Ordinanza di Cassazione Civile Sez. L Num. 17504 Anno 2025
Civile Ord. Sez. L Num. 17504 Anno 2025
Presidente: COGNOME
Relatore: COGNOME
Data pubblicazione: 29/06/2025
ORDINANZA
sul ricorso 16301-2023 proposto da:
COGNOME COGNOME NOME COGNOME AVITABILE NOMECOGNOME NOME COGNOME NOMECOGNOME COGNOME NOMECOGNOME COGNOME NOMECOGNOME NOME COGNOME COGNOME NOMECOGNOME DE NOME COGNOME NOMECOGNOME NOME COGNOME NOME COGNOME NOMECOGNOME NOME COGNOME COGNOME NOMECOGNOME NOMECOGNOME COGNOME NOME COGNOME NOMECOGNOME NOMECOGNOME NOMECOGNOME COGNOME COGNOME NOMECOGNOME NOME COGNOME NOME COGNOME NOMECOGNOME NOMECOGNOME NOME
Oggetto
PUBBLICO IMPIEGO
R.G.N.16301/2023
Ud 21/05/2025 CC
COGNOME tutti rappresentati e difesi dagli avvocati COGNOME
– ricorrenti –
contro
MINISTERO DELLA CULTURA;
– intimato – avverso la sentenza n. 1159/2022 della CORTE D’APPELLO di MILANO, depositata il 20/02/2023 R.G.N. 232/2022; udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del 21/05/2025 dal Consigliere Dott. NOME COGNOME
Fatti di causa
1. I lavoratori indicati in epigrafe, dipendenti del Ministero della Cultura con qualifica di Assistente alla fruizione, assistenza, vigilanza (area III), convenivano in giudizio l’Amministrazione datrice di lavoro innanzi al Tribunale di Milano, in funzione di giudice del lavoro, chiedendo di accertare lo svolgimento da parte dei ricorrenti delle mansioni ulteriori e più gravose di agente di Pubblica Sicurezza, mansioni che comportano l’esposizione in via diretta e continua ai rischi connessi alla salvaguardia del patrimonio e dei beni dell’amministrazione convenuta e al rischio di rapine, furti atti di vandalismo e terrorismo, e rivendicavano il diritto alla corresponsione dell’indennità ex art. 77 comma 2 CCNL relativo al personale del comparto funzioni centrali, correlata alle condizioni di lavoro, per un importo pari a € 71,98 mensili moltiplicati per 5 anni (complessivi 4.318,80 cadauno); chiedevano quindi la condanna del Ministero convenuto al pagamento di dette somme a titolo di risarcimento del danno derivante dallo svolgimento di fatto di mansioni ulteriori e comportanti condizioni di disagio e rischio. Assumevano di
essere stati assunti in forza di una serie di concorsi per custode e guardia notturna e addetto e capo addetto ai servizi di vigilanza -assunzione subordinata all’acquisizione della qualifica di Agente di PS – e di aver percepito, sino al 1999, l’indennità di rischio correlata alla qualifica loro ricoperta di agente di pubblica sicurezza, che non era stata più corrisposta a decorrere da tale data. Il Ministero della Cultura si costituiva in giudizio chiedendo il rigetto della domanda. Con la sentenza n. 58/2022 il Tribunale di Milano, sezione lavoro, accoglieva la domanda.
Il Ministero della Cultura proponeva appello. I lavoratori appellati si costituivano in giudizio chiedendo il rigetto della impugnazione. La Corte di Appello di Milano, sezione lavoro, con la sentenza n. 1159/2022 depositata il 20/02/2023 accoglieva l’appe llo e, in riforma della sentenza di primo grado, rigettava la domanda dei lavoratori.
Avverso detta sentenza proponevano ricorso per cassazione i lavoratori indicati in epigrafe, articolando sette strumenti di impugnazione. Il Ministero della Cultura ha ricevuto rituale notifica del ricorso (in data 27.7.2023, via posta elettronica certificata , presso l’Avvocatura dello Stato già costituita in appello per l’Amministrazione) ed è rimasto intimato.
La difesa dei ricorrenti ha depositato memoria ex art. 380-bis.1 cod. proc. civ..
Il ricorso è stato trattato dal Collegio nella camera di consiglio del 21 maggio 2025.
