Ordinanza di Cassazione Civile Sez. L Num. 6037 Anno 2024
Civile Ord. Sez. L Num. 6037 Anno 2024
Presidente: COGNOME
Relatore: COGNOME
Data pubblicazione: 06/03/2024
ORDINANZA
sul ricorso 29255-2022 proposto da:
NOME COGNOME, elettivamente domiciliato in ROMA, INDIRIZZO, presso lo studio dell’avvocato NOME AVV_NOTAIO, che lo rappresenta e difende;
– ricorrente –
contro
RAGIONE_SOCIALE, in persona del legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliata in ROMAINDIRIZZO, presso lo studio dell’avvocato NOME COGNOME, che la rappresenta e difende unitamente agli avvocati NOME COGNOME, NOME COGNOME;
– controricorrente –
avverso la sentenza n. 3364/2022 della CORTE D’APPELLO di ROMA, depositata il 18/10/2022 R.G.N. 2052/2018; udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del 31/01/2024 dal AVV_NOTAIO NOME COGNOME.
RILEVATO CHE
Rep.
Ud. 31/01/2024
CC
Con la sentenza n. 3364 del 2022 la Corte di appello di Roma ha confermato la pronuncia del Tribunale della stessa sede che, in parziale accoglimento della domanda proposta da NOME COGNOME nei confronti della RAGIONE_SOCIALE con cui era intercorso un rapporto di agenzia dall’1.2.1974 al 26.8.2016, aveva condannato la società al pagamento della somma di euro 33.515,01 oltre accessori, a titolo di storni indebitamente effettuati (per euro 28.207,88) e di provvigioni finali (per euro 5.307,13) sulla base del saldo contabile al 23.1.2016.
2. I giudici di seconde cure, in relazione ai gravami hic et inde proposti, per quello che interessa in questa sede, hanno rilevato che: a) il rigetto di gran parte delle altre domande del COGNOME (indennità collettive per complessivi euro 145.373,87 o, in via alternativa, indennità ex art. 7 del contratto di agenzia pari alla medesima somma o, in via ulteriormente alternativa, indennità ex art. 1751 cc pari ad euro 83.600,00, oltre alla indennità sostitutiva del preavviso ex art. 10 dell’AEC del 2009 nel maggior importo di euro 10.853,33) si fondava sulla applicabilità al rapporto di agenzia di cui è causa degli AA.EE.CC., correttamente esclusa dal Tribunale; b) la società non aderiva, infatti, ad alcuna organizzazione che aveva sottoscritto i predetti accordi, né nel contratto individuale di agenzia, sottoscritto nel 1974, vi era un riferimento ad essi; c) l’assetto normativo dell’epoca era quello delle norme del codice civile e dell’AEC Commercio del 1958, valevole erga omnes ; d) gli AA.EE.CC., successivi a quello del 1958, non avevano la stessa efficacia erga omnes ; e) anche il criterio della equità non era invocabile per cui la pretesa dell’agente di vedersi applicati gli AA.EE.CC. non era fondata; f) neanche altri indici (monomandatarietà, il riconoscimento delle provvigioni di incasso, clausola dello star del credere, istituto del preavviso) inducevano ad una diversa conclusione; g) pure interpretando gli effetti dell’art. 7 del contratto, stipulato inter partes , non si desumeva alcun significato di spontaneo recepimento dell’AEC di diritto comune; h) per il trattamento di fine rapporto occorreva avere riguardo alle leggi vigenti nel momento in cui il diritto era sorto e, quindi, alla cessazione del rapporto, per cui si applicava il disposto
di cui all’art. 1751 cc; i) per il riconoscimento dell’indennità ex art. 1751 cc, esclusa l’ammissibilità di disporre un ordine di esibizione degli estratti conto che erano stati regolarmente inviati, non erano state prospettate idonee allegazioni in ordine alla sussistenza dei presupposti per tale indennità; l) la consulenza tecnica di ufficio, espletata in appello e disposta da un precedente Collegio, non poteva inficiare le sopra indicate statuizioni; m) per l’impossibilità di applicare l’AEC del 2008, il ricorrente non aveva neanche diritto a percepire una maggiore indennità di preavviso, parametrata appunto sulle indicazioni di tale Accordo.
Avverso la sentenza di secondo grado NOME COGNOME ha proposto ricorso per cassazione, affidato a tre motivi, cui ha resistito con controricorso la RAGIONE_SOCIALE la quale, in via subordinata, ha prospettato una richiesta di rinvio pregiudiziale alla Corte di Giustizia dell’Unione Europea ed una
Le parti hanno depositato memorie.
