Ordinanza di Cassazione Civile Sez. L Num. 33310 Anno 2024
Civile Ord. Sez. L Num. 33310 Anno 2024
Presidente: COGNOME
Relatore: COGNOME
Data pubblicazione: 19/12/2024
ORDINANZA
sul ricorso 14327-2022 proposto da:
COGNOME, elettivamente domiciliato in ROMA, INDIRIZZO presso lo studio dell’avvocato NOME COGNOME rappresentato e difeso dall’avvocato NOME COGNOME;
– ricorrente –
contro
RAGIONE_SOCIALE in persona del legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, INDIRIZZO presso lo studio dell’avvocato NOME COGNOME rappresentata e difesa dagli avvocati NOME COGNOME, NOME COGNOME;
– controricorrente –
avverso la sentenza n. 287/2021 della CORTE D’APPELLO di PERUGIA, depositata il 02/12/2021 R.G.N. 55/2021; udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del
19/11/2024 dalla Consigliera NOME COGNOME
Oggetto
Licenziamento disciplinare
R.G.N. 14327/2022
COGNOME
Rep.
Ud.19/11/2024
CC
Rilevato che:
1. La Corte d’appello di Perugia ha respinto l’appello di NOME COGNOME confermando la sentenza di primo grado che, rigettate le domande di risarcimento del danno da demansionamento e di pagamento dell’indennità di cassa, aveva dichiarato illegittimo il licenziamento disciplinare intimato al COGNOME il 5 aprile 2018 ed aveva condannato la RAGIONE_SOCIALE con socio unico alla reintegra e al pagamento di una indennità risarcitoria pari a dodici mensilità dell’ultima di retrib uzione di riferimento per il trattamento di fine rapporto nonché al versamento dei contributi previdenziali e assistenziali dal licenziamento fino all’ effettiva reintegra, in base all’art. 3, comma 2, del d.lgs. n. 23 del 2015. 2. La Corte territoriale ha premesso che al COGNOME, impiegato responsabile della sala giochi di Terni, era stato contestato di aver consumato bevande alcoliche insieme ad un collega, durante l’orario di lavoro e all’interno dei locali aziendali, contravvenendo all’espresso divieto imposto dal regolamento aziendale e, in ogni caso, senza pagare il corrispettivo ma dando disposizione all’addetto al bar di registrare la consumazione come offerta dalla società. Quest’ultima era rimasta contumace in primo grado , non adempiendo all’onere di prova sulla stessa gravante ai sensi dell’art. 5, legge 604 del 1966, e il tribunale aveva ritenuto integrata l’ipotesi di insussistenza del fatto contestato, contemplata dall’art. 3, secondo comma, del d.lgs. 23 del 2015. La sentenza impugnata, per quanto ancora rileva, ha respinto l’appello del lavoratore poiché la tutela applicata risultava conforme a legge ed ha condannato l’appellante alla rifusione delle spese del grado.
Avverso la sentenza NOME COGNOME ha proposto ricorso per cassazione affidato a due motivi. La RAGIONE_SOCIALE con socio
unico ha resistito con controricorso. Entrambe le parti hanno depositato memoria.
Il Collegio si è riservato di depositare l’ordinanza nei successivi sessanta giorni, ai sensi dell’art. 380 bis.1 c.p.c., come modificato dal d.lgs. n. 149 del 2022.
Considerato che:
Con il primo motivo di ricorso è dedotta violazione o falsa applicazione dall’art. 3, secondo comma, del d.lgs. 23 del 2015 in relazione agli artt. 1, 3, 4, 35, 36 Cost. Il ricorrente censura la disciplina legislativa che limita a dodici mensilità l’ind ennità risarcitoria prevista dalla disposizione richiamata, anche nell’ipotesi in cui, a causa dell’illegittimo recesso, il lavoratore sia rimasto senza lavoro e senza retribuzione per un tempo superiore, come nel caso di specie, e reputa non dissuasiva tale disciplina limitativa. Sollecita una interpretazione della stessa in senso costituzionalmente orientato, oltre che conforme ai principi di diritto sovranazionale di cui all’art. 30 CDFUE, all’art. 10 della Convenzione Oil n. 158/1982 e all’art. 24 della Carta sociale europea, e sollecita la proposizione di una questione di legittimità costituzionale per contrasto con gli artt. 1, 3, 4, 35, 36 Cost.
Il motivo non può trovare accoglimento.
Non si pone un problema di violazione di legge atteso che la Corte di merito ha interpretato ed applicato l’art. 3, secondo comma, del d.lgs. 23 del 2015, in conformità al tenore letterale dello stesso e alla lettura che ne è stata data dalla giurisprudenza di legittimità e costituzionale.
Neppure ricorrono i presupposti di non manifesta infondatezza della prospettata questione di legittimità costituzionale.
