Ordinanza di Cassazione Civile Sez. L Num. 6381 Anno 2024
Civile Ord. Sez. L Num. 6381 Anno 2024
Presidente: COGNOME NOME
Relatore: COGNOME
Data pubblicazione: 08/03/2024
ORDINANZA
sul ricorso 21010-2020 proposto da:
NOME, domiciliata in ROMA INDIRIZZO presso la CANCELLERIA DELLA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE, rappresentata e difesa dall’avvocato NOME COGNOME;
– ricorrente –
contro
RAGIONE_SOCIALE, in persona del legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliata in INDIRIZZO, presso lo RAGIONE_SOCIALE, rappresentata e difesa dagli COGNOME NOME, NOME COGNOME;
– controricorrente –
avverso la sentenza n. 2859/2019 della CORTE D’APPELLO di ROMA, depositata il 11/07/2019 R.G.N. 4243/2016;
udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del 18/01/2024 dal AVV_NOTAIO COGNOME.
RILEVATO CHE
R.G.N. 21010/2020
COGNOME.
Rep.
Ud. 18/01/2024
CC
Con sentenza del 5 febbraio 2011 la Corte d’appello di Roma, in riforma della sentenza del Tribunale di Roma del 16 settembre 2005, per quello che ancora rileva in questa sede, ha dichiarato la nullità del termine apposto al contratto di lavoro stipulato da RAGIONE_SOCIALE NOME, per il periodo, dal 1° febbraio 2002 al 30 aprile 2002, per esigenze eccezionali di carattere straordinario conseguente ai processi di riorganizzazione ivi comprendendo un più funzionale riposizionamento sul territorio anche derivanti da innovazioni tecnologiche, prodotti o servizi nonché alla attuazione delle previsioni degli accordi del 17, 18 e 23 ottobre, 11 dicembre 2001 e 11 gennaio 2002, ai sensi del d.lgs. n. 368 del 2001; ha dichiarato la prosecuzione giuridica del rapporto successivamente alla sua cessazione, ed ha condannato RAGIONE_SOCIALE al risarcimento del danno in favore della lavoratrice in misura pari alle retribuzioni spettanti dalla data della notifica del ricorso di primo grado.
La Corte territoriale ha considerato che il testo del contratto a termine in questione era generico e non conteneva quegli elementi specifici che consentivano la verifica della sussistenza delle condizioni che legittimavano l’apposizione del termine. La stessa Corte romana ha pure considerato non applicabile lo ius superveniens costituito dalla legge 183 del 2010 in appello in assenza di una specifica impugnazione sul risarcimento del danno essendosi formato il giudicato su tale capo della domanda.
RAGIONE_SOCIALE ha proposto ricorso per cassazione avverso tale sentenza articolato su quattro motivi. Ha resistito la lavoratrice con controricorso.
La Suprema Corte di cassazione, con la sentenza n. 20318 del 2015, ha accolto il primo motivo, assorbiti gli RAGIONE_SOCIALE, rinviando alla Corte di appello di Roma, in diversa composizione, l’omesso accertamento sugli elementi di specificazione emergenti dal contratto alla luce delle deduzioni della società, al fine di valutarne l’effettiva sussistenza nonché la sufficienza sul piano della ricorrenza o meno del requisito di cui all’art. 1, comma 2, d.lgs. n. 368/2001.
Il giudice di rinvio, con pronuncia pubblicata l’11.7.2019, ha rilevato che non era stata dimostrata la legittimità della assunzione della lavoratrice presso quello specifico ufficio e in certe ivi determinate contingenze; ha determinato il danno ex art. 32 legge n. 183/2010 e ha accolto la domanda di restituzione, avanzata dalla società.
La Corte territoriale ha, quindi, dichiarato la nullità della clausola di apposizione del termine inserita nel contratto stipulato inter partes con decorrenza 1.2.2002 per NOME COGNOME, precisando, per l’effetto, che era intercorso un rapporto di lavoro subordinato con RAGIONE_SOCIALE; ha condannato la società al pagamento di una indennità pari a tre mensilità dell’ultima retribuzione globale di fatto, oltre accessori; ha condannato, infine, la lavoratrice alla restituzione, in favore di RAGIONE_SOCIALE RAGIONE_SOCIALE, della differenza tra quanto corrisposto dalla società in esecuzione della sentenza della Corte di appello di Roma del 5.2.2011, nell’importo netto come risultante dalla busta paga del febbraio 2011, e l’importo dovuto alla stregua della su indicata statuizione, oltre interessi legali dal pagamento della prima somma.
