Ordinanza di Cassazione Civile Sez. L Num. 8685 Anno 2025
Civile Ord. Sez. L Num. 8685 Anno 2025
Presidente: NOME
Relatore: COGNOME
Data pubblicazione: 02/04/2025
ORDINANZA
sul ricorso 17082-2020 proposto da:
COGNOME NOMECOGNOME elettivamente domiciliata presso l’indirizzo PEC dell’avvocato NOME COGNOME che la rappresenta e difende;
– ricorrente –
contro
REGIONE CAMPANIA, in persona del Presidente pro tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, INDIRIZZO presso L’UFFICIO DI RAPPRESENTANZA DELLA REGIONE CAMPANIA, rappresentata e difesa dall’avvocato NOME COGNOME;
– controricorrente –
Oggetto
Retribuzione pubblico impiego
R.G.N.17082/2020
COGNOME
Rep.
Ud.20/02/2025
CC
avverso la sentenza n. 3880/2019 della CORTE D’APPELLO di NAPOLI, depositata il 16/10/2019 R.G.N. 3125/2017; udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del 20/02/2025 dal Consigliere Dott. COGNOME
RILEVATO CHE:
con sentenza del 16 ottobre 2019 la Corte d’appello di Napoli riformava la sentenza del Tribunale della stessa sede accogliendo il gravame della Regione Campania e revocando il decreto ingiuntivo n. 1712/2016 emesso in favore dell’avv. NOME COGNOMEdipendente appartenente al ruolo degli avvocati dell’ente per l’ammontare di euro 69.333,32 oltre accessori, a titolo di indennità speciale per gli anni 2012-2014;
la Corte territoriale rilevava preliminarmente che l’opposizione avverso il decreto ingiuntivo non poteva essere ritenuta tardiva perché l’indirizzo PEC della Regione ove era stata trasmessa la copia informatica dell’atto, in data 5/10/2016, non era quello risultante dal ‘Reginde’ ; sicché la notifica era nulla e non poteva dirsi sanata per effetto del raggiungimento dello scopo, posto che l’atto (i.e., decreto ingiuntivo) era stato smistato da un ufficio all’altro perdendosi l’immediata identificazione d el ‘mittente’, il quale ultimo, in data 13 ottobre 2016, e dunque solo pochi giorni dal dì della notifica nulla, aveva reiterato la notifica -ingenerando così affidamento sul superamento del primo atto -del decreto ingiuntivo, quest’ultimo infine tempestivamente opposto;
3. nel merito la Corte rilevava l’ assoluta inadeguatezza contenutistica della delibera n. 196/2015 della G.R. Campania, la quale non era affatto attuativa del giudicato del TAR (sent. n. 1196 del 20/2/2015), come peraltro affermato dal Consiglio di Stato nella sentenza n. 1507/2016; la delibera in menzione , nel riconoscere un’indennità speciale annua lorda di €. 16.000 ,00, non si uniformava all’art. 40 comma 3 (e 30 comma 2) del reg. n. 12/2011 che consentiva sì di individuare, con specifica motivazione, ‘posizioni retributive’ ma pur sempre a fronte dell’istituzione di ‘posizioni organizzative’ di alta professionalità non dirigenziale, come chiarito nello stesso regolamento;
la Corte distrettuale osservava che il credito non era neppure liquido, in quanto l’ammontare indicato nella delibera non era chiaro se fosse da intendere come somma globale ovvero da attribuire individualmente (cosa che la remunerazione della ‘ elevata professionalità ‘ in sé richiederebbe);
la Corte d’appello aggiungeva, infine, che erano noti i limiti della potestà normativa regionale con riguardo alla materia dell’ordinamento civile, sicché, non potendo esserci spazio di disciplina regionale del trattamento economico del personale dipendente mediante attribuzione di indennità aggiuntive non previste dalla contrattazione collettiva, l’art. 40 comma 3 del reg. n. 12/2011 cit. doveva intendersi alla luce di tali principi e sottostare alla fonte statale (art. 117 co. 2 lett. l) Cost.) e collettiva (art. 245 del t.u.p.i.), fatto salvo quanto previsto dall’art. 40 comma 3 quinquies d.lgs. n. 165/2001 in ordine alla destinazione di risorse regionali alla contrattazione integrativa;
4. contro tale sentenza propone ricorso per cassazione la lavoratrice sulla base di tre motivi, cui si oppone con controricorso la Regione Campania.