Il Collegio si è riservato il deposito dell’ordinanza nei termini di legge ex art. 380 bis 1 cpc.
CONSIDERATO CHE
I motivi possono essere così sintetizzati.
Con il primo motivo, in relazione al vantato diritto alla indennità di fine rapporto, il ricorrente si duole della violazione e falsa applicazione dell’art. 7 del contratto di agenzia, dell’art. 1751 cc e dell’art. 11 delle preleggi. Egli sostiene che i giudici di merito avevano violato la Direttiva n. 86/653 CE che imponeva, in modo inderogabile, l’applicazione della disciplina indennitaria più favorevole all’agente e, quindi, i criteri di cui all’art. 7 del contratto individuale di agenzia (che richiamava l’AEC del 2009) erroneamente disapplicato dai giudici di seconde cure, e quelli di cui all’art. 1751 cc, la quale disposizione la Corte territoriale aveva ritenuto avere erroneamente travolto il patto di cui all’art. 7 citato, in violazione dell’art. 11 delle preleggi; il ricorrente specifica, poi, che comunque non poteva applicarsi al caso in esame l’art. 1751 cc perché era, negli effetti, come era risultato dalla espletata consulenza tecnica di ufficio, più svantaggioso rispetto alla pattuizione di cui all’art. 7 del contratto di agenzia individuale;
deduce, inoltre, che aveva comunque allegato la ricorrenza delle condizioni di cui all’art. 1751 cc e che vi era stata, da parte della Corte territoriale, la violazione del criterio dell’equità, nell’applicare tale ultima disposizione codicistica, essendosi soffermata solo sul difetto di prova dei requisiti legali; il COGNOME sostiene, quindi, che la violazione dei giudici del merito era stata duplice: a) avere disapplicato la disciplina di cui agli Accordi Economici Collettivi, che invece, risultava voluta e pattuita tra le parti tramite l’art. 7 del contratto di agenzia; b) avere ritenuto che la nuova formulazione dell’art. 1751 cc (come modificato dalla Dir. 86/653 CE) abbia validamente travolto il patto di cui all’art. 7 del contratto di agenzia, con ciò violando altresì l’art. 11 delle preleggi.
Con un secondo motivo si censura la mancata applicazione degli interessi moratori, sulle somme riconosciute, avendo la Corte territoriale errato sulla circostanza che il D.lgs. n. 231/2002 non si applicava ai contratti stipulati anteriormente all’8.8.2002, non considerando, invece, che l’interpretazione dell’art. 6 dell’AEC del 2009, dell’art. 2 della legge n. 81/2017 e dell’art. 1284 cc era nel senso del riconoscimento all’agente (libero professionista) e in relazione al contratto di agenzia (contratto commerciale) gli interessi moratori ex D.lgs. n. 231/2002.
Con il terzo motivo il ricorrente lamenta l’errata statuizione sulle spese della consulenza tecnica di ufficio, poste per intero a suo carico, nonostante le spese di giudizio fossero state compensate e i risultati dell’elaborato tecnico erano risultati conformi ai conteggi da lui depositati a fondamento della domanda.
Il primo motivo presenta profili di infondatezza e di inammissibilità.
E’ senza dubbio inammissibile la censura con cui si lamenta la interpretazione dell’art. 7 del contratto di agenzia, intercorso tra le parti (‘Art. 7 – Risoluzione del rapporto. La liquidazione di quanto dovuto per legge in relazione alla risoluzione del rapporto verrà effettuata al buon fine delle vendite e l’importo, annualmente calcolato, verrà accantonato presso un apposito fondo del bilancio della Società.’ ), così come effettuata dalla Corte territoriale che ha ritenuto, da un lato, il richiamo, inserito nella clausola, riferibile
all’AEC di diritto del 1958, che aveva validità erga omnes in virtù del DPR 1842/1960) e, quindi, applicabile ratione temporis nel 1974 e non, invece, ai successivi Accordi Economici Collettivi poi succedutisi nel tempo e, dall’altro, che ha specificato che il suddetto rinvio al citato Accordo del 1958 non era un rinvio ‘fisso’ e, pertanto, non essendo più in vigore, non poteva essere applicato al rapporto tra le parti.