Avverso tale ultima sentenza NOME COGNOME ha proposto ricorso per cassazione affidato a tre motivi, cui ha resistito con controricorso RAGIONE_SOCIALE.
Il Collegio si è riservato il deposito dell’ordinanza nei termini di legge ex art. 380 bis 1 cpc.
CONSIDERATO CHE
I motivi possono essere così sintetizzati.
Con il primo motivo il ricorrente denunzia la violazione e falsa applicazione dell’art. 3 Cost., artt. 1206 e 2099 cc, art. 1 co. 2 D.lgs. n. 368/2001 e 32 co. 5 e 7 legge n. 183/2010, per lesione del principio di intangibilità della retribuzione e dei diritti quesiti. Egli sostiene che, al caso in esame, andava fatta applicazione analogica di tutta la giurisprudenza consolidata in materia pensionistica per cui il risarcimento percepito dal lavoratore, nei giudizi per l’accertamento della nullità del termine ad un contratto di lavoro a tempo determinato, instaurato in data anteriore alla entrata in vigore della
legge n. 183/2010 e della relativa legge di interpretazione autentica (legge n. 92/2012), costituiva diritto quesito o comunque prestazione sostitutiva di una retribuzione intangibile dal comma 7 del citato art. 32 legge n. 183/2010.
3. Con il secondo motivo si censura la errata e falsa applicazione dell’art. 11 e 117 Cost., per omessa disapplicazione di norma in contrasto con la normativa dell’Unione Europea e con le prelative pronunce della Corte di Giustizia, nonché per violazione del l’art. 6 e art. 1 del Protocollo n. 1 CEDU. Si deduce, dopo essere stato ri percorso tutto l’iter processuale che, qualora fosse stata fatta applicazione sic et simpliciter del principio tempus regit actum , essa ricorrente avrebbe avuto diritto alle retribuzioni dalla messa in mora alla riassunzione come disposto dalla Corte di appello di Roma con la sentenza poi cassata; si rappresenta che l’art. 32 del collegato lavoro era stato fonte di numerosi contrasti e interventi della giurisprudenza, sia nazionale che europea (tra cui la sentenza COGNOME, ove RAGIONE_SOCIALE era stata qualificata come un organismo statale); si precisa che, pertanto, ai sensi della clausola 4 dell’accordo quadro sul lavoro a tempo determinato, era impedita la modifica della tutela ex d.lgs. n. 368/01, già riconosciuta ai lavoratori in caso di assunzione a termine irregolare o illecita, comparabile ai lavoratori licenziati illegittimamente; si obietta che l’art. 32 co. 7 si poneva in contrasto anche con la Convenzione Europea di diritti dell’Uomo perché con tale disposizione lo Stato italiano, quale potere legislativo, si era intromesso nell’amministrazione della giustizia. Si conclude, quindi, affinché sia accertato che: a) nei giudizi per l’accertamento della nullità del termine ad un contratto di lavoro a tempo determinato stipulato da RAGIONE_SOCIALE, instaurati in data antecedente l’entrata in vigore della legge n. 183/2010 e della relativa legge di interpretazione autentica, essendo la società RAGIONE_SOCIALE equiparata ad un org anismo statale, l’applicazione al giudizio in corso dell’art. 32 co. 5 del collegato lavoro costituiva violazione degli artt. 6 CEDU per diretta ingerenza dello Stato nella lite; b) era violato l’art. 1 Protocollo CEDU poiché la restituzione del risarcimento, pari alle retribuzioni
maturate per oltre 10 anni, costituiva onere eccessivo e sproporzionato a carico del lavoratore; c) era violato l’art. 6 CEDU a cagione della eccessiva durata del processo che aveva cagionato l’applicazione di una norma sfavorevole al lavoratore.
Con il terzo motivo, proposto in via subordinata, la ricorrente si duole della errata e falsa applicazione degli artt. 11 e 117 Cost. per omessa applicazione di norma UE, nonché degli artt. 1176, 1337, 1375, 1366 cc, della legge n. 241/90 e 3 Cost., per omessa determinazione delle modalità di restituzione della somma a RAGIONE_SOCIALE. Ella sostiene che, essendo RAGIONE_SOCIALE una società interamente posseduta dallo Stato italiano e sottoposta al suo controllo, il giudice, in ipotesi di condanna di una dipendente alla restituzione del risarcimento corrisposto, in ossequio ai principi di cui alla sentenza della Corte di Giustizia UE del 12 dicembre 2013 cd. sentenza COGNOME, non poteva disporre una condanna alla ripetizione sic et simpliciter ma avrebbe dovuto determinare le relative modalità valutando il legittimo affidamento e la buona fede del dipendente.