CONSIDERATO CHE:
1. con il primo motivo si deduce violazione ed errata applicazione dell’articolo 156 comma 3 cod. proc. civ. nonché violazione e falsa applicazione dell’articolo 479 cod. proc. civ. sulla finalità della notifica del decreto ingiuntivo n. 1712/2016 con formula esecutiva; si lamenta l’inammissibilità per tardività del ricorso in opposizione al decreto ingiuntivo n. 1712/2016, cit., reso dal Tribunale di Napoli in favore dell’avv. NOME COGNOME
il ricorso e il pedissequo decreto ingiuntivo erano stati notificati via PEC (seppure ad indirizzo inidoneo) il 4/10/2016 e, poi, il 13/10/2016 in copia esecutiva ai sensi dell’art. 479 cod. proc. civ., mentre l’opposizione era stata proposta (oltre il termine di gg. 40) con ricorso depositato solo il 16/11/2016; la prima notifica, come emerso in sede di accesso agli atti, era stata tuttavia reinoltrata all’indirizzo corretto il giorno 5/10/2016 alle ore 17.12.20, donde l’effetto sanante del raggiungimento dello scopo ex art. 156 cod. proc. civ.;
2. il motivo non è fondato;
va premesso che se il decreto ingiuntivo è stato notificato, anche se la notifica sia nulla o fuori termine, l’unico rimedio esperibile contro di esso è l’opposizione prevista dall’art. 645 cod. proc. civ. (Cass. n. 3994 del 2016, in motiv.; Cass. n. 8126 del 2010; Cass. n. 19239 del 2004); la nullità della notificazione del decreto ingiuntivo rileva unicamente perché consente la proposizione dell’opposizione tardiva (art. 650 cod. proc. civ.) e non anche ai fini della declaratoria d’inefficacia del decreto ai sensi dell’art. 644 cod. proc. civ., la quale, infatti, non può essere pronunciata se non a condizione dell’inesistenza della notifica del decreto: la notificazione del decreto, se nulla, resta pur sempre indice della volontà del creditore di
avvalersi del decreto stesso (Cass. 18791/2009), con la conseguente necessità, in tale ipotesi, di escludere la presunzione di abbandono del titolo che costituisce il fondamento della previsione di inefficacia di cui all’art. 644 cod. proc. civ.;
nella specie, è pacifico che la notifica è stata fatta a un indirizzo PEC errato: va ribadito, allora, che in tema di notificazione a mezzo PEC, ai sensi del combinato disposto dell’art. 149 bis cod. proc. civ. e dell’art. 16 ter del d.l. n. 179 del 2012, introdotto dalla legge di conversione n. 221 del 2012, l’indirizzo del destinatario al quale va trasmessa la copia informatica dell’atto è, per i soggetti i cui recapiti sono inseriti nel Registro generale degli indirizzi elettronici gestito dal Ministero della giustizia (Reginde), unicamente quello risultante da tale registro;
ne consegue, ai sensi dell’art. 160 cod. proc. civ., la nullità della notifica eseguita presso un diverso indirizzo di posta elettronica certificata del destinatario (Cass. 11 maggio 2018, n. 11574); tale nullità è sanabile ai termini dell’art. 156, terzo comma, cod. proc. civ. solo per effetto del raggiungimento dello scopo che secondo il giudice d’appello, con accertamento di fatto qui insindacabile, non è in concreto avvenuto perché la trasmissione del documento informatico da un ufficio all’altro ha fat to perdere l’immediata identificabilità del ‘mittente’ e della natura dell’atto, con conseguente compromissione del diritto di difesa del destinatario che ben avrebbe potuto fare assegnamento sul superamento della (prima) notifica anche per via della sua eseguita rinnovazione (seppur ad altri fini) in data 13/10/2016: e, dunque, solo pochi giorni dopo la (prima) notifica nulla;
di qui la corretta conclusione -tratta dai giudici di seconde cure della ammissibilità dell’opposizione rispetto a tale seconda notificazione,
se del caso da (ri)qualificarsi come opposizione tardiva ex art. 650 cod. proc. civ.;
segue, or dunque, la reiezione del primo motivo;
col secondo motivo si denuncia la nullità della sentenza e del procedimento ai sensi dell’art. 360 n. 4 cod. proc. civ. per omesso esame di documenti decisivi sulla inammissibilità per tardività del ricorso in opposizione a decreto ingiuntivo reso in favore dell’avv. NOME COGNOME