Ragioni della decisione
Con il primo motivo di ricorso è dedotta, in relazione all’art. 360, primo comma, n.3 c.p.c., «violazione del T.U.L.P.S.,
in base al quale è stata attribuita la Qualifica di Agente RAGIONE_SOCIALE, nonché falsa applicazione dell’art.16 R.D. 3164/1923, relativamente al mancato riconoscimento del diritto a percepire un’indennità, in presenza di situazioni di disagio e rischio, a seguito della presunta abrogazione della normativa, contenuta nell’art.16 R.D. 3164/1923, che, a detta della Sentenza impugnata, avrebbe attribuito loro la qualifica di Agente di pubblica sicurezza». Secondo la parte ricorrente la sentenza impugnata avrebbe erra to nel ritenere che l’abrogazione dell’art. 16 R.D. 3164/1923 avrebbe privato i ricorrenti della qualifica di agenti di pubblica sicurezza perché l’abrogazione della norma in questione avrebbe determinato solo la caducazione per il datore di lavoro dell’ob bligo di attribuirla formalmente ai custodi del Ministero della Cultura ma non sarebbe stata abrogata la relativa qualifica che sarebbe ancora regolata dal T.U.L.P.S. e spettante ai ricorrenti per le funzioni in concreto svolte. Deduce la parte ricorrente che il Ministero convenuto avrebbe sospeso il pagamento della richiesta indennità a partire dal 1999 mentre la pretesa abrogazione della qualifica sarebbe intervenuta solo dal 2009, segno che tale modifica normativa sarebbe irrilevante ai fini della definizione della domanda.
1.1. Il primo motivo di ricorso non coglie il senso della motivazione della sentenza di secondo grado. La sentenza della Corte di Appello non afferma che l’intervenuta abrogazione dell’art. 16 R.D. 3164/1923 ha fatto venire meno la qualifica di agente di pubblica sicurezza in via generale e nell’ordinamento, bensì afferma che l’abrogazione di quella norma ha fatto venire meno il riconoscimento automatico di quella qualifica ai custodi del Ministero della Cultura in ragione del loro inquadramento. La sentenza afferma, poi, che si applicano le norme
successivamente intervenute e che le stesse, come indicate nel ricorso, prevedono una procedura specifica per l’attribuzione della qualifica (richiesta del datore di lavoro, ricorrenza di determinati presupposti, provvedimento di riconoscimento del Ministe ro dell’Interno).
1.2. La parte ricorrente invoca il principio di non contestazione quanto alla posizione del Ministero della Cultura in primo grado con riguardo alla qualifica di agente di PS e al compimento delle più gravose mansioni tali da giustificare la retribuzione ex art. 77 c.c.n.l.. Il Ministero ha contestato apertamente, e fin dal giudizio di primo grado, che i ricorrenti avessero svolto le mansioni e le funzioni ulteriori e tali da esporli a disagi e rischi e quindi le mansioni e le funzioni che ai sensi dell’art. 77 c.c.n.l. fonderebbero il loro diritto alla indennità ulteriore. Il Ministero non ha contestato la circostanza che i ricorrenti siano agenti di pubblica sicurezza né ha contestato, con l’atto di appello, quanto affermato dal giudice di primo grado e cioè che la qualifica di agenti di pubblica sicurezza era dimostrata in atti dagli allegati al ricorso dei lavoratori senza che il Ministero della Cultura avesse specificamente contestato tale aspetto.
1.3. Ricostruite le posizioni delle parti, ciò che pare assorbente rilevare è che la decisione della Corte di Appello non si fonda sulla pretesa mancanza della qualifica di agenti di pubblica sicurezza in capo ai ricorrenti: la questione è trattata ma si tratta in sostanza di un obiter dictum perché la Corte di Appello proseguendo nel ragionamento afferma che i ricorrenti -a prescindere dalla qualifica di agenti di pubblica sicurezza e dal possesso del tesserino – non hanno diritto alla indennità in base alla sola qualifica di agenti di pubblica sicurezza ma potrebbero rivendicarla, secondo le regole generali per l’utilizzo
delle risorse decentrate e in ragione dei presupposti dell’art. 77 CCNL, solo ove sia stato dimostrato il compimento di attività particolarmente disagiate ovvero pericolose o dannose per la salute e afferma che la disposizione contrattuale rimette alle parti sociali l’individuazione delle attività che possano qualificarsi come tali e siano meritevoli, per questa via, del pagamento dell’indennità . Secondo la sentenza impugnata i ricorrenti non hanno allegato circostanze specifiche e non hanno proposto istanze di prova idonee a dimostrare che avrebbero svolto prestazioni particolari, tali da esporli a pericolo e a disagio o comunque diverse da quelle svolte dai colleghi investiti delle medesime mansioni ma privi di tesserino di agenti di pubblica sicurezza.