I primi due motivi, da esaminare congiuntamente per connessione logico-giuridica, sono infondati.
Nel corso del giudizio, come già specificato nello storico della presente ordinanza, è intervenuta la L. 4 novembre 2010, n. 183, che all’ art. 32, commi 5 e 6 ha dettato i criteri per la liquidazione del danno da illegittima apposizione del termine al contratto di lavoro. Tale disciplina, applicabile in virtù della previsione del comma 7 a tutti i giudizi pendenti, anche in grado di legittimità (v. Cass. ord. n. 2112 del 28/1/2011, Cass. n. 1409 del 31/01/2012, Cass. n. 26840 del 29/11/2013) è stata sottoposta al vaglio della Corte costituzionale, che nella sentenza interpretativa di rigetto n. 303 del 2011 ha premesso che essa è fondata sulla ratio legis diretta ad “introdurre un criterio di liquidazione del danno di più agevole, certa ed omogenea applicazione”, rispetto alle “obiettive incertezze verificatesi nell’esperienza applicativa dei criteri di commisurazione del danno secondo la legislazione previgente”. La norma, che “non si limita a forfettizzare il risarcimento del danno dovuto al lavoratore
illegittimamente assunto a termine, ma, innanzitutto, assicura a quest’ultimo l’instaurazione di un rapporto di lavoro a tempo indeterminato, in base ad un’ “interpretazione costituzionalmente orientata” va intesa nel senso che il danno risarcito dall’indennità in esame copre soltanto il periodo cosiddetto “intermedio”, quello, cioè, che corre dalla scadenza del termine fino alla sentenza che accerta la nullità di esso e dichiara la conversione del rapporto (così come peraltro chiarito con la norma di interpretazione autentica contenuta nell’art. 1 comma 13 della L. n. 92/2012), con la conseguenza che a partire da tale sentenza il datore di lavoro è indefettibilmente obbligato a riammettere in servizio il lavoratore e a corrispondergli, in ogni caso, le retribuzioni dovute, anche in ipotesi di mancata riammissione effettiva, RAGIONE_SOCIALEmenti risultando “completamente svuotata” la “tutela fondamentale della conversione del rapporto in lavoro a tempo indeterminato”. Allo stesso tempo, il nuovo regime risarcitorio non ammette la detrazione dell’aliunde perceptum , sicché l’indennità onnicomprensiva assume una chiara valenza sanzionatoria; essa è dovuta in ogni caso, al limite anche in mancanza di danno per l’avere il lavoratore prontamente reperito un’altra occupazione (Cass. n. 1409 del 31/01/2012, Cass. n. 3056 del 29/02/2012). La garanzia economica in questione, attraverso il ricorso ai criteri indicati dalla L. n. 604 del 1966, art. 8, consente di calibrare l’importo dell’indennità da liquidare in relazione alle peculiarità delle singole vicende, come la durata del contratto a tempo determinato (evocata dal criterio dell’anzianità lavorativa), la gravità della violazione e la tempestività della reazione del lavoratore (sussumibili sotto l’indicatore del comportamento delle parti), lo sfruttamento di occasioni di lavoro (e di guadagno) RAGIONE_SOCIALEmenti inattingibili in caso di prosecuzione del rapporto (riconducibile al parametro delle condizioni delle parti), nonché le stesse dimensioni dell’impresa (immediatamente misurabili attraverso il numero dei dipendenti) (cfr. testualmente Cass. n. 16545/2016).
Così interpretata, la nuova normativa – risultata “nell’insieme, adeguata a realizzare un equilibrato componimento dei contrapposti
interessi” – ha superato il vaglio di costituzionalità sotto i vari profili sollevati con le ordinanze di rimessione con riferimento agli artt. 3, 4, 11, 24, 101, 102, 111 e 117 Cost., comma 1 (v. in senso conforme, C. Cost., ord., n. 112 del 2012) nonché con riferimento all’ipotizzato contrasto con la clausola 8.3 dell’accordo quadro europeo sul lavoro a tempo determinato, allegato alla direttiva 28 giugno 1999, n. 1999/70/CE (Corte Cost. n. 226 del 2014).