7. Deve precisarsi che, secondo la consolidata giurisprudenza di questa Corte, l’interpretazione del contratto e degli atti di autonomia privata costituisce un’attività riservata al giudice di merito, ed è censurabile in sede di legittimità soltanto per violazione dei criteri legali di ermeneutica contrattuale ovvero per vizi di motivazione, qualora la stessa risulti contraria a logica o incongrua, cioè tale da non consentire il controllo del procedimento logico seguito per giungere alla decisione; è stato pure puntualizzato che, ai fini della censura di violazione dei canoni ermeneutici, non è sufficiente l’astratto riferimento alle regole legali di interpretazione, ma è necessaria la specificazione dei canoni in concreto violati, con la precisazione del modo e delle considerazioni attraverso i quali il giudice se ne è discostato, mentre la denuncia del vizio di motivazione dev’essere effettuata mediante la precisa indicazione delle lacune argomentative, ovvero delle illogicità consistenti nell’attribuzione agli elementi di giudizio di un significato estraneo al senso comune, oppure con l’indicazione dei punti inficiati da mancanza di coerenza logica, e cioè connotati da un’assoluta incompatibilità razionale degli argomenti, sempre che questi vizi emergano appunto dal ragionamento logico svolto dal giudice di merito, quale risulta dalla sentenza. In ogni caso, per sottrarsi al sindacato di legittimità, non è necessario che quella data dal giudice sia l’unica interpretazione possibile, o la migliore in astratto, sicché, quando di una clausola siano possibili due o più interpretazioni, non è consentito alla parte, che aveva proposto l’interpretazione disattesa dal giudice, dolersi in sede di legittimità del fatto che è stata privilegiata un’altra (Cass. n. 19044/2010, Cass. n. 15604/2007, in motivazione; Cass. n. 4178/2007) dovendosi escludere che la semplice contrapposizione
dell’interpretazione proposta dal ricorrente a quella accolta nella sentenza impugnata rilevi ai fini dell’annullamento di quest’ultima (Cass. n. 14318/2013, Cass. n. 23635/2010).
Le censure in concreto articolate con i motivi in esame non sono coerenti con le richiamate indicazioni del giudice di legittimità in quanto prospettano, secondo una modalità di mera contrapposizione, una diversa e più favorevole interpretazione della clausola dell’art. 7 del contratto di agenzia, intercorso tra le parti, senza veicolarla attraverso la individuazione delle modalità con le quali la Corte di merito si è discostata dalle richiamate regole legali di interpretazione e senza evidenziare specifiche implausibilità o illogicità della motivazione esibita dal giudice di appello nel pervenire al contestato approdo ermeneutico.
A ciò va poi aggiunto che la Corte territoriale ha sottolineato che l’appello proposto non si era affatto confrontato con l’impianto argomentativo della decisione di primo grado in ordine alla menzionata interpretazione della pattuizione individuale di cui all’art. 7 che, pertanto, non poteva essere rivalutata in assenza di elementi decisivi che avessero potuto indurre a considerare che le parti avevano inteso applicare la successiva disciplina collettiva ovvero che fosse stato appunto concordato un rinvio ‘fisso’ alla normativa vigente nel 1974.
I giudici di seconde cure hanno, quindi, posto a base della decisione, sia un profilo processuale, riguardante l’inidoneità del gravame a censurare la decisione sul punto del Tribunale, sia di merito, attinente alla esegesi dell’art. 7 del contratto, giungendo alla conclusione che, al momento della cessazione del rapporto, avvenuta nel 2016, si doveva fare riferimento alla regola legale di cui all’art. 1751 cc.
In relazione, poi, alla questione della applicabilità di tale disciplina, la pronuncia della Corte distrettuale è conforme agli orientamenti di legittimità secondo cui: a) la nuova normativa si applica ai rapporti ancora in vita i cui fatti siano venuti in essere dopo, ancorché conseguenti ad un fatto passato, quando essi, ai nuovi fini debbano essere presi in considerazione in se stessi, prescindendosi dal collegamento col fatto che li ha generati (Cass.
16039/2016; Cass. n. 16620/2013); b) nella disciplina dell’indennità di cessazione del rapporto di agenzia di cui all’art. 1751 c.c., nel testo introdotto dall’art. 4 del d.lgs. n. 303 del 1991 (applicabile anche ai rapporti di subagenzia), fatto costitutivo del diritto è la cessazione del rapporto, prevista nel comma 1, unitamente alle condizioni previste dalle successive due articolazioni dello stesso comma (in via alternativa, originariamente, e in via cumulativa, a seguito della modifica attuata dall’art. 5 del d.lgs. n. 65 del 1999). Pertanto, detta indennità non solo sorge al momento dell’effettiva cessazione del contratto, ma presuppone anche che l’agente generale ottenga la restituzione del portafoglio clienti possibilmente, incrementato rispetto al momento della consegna (Cass. n. 21602/2019; Cass. n. 4708/2011; Cass. n. 17992/2002).