1.4. Per questa via il motivo, che insiste sulla qualifica di agenti di pubblica sicurezza, non attinge la ratio decidendi della sentenza, ma riguarda un obiter dictum ed è inammissibile. Le argomentazioni ultronee, che non hanno lo scopo di sorreggere la decisione già basata su altre decisive ragioni, sono improduttive di effetti giuridici e, come tali, non sono suscettibili di gravame, né di censura in sede di legittimità (Cass. 11 giugno 2004, n. 11160; Cass. 22 novembre 2010, n. 23635; Cass. 10 dicembre 2019, n. 32257).
Con il secondo motivo la difesa dei ricorrenti deduce vizio di omessa pronuncia, in relazione all’art.360, primo comma, nn. 3, 4 e 5 c.p.c., per violazione degli artt. 112 e 113 c.p.c., con riferimento alla richiesta di condanna del Ministero Cultura alla corresponsione dell’indennità di rischio quale retribuzione proporzionata alla qualità del lavoro in applicazione degli artt.36 e 39 Cost.
2.1. Con il quarto motivo la difesa dei ricorrenti deduce vizio di omessa pronuncia, in relazione all’art.360 nn.4 e 5 C.p.c., per
violazione degli artt.112, 113 e 114 C.p.c., con riferimento alla richiesta di condanna conformemente ai principi di equità e giustizia del Ministero della Cultura, alla corresponsione dell’indennità per lavoro disagiato, correlata alle Funzioni di RAGIONE_SOCIALE, svolte dai ricorrenti.
2.2. I due motivi vanno esaminati congiuntamente perché deducono lo stesso vizio rispetto alla sentenza impugnata lamentando il mancato accoglimento delle domande spiegate in via subordinata dai ricorrenti da parte della sentenza della Corte di Appello.
2.3. I due motivi sono infondati: la sentenza della Corte di appello non omette alcuna pronuncia ma rigetta espressamente le due domande quando afferma che ogni altra questione è assorbita. Tale capo della sentenza non merita censura perché la decisione si fonda sulla insussistenza di allegazione specifica e di prova delle mansioni che fondano il diritto alla indennità e, per questa via, rimanendo sfornito di prova il presupposto della rivendicazione retributiva principale, mancando lo svolgimento delle mansioni, non si giustifica, nella pronuncia, l’indennità ai sensi dell’art. 77 CCNL ma nemmeno una retribuzione ai sensi del l’art. 36 cost o un indennizzo in ragione del principio di equità.
Con il terzo motivo la difesa dei ricorrenti deduce violazione e/o falsa applicazione, in relazione all’art. 360, primo comma, n.3 c.p.c., dell’art.77, co.2, lett. c) e co.3, del C.C.N.L., per omessa applicazione degli artt. 36, 39 Cost. e 2077 c.c., relativamente al mancato riconoscimento del diritto, in capo ai ricorrenti, a percepire l’Indennità correlata alla presenza di situazioni di disagio o rischio. Secondo la parte ricorrente « è erronea l’interpretazione fornita dalla Corte territoriale, circa il rapporto intercorrente tra la contrattazione collettiva e la
contrattazione i ntegrativa, cosicché la Corte d’Appello, paradossalmente, identifica il C.C.N.L. in oggetto in posizione a priori subordinata rispetto alla contrattazione integrativa, entrando in contrasto anche con la giurisprudenza di Codesta Corte».
3.1. Il motivo è infondato: non sussiste alcuna violazione o errata interpretazione dell’art. 77 c.c.n.l. perché la sentenza non afferma che la contrattazione nazionale è subordinata alla contrattazione integrativa ma solo che la contrattazione nazionale rimette alla contrattazione integrativa l’individuazione delle condizioni meritevoli dell’indennità ex art. 77 CCNL e dunque non sussiste la violazione dell’ordine delle fonti dedotta dal motivo di ricorso.