8. In particolare, in sede di legittimità, si è, poi, affermato proprio in relazione alle problematiche sollevate dalla ricorrente, con principi che questo Collegio condivide pienamente, che: a) l’art. 32, comma 5, della legge 4 novembre 2010, n. 183, come interpretato autenticamente dall’art. 1, comma 13, della legge 28 giugno 2012, n. 92, è applicabile ai giudizi in corso in materia di contratti a termine dovendosi escludere che la disciplina dell’indennità risultante dal combinato disposto delle due norme incida su diritti già acquisiti dal lavoratore poiché è destinata ad operare su situazioni processuali ancora oggetto di giudizio, non comporta un intervento selettivo in favore dello Stato e concerne tutti i rapporti di lavoro subordinati a termine. Né può ritenersi che l’adozione della norma interpretativa costituisca una indebita interferenza sull’amministrazione della giustizia o sia irragionevole ovvero, in ogni caso, realizzi una violazione dell’art. 6 CEDU, poiché il legislatore ha recepito, nel proposito di superare un contrasto di giurisprudenza e di assicurare la certezza del diritto a fronte di obbiettive ambiguità dell’originaria formulazione della norma interpretata, una soluzione già fatta propria dalla giurisprudenza costituzionale e di legittimità, senza che – in linea con l’interpretazione dell’art. 6 CEDU operata dalla Corte EDU (sentenza 7 giugno 2011, in causa RAGIONE_SOCIALE contro Italia) l’intervento retroattivo abbia inciso su diritti di natura retributiva e previdenziale definitivamente acquisiti dalle parti. (Cass. 6735/2014); b) in tema di contratti a termine, l’art. 32, comma 5, della l. n. 183 del 2010 è applicabile anche nel caso di un’impugnazione relativa all’illegittimità del termine proposta prima della sua entrata in vigore, poiché lo ‘ius superveniens’ rende proponibile una domanda nuova in
secondo grado quando la regolamentazione sopravvenuta investa una situazione di fatto dedotta già in primo grado, dovendosi escludere che in un giudizio in corso la disciplina dell’indennità in questione incida su diritti acquisiti del lavoratore. (Cass. n. 1552/2017).
Secondo parte ricorrente, inoltre, la retroattività della disciplina determinerebbe la violazione dell’articolo 1 del Protocollo n. 1 alla Convenzione, il quale recita: «Ogni persona fisica o giuridica ha diritto al rispetto dei propri beni. Nessuno può essere privato della proprietà se non per causa di pubblica utilità e alle condizioni previste dalla legge e dai principi generali del diritto internazionale. Le disposizioni precedenti non portano pregiudizio al diritto degli Stati di porre in vigore le leggi da essi ritenute necessarie per disciplinare l’uso dei beni in modo conforme all’interesse generale o per assicurare il pagamento delle imposte o di RAGIONE_SOCIALE contributi o delle ammende».
Deve però rilevarsi che, nella stessa sentenza COGNOME, la Corte EDU, al punto 79, ha affermato che il concetto di «pubblica utilità» che devono avere le ragioni che giustificano le limitazioni del diritto di proprietà è ampio per natura, e che la relativa decisione di adottare leggi che comportino la privazione della proprietà implica l’esame di questioni politiche, economiche e sociali, e che le autorità nazionali sono in via di principio in una posizione migliore rispetto al giudice internazionale per determinare le ragioni di “pubblica utilità” che giustificano una limitazione del diritto di proprietà.
La soluzione delle questioni poste dalla ricorrente si rinviene, quindi, già nella motivazione delle sentenze sopra citate della Corte Costituzionale, laddove, nel richiamare la ratio legis sottesa all’introduzione della nuova disciplina anche con riferimento all’operatività quale ius superveniens sui giudizi in corso, ne ha ritenuto la conformità ai parametri costituzionali valorizzandone la finalità perequativa, nonché di semplificazione e certezza applicativa di interesse generale, che si accompagna all’ effettività della tutela ed alla sua perdurante dissuasività.
In tal senso, risultano esplicitate le ragioni di pubblica utilità che giustificano l’intervento che, occorre ribadirlo, non ha
riguardato un diritto già attuale ed esigibile, ma soltanto una «legittima speranza» (nella terminologia utilizzata dalla Corte EDU, punto 74) di ottenere il pagamento delle somme controverse.
