Ordinanza di Cassazione Civile Sez. L Num. 6991 Anno 2025
Civile Ord. Sez. L Num. 6991 Anno 2025
Presidente: COGNOME
Relatore: COGNOME
Data pubblicazione: 16/03/2025
ORDINANZA
sul ricorso 9699-2023 proposto da:
RAGIONE_SOCIALE in persona del legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliata presso l’indirizzo PEC dell’avvocato NOME COGNOME che la rappresenta e difende;
– ricorrente –
contro
COGNOME, elettivamente domiciliata in ROMA, INDIRIZZO presso lo studio dell’avvocato NOME COGNOME rappresentata e difesa dall’avvocato NOME COGNOME
– controricorrente –
avverso la sentenza n. 1195/2022 della CORTE D’APPELLO di CATANIA, depositata il 18/10/2022 R.G.N. 932/2019;
udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del 22/01/2025 dal Consigliere Dott. NOME COGNOME
Oggetto
R.G.N. 9699/2023
COGNOME
Rep.
Ud. 22/01/2025
CC
Fatti di causa
La Corte d’appello di Catania, con la sentenza impugnata, ha rigettato l’appello proposto da RAGIONE_SOCIALE semplificata avverso la sentenza del Tribunale di Siracusa che aveva dichiarato illegittimo licenziamento disciplinare comminato dall’appellante alla lavoratrice NOME NOME condannandola a riassumere la lavoratrice entro tre giorni o in mancanza a risarcirle il danno, versandole un’indennità di importo pari a sei mensilità dell’ultima retribuzione globale di fatto.
A fondamento della pronuncia la Corte ha sostenuto che nelle ipotesi di licenziamento illegittimo sottoposto a tutela obbligatoria l’art. 8 della legge n. 604/66 prevede la condanna del datore di lavoro al pagamento di un’indennità risarcitoria parametrata alla retribuzione globale di fatto percepita. La prova dell’ammontare della stessa non costituisce elemento costitutivo della domanda posto che la disposizione non prevede quale presupposto di applicazione della tutela obbligatoria l’accertamento nel medesimo giudizio dell’esatto ammontare della retribuzione globale di fatto percepita. Né era ravvisabile la dedotta fattispecie dell’abusivo frazionamento del credito, trattandosi piuttosto in una domanda di condanna generica al risarcimento del danno dal licenziamento illegittima, accolta la quale – essendo la sentenza insuscettibile di esecuzione forzata – era onere della parte vittoriosa instaurare un giudizio volto ad ottenere la determinazione del quantum risarcitorio.
Per quanto riguardava la quantificazione dell’indennità risarcitoria andava confermata la determinazione effettuata dal giudice di primo grado in sei mensilità, avendo il giudice tenuto conto dei criteri indicati dall’articolo 8 della legge n. 604/66 tra cui il numero dei dipendenti occupati, le dimensioni dell’impresa, l’anzianità di servizio del lavoratore e le circostanze di fatto per cui era stato irrogato il licenziamento.
Avverso la sentenza ha proposto ricorso per cassazione la datrice di lavoro con quattro motivi di ricorso ai quali ha resistito COGNOME NOME con controricorso. La ricorrente ha depositato memoria. Il collegio ha riservato la motivazione, ai sensi dell’art . 380bis1, secondo comma, ult. parte c.p.c.
Ragioni della decisione
1.Col primo motivo si deduce violazione dell’art. 8, l. n. 604/1966 -violazione dell’art. 111 cost. (art. 360 co. 1 n. 3 cpc), per erroneità della sentenza nella parte in cui si ritiene che sarebbe proprio la struttura dell’art. 8 della l. n. 604/1966 a prevedere una condanna generica, dal suo stesso tenore letterale potendosi derivare, a dire del Giudice a quo, la non necessità della produzione dell’ultima busta -paga al fine di quantificare l’indennizzo in parola.
2.Col secondo motivo si deduce la violazione dell’art. 1362 cc per erronea interpretazione della domanda della lavoratrice, falsa applicazione dell’art. 278 cpc, violazione dell’art. 132 cpc per difetto assoluto di motivazione (art. 360 co. 1 n. 3 cpc): erroneità in quanto la sentenza di appello, come già quella di primo grado, ha ritenuto che le domande risarcitorie proposte dalla lavoratrice avessero ad oggetto una condanna generica, cioè sull’an, male interpretandone il tenore.
3.- I primi due motivi sono infondati.
Secondo l’orientamento giurisprudenziale risalente che si è venuto consolidando all’interno di questa Corte , ed al quale si è correttamente riportata l’impugnata pronuncia, la condanna al risarcimento in caso di licenziamento senza busta paga è ‘parificata’ alla condanna generica; ciò vale per l’art. 18 l.300/1970 ed a maggiore ragione per l’art. 8 della l. n. 604/66 in cui la condanna è prevista dalla legge in forma alternativa ( riassunzione o in mancanza risarcimento).
4.- La Corte territoriale ha richiamato in particolare le sentenze nn. 8576/2004, 24242/2010 e 33807/21, l’ultima delle quali ha così statuito: ‘Per ciò che concerne, invece, la quantificazione della retribuzione globale di fatto, non espressamente effettuata dai giudici di seconde cure, la gravata sentenza va parificata, non essendo indicativa di un importo determinato o determinabile in base a semplice calcolo aritmetico, ad una pronuncia di condanna generica, con conseguente eventuale necessità di un ulteriore giudizio per la liquidazione del “quantum”, allorché insorga successivamente controversia in ordine alla individuazione della retribuzione globale di fatto assunta dall’art. 18 della legge n. 300 del 1970 quale parametro del risarcimento (Cass. n. 2 4242/2010)’.
