della Corte di Cassazione ha consolidato un principio fondamentale a tutela dei lavoratori del pubblico impiego: in caso di abuso nella successione di contratti a tempo determinato, l’indennizzo contratti a termine previsto dalla legge è automatico e non richiede che il dipendente fornisca la prova di aver subito un danno specifico, come la perdita di altre opportunità lavorative. Analizziamo questa importante decisione.

I Fatti di Causa

Il caso nasce dall’azione legale di un funzionario pubblico assunto da un’importante agenzia statale. Per oltre sette anni, il suo rapporto di lavoro era stato regolato da una serie di contratti a termine per lo svolgimento di funzioni dirigenziali. Ritenendo illegittima tale precarietà prolungata, il lavoratore si è rivolto al Tribunale per chiedere la conversione del rapporto in uno a tempo indeterminato e il risarcimento dei danni subiti.

L’Iter Giudiziario: Dal Tribunale alla Corte d’Appello

Il Tribunale di primo grado ha respinto la domanda di conversione del contratto, ma ha riconosciuto al lavoratore il diritto a un risarcimento per l’abusiva reiterazione dei contratti. Tale risarcimento è stato quantificato in otto mensilità di retribuzione, applicando l’art. 32, comma 5, della Legge n. 183/2010. Il giudice ha ritenuto che questa norma prevedesse un meccanismo di danno presunto, esonerando di fatto il lavoratore dal dover provare il pregiudizio subito.

L’amministrazione pubblica ha impugnato la decisione davanti alla Corte d’Appello, sostenendo che il lavoratore non avesse fornito alcuna prova della cosiddetta “perdita di chance”, ovvero della perdita di concrete opportunità lavorative a causa della sua posizione precaria. La Corte d’Appello, tuttavia, ha dichiarato l’impugnazione inammissibile. Il motivo? L’appello non si confrontava con la reale motivazione della sentenza di primo grado (la ratio decidendi), che si basava sull’applicazione di un regime speciale di indennizzo presunto, ma si limitava a richiamare principi generali sull’onere della prova del danno, non pertinenti al caso specifico.

Indennizzo contratti a termine e l’onere della prova

Il cuore della questione legale riguarda la natura dell’indennizzo contratti a termine nel pubblico impiego. L’amministrazione sosteneva che, per ottenere un risarcimento, il lavoratore dovesse dimostrare attivamente un danno. Al contrario, la giurisprudenza consolidata, richiamata sia in primo grado che in appello, interpreta la normativa di settore (prima l’art. 32 L. 183/2010, poi l’art. 28 D.Lgs. 81/2015) in conformità con il diritto dell’Unione Europea. Questa interpretazione qualifica l’indennizzo come un “danno comunitario”, ovvero un danno presunto con una chiara valenza sanzionatoria verso il datore di lavoro pubblico che abusa dei contratti a termine. Di conseguenza, il lavoratore è esonerato dall’onere di provare il danno.

Le Motivazioni della Suprema Corte

La Corte di Cassazione, investita del ricorso dall’amministrazione pubblica, ha rigettato il gravame, confermando in toto la decisione della Corte d’Appello. Gli Ermellini hanno sottolineato come il ricorso dell’ente riproponesse lo stesso vizio di fondo già evidenziato in appello: la mancata contestazione della ratio decidendi della sentenza impugnata. L’amministrazione ha continuato a insistere sulla necessità di provare la perdita di chance, ignorando completamente che il giudice di merito aveva applicato un regime legale speciale che esclude tale necessità.

La Suprema Corte ha ribadito che la giurisprudenza, a partire dalla sentenza delle Sezioni Unite n. 5072/2016, è unanime nel considerare l’indennizzo in questione come un danno presunto, sanzionatorio e onnicomprensivo, che solleva il lavoratore da ogni onere probatorio. L’onere della prova tornerebbe in capo al lavoratore solo qualora egli chiedesse un risarcimento per danni ulteriori e diversi rispetto a quelli coperti dall’indennizzo forfettario. Poiché il ricorso dell’amministrazione non si è mai confrontato con questo consolidato orientamento, ma ha invocato principi non pertinenti, la decisione della Corte d’Appello di dichiararlo inammissibile è stata ritenuta corretta.

Conclusioni

Questa pronuncia rafforza un importante baluardo a protezione dei lavoratori precari nel settore pubblico. Viene definitivamente chiarito che l’indennizzo per l’abuso dei contratti a termine non è un risarcimento del danno in senso classico, che richiede una prova puntuale del pregiudizio, ma una misura sanzionatoria e riparatoria standardizzata, il cui diritto sorge per il solo fatto della reiterazione illegittima dei contratti. Per il lavoratore, ciò significa una tutela più certa e agevole da ottenere in giudizio. Per le pubbliche amministrazioni, rappresenta un monito a utilizzare lo strumento del contratto a termine in modo corretto e conforme alla legge, per non incorrere in sanzioni economiche automatiche.

In caso di reiterazione abusiva di contratti a termine nel pubblico impiego, il lavoratore deve provare di aver subito un danno per ottenere l’indennizzo?
No. Secondo la Corte di Cassazione, l’indennizzo previsto dall’art. 32, comma 5, della L. n. 183/2010 (e norme successive) costituisce un danno presunto. Pertanto, il lavoratore è esonerato dall’onere probatorio riguardo al danno subito, che viene considerato esistente per il solo fatto dell’abuso contrattuale.

Che cos’è il “danno comunitario” menzionato dalla Cassazione in questi casi?
Il “danno comunitario” è una qualificazione giuridica che descrive il pregiudizio derivante dalla violazione di norme dell’Unione Europea, come quelle volte a prevenire l’abuso dei contratti a termine. In questo contesto, l’indennizzo assume una valenza sanzionatoria e riparatoria, determinata in via forfettaria tra un minimo e un massimo, per garantire una tutela effettiva al lavoratore, come richiesto dal diritto europeo.

Perché l’appello dell’Amministrazione Pubblica è stato dichiarato inammissibile?
L’appello è stato dichiarato inammissibile perché non si è confrontato con la reale motivazione (la ratio decidendi) della sentenza di primo grado. Il Tribunale aveva basato la sua decisione sul principio del danno presunto previsto dalla normativa speciale, mentre l’Amministrazione ha basato il suo appello sui principi generali della prova del danno da “perdita di chance”, ignorando completamente il quadro normativo specifico applicato dal giudice.

La selezione delle sentenze e la raccolta delle massime di giurisprudenza è a cura di Carmine Paul Alexander TEDESCO, Avvocato a Milano, Pesaro e Benevento.

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