I restanti profili denunciati da parte ricorrente, quali riflessi economici patiti per la durata irragionevole del processo, una volta esclusa la asserita violazione di norme euro-unitarie e costituzionali, non possono essere esaminati in questa sede ma, eventualmente, qualora ne ricorrano i presupposti, ai sensi della legge n. 89 del 2001.
Il terzo motivo è inammissibile, in primo luogo, perché la questione ad esso sottesa (determinazione delle modalità di restituzione della somma a RAGIONE_SOCIALE) non è stata sollevata nei precedenti gradi ed il ricorrente non ha specificato il ‘come’, il ‘dove’ ed il ‘quando’ l’abbia prospettata e in che termini ed è pertanto, da considerarsi nuova e, in quanto tale, non proponibile per la prima volta nel presente giudizio.
In secondo luogo, il motivo è inammissibile perché non è pertinente alla ratio decidendi ed è eccentrico rispetto alle denunciate violazioni.
Premesso che il richiamo alla sentenza COGNOME è solo finalizzato a precisare che RAGIONE_SOCIALE è un ente controllato dallo Stato italiano, va specificato che l’azione di restituzione delle somme pagate in base ad una pronuncia di condanna poi caducata non è riconducibile allo schema della ripetizione d’indebito, perché si collega ad un’esigenza di restaurazione della situazione patrimoniale e, dunque, non si presta a valutazioni sulla buona o mala fede dell’ “accipiens” ; per ottenere la restituzione di quanto pagato è necessaria la formazione di un titolo restitutorio, il quale comprende “ex lege” , senza bisogno di una specifica domanda in tal senso e a prescindere anche da una sua espressa menzione nel dispositivo, il diritto del “solvens” di recuperare gli interessi legali, con decorrenza, ex art. 1282 c.c., dal giorno dell’avvenuto pagamento (Cass. n. 34011/2021).
E’ stato anche sottolineato che, in tema di decorrenza degli interessi legali, poiché l’azione di ripetizione di somme pagate in esecuzione della sentenza d’appello successivamente cassata, ovvero della sentenza di primo grado provvisoriamente esecutiva riformata in appello, non si inquadra nell’istituto della “condictio indebiti” ex art. 2033 c.c., sia perché si ricollega a un’esigenza di restaurazione della situazione patrimoniale precedente alla sentenza, sia perché il comportamento dell’ “accipiens” non si presta a valutazione di buona o mala fede ai sensi della suddetta norma di legge, non potendo venire in rilievo stati soggettivi rispetto a prestazioni eseguite e ricevute nella comune consapevolezza della rescindibilità del titolo e della provvisorietà dei suoi effetti, gli interessi legali devono essere riconosciuti dal giorno del pagamento e non da quello della domanda (Cass. n. 24475/2019).
Non venendo in rilievo, pertanto, un problema di buona o mala fede dell’ accipiens , essendo la fattispecie della restituzione delle somme versate in esecuzione di una pronuncia riformata diversa da quella della tipica ripetizione di indebito, non può ipotizzarsi un obbligo di stabilire anche le eventuali modalità di restituzione, secondo i criteri stabiliti, da ultimo, anche dalla Corte costituzionale, con la sent. n. 8 del 2023, avente ad oggetto una differente ipotesi da quella di cui è processo.
Alla stregua di quanto esposto, il ricorso deve essere rigettato.
Al rigetto segue la condanna della ricorrente al pagamento delle spese del presente giudizio di legittimità che si liquidano come da dispositivo.
Ai sensi dell’art. 13, comma 1 quater, del DPR n. 115/02, nel testo risultante dalla legge 24.12.2012 n. 228, deve provvedersi, ricorrendone i presupposti processuali, sempre come da dispositivo.
PQM
La Corte rigetta il ricorso. Condanna la ricorrente al pagamento, in favore della controricorrente, delle spese del presente giudizio che liquida in euro 4.500,00 per compensi, oltre alle spese forfettarie nella
misura del 15 per cento, agli esborsi liquidati in euro 200,00 ed agli accessori di legge. Ai sensi dell’art. 13, comma 1 quater, del DPR n. 115/02 dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello previsto per il ricorso, a norma del comma 1 bis dello stesso art. 13, se dovuto.
Così deciso in Roma, nella camera di consiglio, il 18 gennaio 2024