la Corte distrettuale non aveva esaminato altre 16 notifiche di decreti ingiuntivi analoghi, parimenti consegnati (il 4/10/2016) all’ erroneo indirizzo PEC urpEMAILpec.regione.campania.it e poi trasmessi il giorno seguente (5/10/2016) a ll’indirizzo corretto EMAILecEMAILregioneEMAILcampaniaEMAIL, non avvedendosi che in relazione agli stessi il difensore di controparte, avv. COGNOME aveva proposto tempestive opposizioni;
il motivo, che fa valere la ‘decisività’ di elementi documentali di cui si assume la produzione nell’incarto processuale e la cui valutazione sarebbe stata omessa dal giudice d’appello, non è stato formulato nel rispetto degli oneri di trascrizione ex art. 366 n. 6 cod. proc. civ. e risulta prospettato, peraltro, come error in procedendo e non ai sensi dell’art. 360 n. 5 cod. proc. civ.;
della questione in esame non si parla nella sentenza impugnata: opera quindi il principio consolidato nella giurisprudenza di questa Corte, secondo il quale qualora con il ricorso per cassazione siano prospettate questioni di cui non vi sia cenno nella sentenza impugnata, è onere della parte ricorrente, al fine di evitarne una statuizione di inammissibilità per novità della censura, non solo di allegare l’avvenuta loro deduzione innanzi al giudice di merito, ma
anche, in ossequio al principio di autosufficienza del ricorso stesso, di indicare in quale specifico atto del giudizio precedente lo abbia fatto, onde dar modo alla Suprema Corte di controllare “ex actis” la veridicità di tale asserzione prima di esaminare il merito della suddetta questione;
trattasi di adempimenti non assolti, il che si riverbera in termini di inammissibilità del motivo di ricorso;
5. con il terzo motivo si denuncia violazione e falsa applicazione dell’art. 112 cod. proc. civ., violazione ed errata applicazione dell’art. 30 comma 2 e dell’art. 40 del reg. regionale n. 12/2011, dell’art. 1 comma 43 legge reg. n. 4/2011, della delibera di G.R. n. 196/2015; si denuncia erronea, carente e contraddittoria valutazione degli effetti di accertamento sostanziale del diritto in contesa determinatisi in conseguenza della sentenza del Tar n. 1196 del 2015, divenuta res iudicata ; si lamenta infine l’ elusione di giudicato;
la ricorrente sostiene che la normativa professionale degli avvocati degli enti locali inscritti all’albo speciale, se non costituisce un ‘corpus normativo a sé di carattere speciale’, consente comunque una deroga, ex art. 69 comma 11 del d.lgs. n. 165/2001, alle norme dello stesso t.u.p.i., il quale distingue «da tutti gli altri dipendenti pubblici coloro che svolgono compiti che comportano l’iscrizione agli albi professionali», di qui la possibilità che vi sia rimessione dei profili «retributivi alla concorrente normativa regionale»;
la sentenza impugnata aveva ‘eluso’ il giudicato (Tar, sent. n. 1196/2015) che aveva statuito attribuendo delle «competenze regionali nella determinazione dell’indennità» degli avvocati dell’ente ed escludendo la rimessione della materia alla competenza della contrattazione collettiva;
6. la doglianza, non esente da profili di inammissibilità laddove non censura specificamente il passaggio della sentenza, costituente autonoma ratio decidendi, secondo cui «il credito, poi, non è neppure liquido, in quanto l’ammontare indicato nella delibera non si comprende neppure se sia globale o individuale come, per il vero, la remunerazione della elevata professionalità richiederebbe», è comunque infondata;
nella specie la sentenza impugnata, nel riportare in primis l’art. 30 comma 2 del regolamento n. 12/2011 della Regione Campania, che stabilisce «Agli avvocati dell’avvocatura con la qualifica di funzionari, appartenenti al ruolo professionale è attribuita un’indennità speciale, in sede di prima applicazione, secondo le modalità previste dall’articolo 40, comma 3» e nel far riferimento poi all’art. 40, comma 3, stesso reg., che prevede «Salvo quanto previsto dai contratti collettivi di lavoro, presso le strutture organizzative della Giunta regionale possono essere istituite posizioni organizzative di alta professionalità non