3.2. Il motivo è, poi, inammissibile nella parte in cui deduce omessa applicazione degli artt. 36, 39 Cost. e 2077 c.c., relativamente al mancato riconoscimento del diritto, in capo ai ricorrenti, a percepire l’ indennità correlata alla presenza di situazioni di disagio o rischio perché non rappresenta alcuna errata interpretazione delle norme invocate e non coglie la ratio decidendi della sentenza che risiede nell’aver negato che sussista la prova dello svolgimento delle mansioni decisive ai fini della richiesta indennità.
Con il quinto motivo la difesa dei ricorrenti deduce omessa, contraddittoria ed illogica motivazione, in relazione all’art. 360, primo comma, nn. 3, 4 e 5 c.p.c., relativamente all’erronea presunzione del mancato assolvimento dell’onere della prova, in capo ai ricorrenti, riguardo l’effettivo svolgimento di mansioni superiori e ulteriori rispetto ai dipendenti di pari livello privi del tesserino di agente di RAGIONE_SOCIALE, nonché, conseguenziale omessa pronunzia sulla richiesta di ammissione
della prova testimoniale, già richiesta nel primo grado di giudizio e reiterata in appello.
4.1. Con il sesto motivo la difesa dei ricorrenti deduce nullità della sentenza, per omessa, apparente, illogica motivazione e per violazione di legge, in relazione all’art.360, nn.3, 4 e 5 C.p.c., per violazione dell’art.36 Cost. e 2099 C.c., nonchè dell’art.132, n.4, 112 e 113 C.p.c. relativamente alla presunta impossibilità, da parte del Giudice di Appello, di determinare le condizioni meritevoli dell’indennità di cui all’art. 77 CCNL .
4.2. I due motivi vanno esaminati congiuntamente perché deducono, in modo peraltro cumulativo, i vizi di cui all’art. 360, primo comma, nn. 3, 4 e 5 c.p.c. in ordine ai medesimi passaggi della motivazione della sentenza di appello e cioè alla motivazione resa c irca l’insussistenza della prova e ancora prima circa l’insufficienza della allegazione delle specifiche circostanze dalle quali trarsi l’esercizio da parte dei ricorrenti di mansioni ulteriori e diverse da quelle svolte dai colleghi con il medesimo inquadramento ma senza tesserino di agente di PS e in ogni modo di mansioni tali da esporre a disagio o da essere obiettivamente pericolose.
4.3. I motivi sono infondati. Non sussiste alcuna nullità della sentenza per omessa motivazione perché la motivazione non è omessa ma è graficamente presente, articolata e superiore al minimo costituzionale; nemmeno sussiste l’omessa considerazione di alcun fatto storico (nemmeno dedotto nel ricorso) che la sentenza avrebbe trascurato perché, in realtà, si censurano argomentazioni in diritto della sentenza della Corte di Appello.
4.4. Si deduce, poi, l’erroneità della affermazione secondo la quale il Ministero convenuto, in primo grado, avrebbe contestato lo svolgimento delle mansioni diverse, ulteriori,
disagevoli e/o pericolose. Sotto questo profilo la decisione della Corte di Appello non merita censure perché -in disparte ogni considerazione circa il mancato adempimento da parte dei ricorrenti degli oneri connessi a tale deduzione (‘il ricorso per cassazione con cui viene dedotta la violazione del principio di non contestazione deve indicare sia la sede processuale in cui sono state dedotte le tesi ribadite o lamentate come disattese, inserendo nell’atto la trascrizione dei relativi passaggi argomentativi, sia, specificamente, il contenuto della comparsa di risposta avversaria e degli ulteriori scritti difensivi, in modo da consentire alla Corte di valutare la sussistenza dei presupposti per la corretta applicazione dell’art. 115 c.p.c. ‘: Cass. 15058 del 29/05/2024) -va qui richiamato il principio consolidato (Cass. n. 27490 del 28/10/2019) secondo cui ‘ L’accertamento della sussistenza di una contestazione ovvero d’una non contestazione, rientrando nel quadro dell’interpretazione del contenuto e dell’ampiezza dell’atto della parte, è funzione del giudice di merito, sindacabile in cassazione solo per vizio di motivazione ‘, nei limiti e alle condizioni in cui è oggi consentito ai sensi del nuovo testo dell’art. 360, comma 1, n. 5 c.p.c. (Cass. Sez.Un. n. 8053/ 2014), limiti e condizioni non rispettate nel caso in esame.