5.- Pertanto ad integrare il requisito della liquidità, richiamato nell’art. 474 cod. proc. civ., è in tal caso sufficiente che alla determinazione del credito possa pervenirsi per mezzo di un mero calcolo aritmetico sulla base di elementi certi e positivi tutti contenuti nel titolo fatto valere, i quali sono da identificare nei dati che, pur se non menzionati in sentenza, sono stati assunti dal giudice come certi e oggettivamente già determinati, anche nel loro assetto quantitativo, perché così presupposti dalle parti e non controversi, e, pertanto, acquisiti al processo, sia pure per implicito.
6.- Se invece tutto questo non è evincibile neppure per implicito occorre fare un altro giudizio perché la sentenza che, dichiarando l’illegittimità del licenziamento, condanni il datore di lavoro a corrispondere al lavoratore l’indennità risarcitoria, va parificata, quando non sia indicativa di un importo determinato o determinabile in base a semplice calcolo aritmetico, ad una pronuncia di condanna generica, con conseguente eventuale necessità di un ulteriore giudizio per la liquidazione del “quantum”, quando insorga successivamente controversia in
ordine alla individuazione della retribuzione globale di fatto assunta dalla norma quale parametro del risarcimento.
7.L’argomento principale sul quale si fonda il ricorso introduttivo, e cioè che la domanda di condanna al pagamento di un certo numero di mensilità commisurate all’ultima retribuzione globale di fatto -contenuta nel ricorso introduttivo della sig.ra COGNOME -dovesse considerarsi una domanda di condanna ad un risarcimento per equivalente, e non generica, non avendo la lavoratrice depositato la relativa busta-paga, è infondato e va pertanto rigettato; posto che la stessa tesi è contro tutta la giurisprudenza di questa Corte, sopra richiamata, alla quale il ricorrente oppone un unico precedente contrario (Cass. n. 6177/1990) omettendo però di confrontarlo però con la giurisprudenza precedente (Cass. n. 3732/1988) e successiva (Cass. nn. 8576/2004, 24242/2010 e 33807/21) che va nell’opposta direzione.
8.- Col terzo motivo si deduce difetto di interesse ad agire per il solo an (art. 360 co. 1 n. 4 cpc) e la violazione del principio dell’infrazionabilità del credito (art. 360 co. 1 n. 3 cpc) ;
8.1. Il motivo è infondato posto che non rileva nel caso di specie il principio di infrazionabilità del credito che attiene invece alla diversa questione dell’azionabilità di più crediti .
9.Col quarto motivo si deduce erronea quantificazione dell’indennizzo per violazione dei criteri dell’art. 8, l. 604/1966 -vizio di motivazione apparente (art. 360 co. 1 n. 3 cpc): erroneità della sentenza in quanto la Corte di appello ha scambiato i pr esupposti fattuali per dichiarare l’illegittimità del licenziamento coi parametri sulla base dei quali quantificare l’indennità risarcitoria, cioè la mancanza di specificità dei fatti contestati o la loro insussistenza sono la ragione fondante dell’illice ità del licenziamenti; ma questi stessi vizi non possono diventare anche le ragioni giustificative dell’applicazione nella
misura massima possibile dell’indennità prevista nell’art. 8 l. perché la Corte non ha valutato tutti gli elementi previsti dalla legge ma solo due.
9 .1. Il motivo è inammissibile perché la censura sull’entità del risarcimento attiene al merito ed è incensurabile in cassazione se congruamente motivata (cfr. sentenza n. 13380 del 08/06/2006:’ In caso di licenziamento privo di giusta causa o giustificato motivo per il quale non sia applicabile la disciplina della cosiddetta stabilità reale, la determinazione, tra il minimo e il massimo, della misura dell’indennità risarcitoria prevista dall’art. 8 della legge n. 604 del 1966, sostituito dall’art. 2 della legge n. 108 del 1990, spetta al giudice di merito ed è censurabile in sede di legittimità solo per motivazione assente, illogica o contraddittoria).
9.2.- Nel caso di specie dalla ampia motivazione della sentenza si evince altresì che i giudici del merito hanno tenuto correttamente conto ai fini del quantum del risarcimento della carenza della contestazione disciplinare sotto il profilo della precisione, della specificità e della determinatezza, evidenziando che gli addebiti riguardassero indifferentemente tutti i dipendenti, senza alcuna precisazione delle condotte eventualmente imputabili alla COGNOME. Essi hanno infatti affermato che una così grave ed evidente violazione del diritto di difesa in assenza di una qualsivoglia prova di una condotta negligente direttamente ascrivibile alla lavoratrice, giustificava l’applicazione della sanzione nella misura massima delle sei mensilità, peraltro adeguata anche alle dimensioni dell’impresa quale emerge dal rilevante volume di affari indicato dalla stessa parte appellante. Né il tempestivo versamento del TFR poteva incidere sulla commisurazione delle indennità in questione.
10.- Sulla scorta delle premesse, il ricorso va quindi respinto e le spese di lite seguono il criterio della soccombenza dettato
dall’art. 91 c.p.c. Sussistono le condizioni di cui all’art. 13, comma 1 quater, d.P.R.115 del 2002.
P.Q.M.
La Corte respinge il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento delle spese del giudizio che liquida in euro 3.500,00 per compensi professionali, euro 200,00 per esborsi, 15% per spese forfettarie, oltre accessori dovuti per legge. Ai sensi dell’art. 13 comma 1 quater del d.P.R. n. 115 del 2002 dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento da parte della ricorrente dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso a norma dell’art.13 c omma 1 bis del citato d.P.R., se dovuto.
Così deciso nella camera di consiglio del 22.1.2025