Inoltre, deve rilevarsi che alcuna violazione della normativa europea e, in particolare della Direttiva 86/653/CE è ravvisabile in quanto, essendo stata esclusa l’applicabilità degli AA.EE.CC. in un contesto in cui è stato, peraltro, accertato dai giudici di merito che non vi era prova che la mandante avesse aderito ad associazioni stipulanti l’AEC invocato, in relazione alla risoluzione del rapporto l’unica norma cui fare riferimento è effettivamente quella dell’art. 1751 cod. civ. che, al fine della quantificazione dell’indennità di fine rapporto dovuta all’agente in caso di cessazione del rapporto di agenzia, nel testo introdotto dall’art. 4 del d.lgs. 10 settembre 1991 n. 303, è stato proprio attuativo della direttiva 86/653/CEE sul coordinamento del diritto degli Stati membri concernenti gli agenti commerciali indipendenti.
Infine, le doglianze sulla sussistenza dei requisiti di operatività dell’art. 1751 cc, esclusi dalla Corte di appello, attengono ad accertamenti di merito, in ordine alla loro allegazione e prova che, in quanto adeguatamente motivati, non sono sindacabili in sede di legittimità.
Attesi, quindi, i poteri limitati di questa Corte circa il sindacato sulla interpretazione degli atti di autonomia privata nonché in ordine agli accertamenti di fatto compiuti dalla Corte
distrettuale che, sulle questioni di diritto si è attenuta ai principi della giurisprudenza di legittimità, le critiche di parte ricorrente, veicolate con il motivo scrutinato, non sono meritevoli di accoglimento.
Il secondo motivo è infondato.
La statuizione della Corte di appello, in ordine alla inapplicabilità della disciplina di cui al D.lgs. n. 231/2002, è stata correttamente motivata sulla causa di esclusione rappresentata dal fatto che il contratto di agenzia era stato stipulato prima dell’8.8.2002 (art. 11 del menzionato Decreto), non potendosi avere riguardo alla singola transazione commerciale. Inoltre, essendo stata applicata la norma speciale, posta a tutela dei crediti di lavoro (art. 429 cpc e 150 disp. att. cpc), che prevede il riconoscimento di interessi e rivalutazione monetaria, non è stato specificato dal ricorrente neanche l’effettivo pregiudizio che avrebbe patito dalla diversa applicazione di una normativa rispetto all’altra e, quindi, il suo interesse ad impugnare.
Il terzo motivo è anche esso infondato.
Non viola, infatti, l’art 92 c.p.c. il giudice di merito che, dopo avere dichiarato la compensazione delle spese fra le parti, nell’esercizio del suo potere discrezionale, non sindacabile in sede di legittimità, pone a carico dell’attore quelle della consulenza tecnica di ufficio, in quanto tale pronuncia sta solo ad indicare che la compensazione ha natura parziale (cfr. Cass. n. 22868/2019), nel caso in esame specificatamente motivata in quanto è stata valorizzata, a tali fini, la richiesta dell’accertamento tecnico da parte del COGNOME e, quindi, trattasi di una statuizione in ossequio al principio della causalità che presiede il governo delle spese di lite.
Alla stregua di quanto esposto, il ricorso deve essere rigettato, restando superata la trattazione delle altre questioni prospettate dalla controricorrente in via subordinata.
Al rigetto segue la condanna del ricorrente al pagamento delle spese del presente giudizio di legittimità che si liquidano come da dispositivo.
Ai sensi dell’art. 13, comma 1 quater, del DPR n. 115/02, nel testo risultante dalla legge 24.12.2012 n. 228, deve provvedersi, ricorrendone i presupposti processuali, sempre come da dispositivo.
PQM
La Corte rigetta il ricorso. Condanna il ricorrente al pagamento, in favore della controricorrente, delle spese del presente giudizio che liquida in euro 6.000,00 per compensi, oltre alle spese forfettarie nella misura del 15 per cento, agli esborsi liquidati in euro 200,00 ed agli accessori di legge. Ai sensi dell’art. 13, comma 1 quater, del DPR n. 115/02 dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello previsto per il ricorso, a norma del comma 1 bis dello stesso art. 13, se dovuto.
Così deciso in Roma, nella camera di consiglio, il 31 gennaio 2024