9. La Corte Costituzionale, nell’esaminare la disciplina dettata in materia di licenziamento dalla legge n. 92 del 2012 e poi dal d.lgs. n. 23 del 2015, ha più volte affermato che la reintegrazione non costituisce il solo e indefettibile modello di tutela del prestatore a fronte dell’illegittimità del licenziamento, che sia compatibile con la garanzia costituzionale del lavoro (v. sentenza n. 46 del 2000 nonché, in tema di legittimità dell’esclusione della tutela reale nelle imprese sotto la prevista soglia dimensionale, sentenze n. 2 del 1986, n. 152 del 1975 e n. 55 del 1974); ha riconosciuto che il legislatore, nell’esercizio della sua discrezionalità, può operare una diversa scelta della disciplina di contrasto dei licenziamenti illegittimi sempre che risulti una tutela adeguata e sufficientemente dissuasiva (sentenza n. 7 del 2024); ha sottolineato che la reintegrazione non costituisce «l’unico possibile paradigma attuativo» dei principi costituzionali (sentenze n. 125 del 2022; n. 59 del 2021 e n. 46 del 2000), in quanto «molteplici possono essere i rimedi idonei a garantire una adeguata compensazione per il lavoratore arbitrariamente licenziato» (sentenza n. 254 del 2020); ha rimarcato che la tutela debba essere, comunque, adeguata e sufficientemente dissuasiva, precisando (sentenza n. 7 del 2024), anche con riferimento al parametro interposto rappresentato dall’art. 24 della Carta Sociale Europea, che «l’adeguatezza e sufficiente dissuasività del sistema di contrasto dei licenziamenti illegittimi vanno valutate nel complesso e non già frazionatamente, tenendo quindi conto della gradualità e proporzionalità della sanzione che il legislatore, nell’esercizio non irragionevole della sua discrezionalità, ha previsto come differenziata».
10. Ciò che va salvaguardato, ha ribadito il Giudice delle leggi, è la «complessiva adeguatezza» della tutela che il legislatore
può «adattare secondo una pluralità di criteri, anche in considerazione delle diverse fasi storiche» (sentenza n. 150 del 2020). Ha aggiunto che è ben possibile una tutela più ampia e più incisiva, come quella sollecitata dal Comitato europeo dei diritti s ociali nella decisione dell’11 febbraio 2020, ma che appartiene alle scelte di politica sociale, rientranti nella discrezionalità del legislatore, fissare il sistema di contrasto dei licenziamenti illegittimi nella gamma di quelli che, pur in misura diversa e con differente incisività, rispondono tutti, nel loro complesso, al canone costituzionale di adeguatezza e sufficiente dissuasività (sentenza n. 7 del 2024).
11. La Corte Costituzionale (sentenza n. 128 del 2024) ha espressamente ribadito la valutazione di adeguatezza e sufficiente dissuasività rispetto all’apparato complessivo di tutela nei confronti del licenziamento illegittimo, quale contenuto nel d.lgs. n. 23 del 2015, successivamente novellato dal decreto-legge n. 87 del 2018, come convertito, ed emendato da pronunce di illegittimità costituzionale; apparato che prevede la tutela reintegratoria piena in caso di licenziamento nullo (non solo in caso di nullità espresse: sentenza n. 22 del 2024) o discriminatorio; la tutela reintegratoria attenuata ove il licenziamento (non solo quello disciplinare, ma anche quello per giustificato motivo oggettivo: sentenza n. 128 del 2024) si fondi su un ‘fatto insussistente’; la tutela indennitaria estesa fino anche a trentasei mensilità di retribuzione in caso di difetto di giusta causa o di giustificato motivo (sentenza n. 194 del 2018) o fino a dodici mensilità in caso di vizi formali o procedurali (sentenza n. 150 del 2020). La Corte Costituzionale ha riconosciuto che, anche se a seguito del d.lgs. n. 23 del 2015 si è ridotta -per i lavoratori assunti a partire dal 7 marzo 2015 -l’area della tutela reintegratoria rispetto alla disciplina posta
dalla legge n. 92 del 2012, e ancor più rispetto a quella precedente della generale tutela reintegratoria (art. 18 statuto lavoratori, nel testo vigente fino alla modifica di cui alla citata legge n. 92 del 2012), tuttavia «rimane, nel complesso, un ancora sufficiente grado di adeguatezza e dissuasività del regime di tutela nei confronti del licenziamento illegittimo e non si è raggiunta la soglia oltre la quale una carente disciplina di contrasto del licenziamento illegittimo entrerebbe in frizione con la tutela costituzionale del lavoro (artt. 1, 4 e 35 Cost.)».