dirigenziale, che richiedono il possesso di competenze specialistiche e comportano l’assunzione diretta di elevata responsabilità di prodotto e di risultato. Con deliberazione della Giunta regionale sono indicati i criteri per l’individuazione di dette posizioni organizzative, il loro numero massimo, nonché la loro ripartizione tra le strutture organizzative della Giunta, nonché le posizioni retributive riferibili alle stesse», conclude, infine, nel senso che la delibera n. 196/2015 realizza indiscutibilmente un’attribuzione economica al dipendente-avvocato del tutto al di fuori della cornice normativa di riferimento (art. 40 comma 3 reg. cit.);
tale delibera non istituisce, infatti, alcuna posizione organizzativa né valuta i criteri di individuazione delle stesse P.O., senza che possa
ritenersi, oltretutto, attuativa del giudicato costituito dalla sentenza del TAR n. 1196/2016 cit.; ne consegue, pertanto, ad avviso del giudice d’appello, l’illegittimità di tale trattamento economico adottato in violazione anche della riserva di disciplina statale e collettiva in materia di ordinamento civile;
6.1 tale conclusione è pienamente condivisibile, pur richiedendo alcune precisazioni in questa sede;
in tema di pubblico impiego privatizzato, il principio di pari trattamento di cui all’art. 45 del d.lgs. n. 165 del 2001 vieta , come noto, trattamenti individuali migliorativi o peggiorativi rispetto a quelli previsti dalla contrattazione collettiva (Cass., Sez. L, n. 6553 del 6 marzo 2019); in particolare, l’atto con cui venga attribuito a un dipendente un trattamento economico non conforme alle previsioni di legge o del contratto collettivo è nullo ed obbliga la P.A. all’azione di recupero di quanto indebitamente corrisposto (Cass., Sez. L, n. 6715 del 10 marzo 2021);
questo orientamento, peraltro, è consolidato presso la giurisprudenza di legittimità ed è stato in particolare ribadito, con affermazione di principio che qui può trovare piana applicazione, in casi nei quali si trattava del compenso spettante ai dipendenti-avvocati degli enti del comparto sanità (Cass., Sez. L, n. 21520 del 31/7/2024; Cass., Sez. L, n. 12332 del 18 maggio 2018; Cass., Sez. L, n. 12333 del 18 maggio 2018; Cass., Sez. L, n. 6553 del 6 marzo 2019; Cass., Sez. L, n. 8168 del 24 aprile 2020; Cass., Sez. L, n. 8169 del 24 aprile 2020; Cass., Sez. L, n. 9793 del 26 maggio 2020; Cass., Sez. L, n. 26156 del 17 novembre 2020);
né vale addurre -come fa la difesa della COGNOME -che le regole del rapporto di pubblico impiego dovrebbero uniformarsi alla disciplina
speciale dell’ordinamento della professione di avvocato degli enti locali, dovendosi tenere conto, infatti, che la ricorrente, ancorché avvocato, è un pubblico impiegato, con l’effetto che il suo rapporto con l’ente di appartenenza è inderogabilmente regolato dalla normativa sul pubblico impiego e dalla relativa contrattazione collettiva;
infatti, la corresponsione «dell’indennità speciale di P.O.» (art. 40 comma 3 reg. cit.) presuppone, a monte, ai sensi degli artt. 2 e 45 del d.lgs. n. 165 del 2001 e dell’art. 10 CCNL 22 gennaio 2004 (che rinvia al CCNL 1 marzo 1999), l’accordo con le organizzazioni sindacali in ordine ai criteri d’individuazione delle specifiche posizioni organizzative, al loro numero massimo e alla ripartizione tra le strutture regionali con le corrispondenti posizioni retributive, ossia su tutti quegli adempimenti espressamente previsti dall’art. 40, comma 3, del regolamento regionale n. 12 del 2011, da leggersi nella cornice più ampia della disciplina di legge e collettiva di riferimento;
il pagamento dell’indennità esige, dunque, la preventiva osservanza della contrattazione collettiva, anche (e se del caso) integrativa, e la quantificazione del quantum debeatur , ossia l’individuazione delle somme concretamente spettanti a ciascun interessato, che, nella specie, come giustamente annota il Consiglio di Stato nella sentenza n. 1507/2016, cit., non sono mai state singolarmente definite e individuate nel dettaglio in relazione alle specifiche posizioni lavorative rivestite da ciascun avvocato;