4.5. Si deduce, altresì, l’erroneità della affermazione della Corte di Appello secondo la quale era inidonea la allegazione, perché generica e cumulativa, proposta dai ricorrenti, e inammissibile la prova dedotta, ancora una volta perché non riferita specificamente a singole mansioni, a singoli ricorrenti a individuate circostanze di tempo e di luogo. Tale valutazione è stata condotta in modo adeguato, motivato e non censurabile in sede di legittimità perché, chiarito il quadro normativo e le circostanze da accertare per fondare il diritto alla maggiore
retribuzione, la Corte di Appello ha rilevato come la prova era generica, sia quanto alle mansioni svolte (che descrivono essenzialmente quelle già proprie dell’inquadramento) sia rispetto ai soggetti che le avrebbero svolte (indicati in generale e in via cumulativa i numerosissimi ricorrenti), sia alle circostanze di tempo e di luogo (mancanti) sia in ordine alla indicazione specifica delle circostanze di fatto necessarie a fondare la retribuzione pretesa in ragione della fonte contrattuale invocata.
4.6. Assumono, in proposito, rilievo ad avviso del Collegio i seguenti principi di diritto: in tema di prova testimoniale, l’apprezzamento circa la specificità dei capitoli di prova dedotti dalla parte istante deve essere compiuto dal giudice del merito, con adeguata motivazione, non solo alla stregua della loro formulazione letterale, ma ponendo il loro contenuto in relazione agli altri atti di causa e alle deduzioni delle altre parti (Cass. 29/01/2021, n. 2149). Ed ancora:
al fine di accertare se i capitoli articolati per una prova testimoniale rispondano o meno all’esigenza della specificazione sancita dall’art. 244 cod. proc. civ. (applicabile anche nel rito del lavoro per la sua portata generale) l’indagine sulla specificità, istituzionalmente demandata al giudice di merito ed incensurabile se adeguatamente motivata, va condotta non soltanto alla stregua della letterale formulazione dei capitoli articolati dalla parte istante, ma ponendo altresì il loro contenuto in relazione agli altri atti di causa ed alle deduzioni dei contendenti (Cass. 03/10/1995, n. 10371).
Con il settimo motivo la difesa dei ricorrenti deduce nullità della sentenza, per apparente ed illogica motivazione, in relazione all’art. 360, primo comma n. 4, relativamente al rigetto del capo della domanda dei lavoratori con cui –
pregiudizialmente- si chiedeva di «dichiarare, con Ordinanza motivata, l’appello in epigrafe, inammissibile ex art 348 -bis C.p.c., in quanto non ha una ragionevole probabilità di essere accolto».
5.1. Il motivo è inammissibile: la Corte di Appello rileva come l’impugnazione proposta innanzi ad essa non era inammissibile ai sensi dell’art. 348 -bis c.p.c.
5.2. Orbene, assume rilievo in proposito il principio, costantemente affermato dalla giurisprudenza di questa Corte, secondo il quale: «la scelta del giudice d’appello di definire il giudizio prendendo in esame il merito della pretesa azionata (sia con il rigetto che con l’accoglimento) non può dirsi proceduralmente viziata sul presupposto che si sarebbe dovuta affermare l’inammissibilità per assenza di ragionevole probabilità di accoglimento; pertanto, ove il giudice non ritenga di assumere la decisione ai sensi dell’art. 348-ter, comma 1, c.p.c., la questione di inammissibilità resta assorbita dalla sentenza che definisce l’appello, che è l’unico provvedimento impugnabile, ma per vizi suoi propri, in procedendo o in iudicando , e non per il solo fatto del non esservi stata decisione nelle forme semplificate» (Cass. 29/11/2021, n. 37272).
Il ricorso deve, allora, essere integralmente respinto.
Nulla in ordine alle spese del giudizio di legittimità in ragione della mancata costituzione del Ministero della cultura.
P.Q.M.
rigetta il ricorso, nulla in ordine alle spese del giudizio di legittimità;
a i sensi dell’art. 13, comma 1 -quater , del d.P.R. n. 115/2002, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte dei ricorrenti, dell ‘ ulteriore importo
a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso a norma del comma 1bis del citato art. 13, se dovuto.
Così deciso in Roma, nella camera di consiglio della Sezione lavoro della Corte Suprema di cassazione, del 21 maggio 2025.
La Presidente
(NOME COGNOME