12. Le inequivoche affermazioni della Corte costituzionale portano a giudicare le questioni poste dal motivo in esame prive del requisito della non manifesta infondatezza, restando aperte differenti questioni come quella concernente la qualificazione in termini di involontaria disoccupazione del periodo non coperto dall’indennità forfettizzata (sul punto, v. l’ordinanza interlocutoria di questa Corte n. 22985 del 2024 in materia di contratto a tempo determinato; v. anche l’ordinanza interlocutoria n. 25399 del 2024).
Con il secondo motivo si deduce violazione o falsa applicazione degli artt. 112 e 132 c.p.c., dell’art. 92, c.p.c. e dell’art. 13, comma 1 quater, d.P.R. n. 115 del 2002, per avere la Corte d’appello omesso di pronunciare sul motivo con cui era stata censurata la regolazione delle spese del giudizio di primo grado per difetto dei presupposti della disposta compensazione nella misura di un terzo. Si assume, inoltre, l’omessa motivazione sulla condanna alle spese del giudizio di secondo grado e al pagamento del contributo unificato.
14. Sulla prima censura, la sentenza impugnata riporta a p. 5, penultimo cpv., il motivo di appello con cui il lavoratore criticava la parziale compensazione delle spese del primo grado ma non adotta nessuna statuizione sul punto. Pur essendo configurabile
il vizio di omessa pronuncia, deve tuttavia osservarsi che, nel giudizio di legittimità, alla luce dei principi di economia processuale e della ragionevole durata del processo di cui all’art. 111 Cost., nonché di una lettura costituzionalmente orientata dell’attuale art. 384 c.p.c., una volta verificata l’omessa pronuncia su un motivo di appello, la Corte di cassazione può evitare la cassazione con rinvio della sentenza impugnata e decidere la causa nel merito sempre che si tratti di questione di diritto che non richiede ulteriori accertamenti di fatto (v. Cass. n. 21257 del 2014; n. 21968 del 2015; n. 17416 del 2023).
15. Nel caso in esame, la compensazione delle spese nella misura di un terzo è stata disposta dal primo giudice in ragione della soccombenza del lavoratore ricorrente sulla domanda di risarcimento dei danni da demansionamento e di pagamento dell’indennità di cassa , avendo il tribunale accolto unicamente l’impugnativa del licenziamento. La condizione di soccombenza reciproca delle parti, configurabile nel caso di specie in ragione del parziale accoglimento di un’unica domanda articolata in più capi (v. Cass., S.U. n. 32061 del 2022), porta a giudicare la disposta compensazione (nella misura di un terzo) conforme al disposto dell’art. 92 c.p.c., con la conseguenza che, se il motivo fosse stato esaminato, la decisione d’appello sarebbe stata di rigetto dello stesso.
16. Sulla seconda censura, che investe la pronuncia di secondo grado quanto alla condanna alle spese e al pagamento del contributo unificato, deve escludersi la violazione dell’art. 132 c.p.c. non solo perché difettano le anomalie a cui le Sezioni Unite di questa Corte (sentenze n. 8053 e n. 8054 del 2014) ricollegano il vizio di omessa o apparente motivazione, ma per il fatto che la sentenza impugnata ha applicato, nella
regolazione delle spese, il principio di soccombenza avente fonte legale e non necessitante di specifica e apposita motivazione.
Infine, sull’obbligo di versamento dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, deve evidenziarsi come lo stesso sia imposto dall’art. 13, comma 1 -quater, del d.P.R. n. 115 del 2002 e che i giudici si limitano a dichiarare esistenti i presupposti processuali del citato obbligo (pronuncia di rigetto, inammissibilità o improcedibilità), rilevando soltanto l’elemento oggettivo costituito dal tenore della pronuncia che ne determina il presupposto, mentre le condizioni soggettive della parte devono essere verificate, nella loro specifica esistenza e permanenza, ad opera della cancelleria al momento dell’eventuale successiva attività di recupero del contributo (Cass. n. 27867 del 2019). Dal che discende l’infondatezza della censura.
Per le ragioni esposte il ricorso deve essere respinto.
La regolazione delle spese del giudizio di legittimità segue il criterio di soccombenza, con liquidazione come in dispositivo. 20. Il rigetto del ricorso costituisce presupposto processuale per il raddoppio del contributo unificato, ai sensi dell’art. 13, comma 1 quater, del d.P.R. n. 115 del 2002 (cfr. Cass. S.U. n. 4315 del
2020).
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso. Condanna il ricorrente alla rifusione delle spese del giudizio di legittimità che liquida in euro 4.500,00 per compensi professionali, euro 200,00 per esborsi, oltre spese forfettarie nella misura del 15% e accessori come per legge.
Ai sensi dell’art. 13, co. 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento da parte del ricorrente dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato
pari a quello previsto per il ricorso a norma del comma 1 bis dello stesso art.13, se dovuto.
Così deciso nell’adunanza camerale del 19 novembre 2024