opinando diversamente, e stante anche il disallineamento che si realizzerebbe rispetto all’assetto comune dell’impiego pubblico privatizzato, si dovrebbe sospettare la normativa regionale nel suo complesso (art. 1 comma 43 legge reg. n. 4/2011 e art. 40
regolamento n. 12/2011) di violazione dell’art. 117, co mma 2 lett. l) della Costituzione per essere intervenuta, come non le è concesso, nella materia dell’ordinamento civile , di competenza legislativa esclusiva dello Stato;
con riferimento ai profili privatistici di regolazione del rapporto di lavoro, la Consulta infatti -si cita da Corte costituzionale 25 luglio 2022, n. 190 -«ha costantemente affermato che la disciplina del rapporto di lavoro dei dipendenti pubblici rientra nella materia «ordinamento civile», attribuita in via esclusiva al legislatore statale dall’art. 117, secondo comma, lettera l), Cost. (sentenze n. 146, n. 138 e n. 10 del 2019); ciò comporta che le Regioni non possono alterare le regole che disciplinano tali rapporti privati ( ex multis , sentenza n. 282 del 2004)’, ed ha altresì ribadito che «’a materia dell’ordinamento civile, riservata in via esclusiva al legislatore statale, investe la disciplina del trattamento economico e giuridico dei dipendenti pubblici e ricomprende tutte le disposizioni che incidono sulla regolazione del rapporto di lavoro ( ex plurimis , sentenze n. 175 e n. 72 del 2017, n. 257 del 2016, n. 180 del 2015, n. 269, n. 211 e n. 17 del 2014) ‘ (sentenza n. 257 del 2020)» (sentenza n. 25 del 2021); aggiungendosi altresì che, ‘con riguardo alla disciplina dei rapporti di lavoro pubblico e alla loro contrattualizzazione, è stato affermato dalla stessa Corte che «i principi fissati dalla legge statale in materia ‘costituiscono tipici limiti di diritto privato, fondati sull’esigenza, connessa al precetto costituzionale di eguaglianza, di garantire l’uniformità nel territorio nazionale delle regole fondame ntali di diritto che disciplinano i rapporti fra privati e, come tali, si impongono anche alle Regioni a statuto speciale ‘» (sentenza n. 154 del 2019; nello stesso senso, sentenze n. 232 e n. 81 del 2019, n. 234 del 2017, n. 225 e n. 77 del 2013)»;
tutto ciò orienta univocamente verso un’interpretazione della normativa regionale nei sensi prospettati nella sentenza impugnata e cioè coerente con i principi dell’ordinamento generale del d.lgs. 165/2001 (cfr. Cass. n. 11953 del 5/5/2023);
6.2 del tutto inconferente è, infine, l’ulteriore affermazione del ricorrente in ordine all’elusione del giudicato perché, come chiarito già dal Consiglio di Stato (sent. n. 1507/2016 cit.), «…la sentenza oggetto d’ottemperanza non contiene (nemmeno implicitamente) – né poteva farlo -la condanna al pagamento dell’indennità, la statuizione sulla concreta spettanza del beneficio economico accessorio del trattamento retributivo non rientrava nell’ambito della cognizione del giudice amministrativo, sussistendo al riguardo la giurisdizione del giudice civile, in funzione di giudice del lavoro; in altri termini, a suo tempo il giudizio di cognizione era stato proposto dagli interessati quali titolari di interessi legittimi, che lamentavano l’illegittimità del silenzio dell’Amministrazione: essi nel giudizio di ottemperanza hanno prospettato che si sarebbe formato un giudicato sulla spettanza di somme di denaro (e su loro diritti soggettivi), ciò che va con evidenza escluso»;
tanto basta, or dunque, per la reiezione del ricorso;
le spese di legittimità, liquidate in dispositivo, seguono la soccombenza.
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso. Condanna la ricorrente al pagamento, in favore della controricorrente, delle spese del giudizio di legittimità, che liquida in €. 5 .000,00 per compensi, oltre € 200,00 per esborsi,
oltre al rimborso forfettario nella misura del 15% ed accessori di legge.
Ai sensi dell’art. 13, comma 1 -quater, del d.P.R. n. 115 del 2002, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso norma del comma 1-bis, dello stesso articolo 13, se dovuto.
Così deciso in Roma nella camera di consiglio della Sezione Lavoro