Ordinanza di Cassazione Civile Sez. 1 Num. 32637 Anno 2024
Civile Ord. Sez. 1 Num. 32637 Anno 2024
Presidente: NOME
Relatore: COGNOME
Data pubblicazione: 15/12/2024
ORDINANZA
nel ricorso n. 25083/2018 R.G.
promosso da
COGNOME NOME NOME e COGNOME NOME , elettivamente domiciliati in Roma , INDIRIZZO presso lo studio dell’avv. NOME COGNOME rappresentati e difesi dall’avv. NOME COGNOME (PEC: EMAIL in virtù di procura speciale in atti;
ricorrenti
contro
Comune di Serra San Bruno , in persona del Sindaco pro tempore , elettivamente domiciliato in Roma, INDIRIZZO presso lo studio dell’avv. NOME COGNOME, rappresentato e difeso dall’avv. NOME COGNOME (PEC: EMAIL in virtù di procura speciale in atti;
contro
ricorrente
avverso l’ordinanza della Corte d’appello di Catanzaro n. cronol. 275/2018 pubblicata il 31/01/2018;
udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del 18/09/2024 dal Cons. NOME COGNOME letti gli atti del procedimento in epigrafe;
SVOLGIMENTO DEL PROCESSO
Con ricorso depositato in data 23/12/2015, NOME NOME NOME e NOME NOME – premesso che erano proprietari, quali eredi di COGNOME NOME, di un’area di 300 metri quadrati sia nella INDIRIZZO del Comune di Serra San Bruno; che su tale area la COGNOME aveva realizzato due fabbricati, il primo, ad un piano fuori terra, di forma rettangolare della superficie di 27 mq e volume 72,90 mc ed il secondo, anch’esso ad un piano fuori terra, di forma rettangolare con corpo avanzato su un lato della superficie di 128,10 mq ed un volume di 345,37 mc; che il Comune, al fine di realizzare un intervento di ampliamento della INDIRIZZO, aveva occupato d’urgenza in data 19/06/1997, l’area in questione; che l’immissione in possesso era stata effettuata in data 23/07/1998; che il decreto di esproprio era intervenuto in data 29/05/2002 con numero di protocollo 7, nel quale era nel contempo contenuta una proposta di indennità pari ad € 17.891,77, calcolata in applicazione del criterio di cui al d.l. n. 333 del 1992, poi dichiarato illegittimo dalla Corte Costituzionale; che tale indennità non era stata accettata dalla COGNOME e poi dai suoi eredi; che l’immobile era stato stimato da un tecnico di essi ricorrenti in euro 137.887,35; che con nota del 04/02/2009, l’Amministrazione Comunale aveva ribadito, pur riconoscendo di dover ancora provvedere alla corresponsione dell’indennità, la proposta di € 17.891,77 di cui al decreto di esproprio – chiedevano che l’adita Corte d’appello di Catanzaro provvedesse alla determinazione della giusta indennità di esproprio.
Costituitosi il Comune di Serra San Bruno, la Corte disponeva C.T.U. e, all’esito, determinava l’indennità definitiva di esproprio in
complessivi € 35.000,00, ordinando al Comune di depositare, a tale titolo, presso la Cassa Depositi e Prestiti della Tesoreria Provinciale di Vibo Valentia, in favore degli aventi diritto, la ulteriore somma di euro 6.748,50, oltre interessi legali, sulla somma di euro 35.000,00, dalla data del 29 /05/2002 alla data dell’11/09/2014 e, sulla somma di € 6.748.50, dalla data dell’11/09/2014 a quella di deposito della soma stessa.
In motivazione, disattese le eccezioni preliminari del Comune, la Corte territoriale esaminava il ricorso nel merito, osservando, in primo luogo, che l’approvazione de l progetto esecutivo dei lavori, che equivaleva alla dichiarazione di pubblica utilità, intervenuta il 12/06/1997, conteneva l’indicazione dei termini per l’immissione in possesso e per il completamento della procedura e, a prescindere dal fatto che l’ immissione in possesso fosse intervenuta dopo i tre mesi previsti dall ‘art. 20 della l. n. 865 del 1971, il decreto di esproprio era valido ed efficace, essendo stato emanato il 29/05/2002, entro il termine indicati nella deliberazione del 12/06/1997.
Secondo la Corte d’appello, infatti, n essuna influenza aveva sul provvedimento di esproprio la circostanza che l’immissione in possesso fosse avvenuta tardivamente, poiché, da un lato, il decreto di occupazione è provvedimento formalmente e sostanzialmente autonomo rispetto a quello di espropriazione, con la conseguenza che eventuali vizi inficianti la validità del primo non incidono sulla legittimità del secondo, e dal l’ altro, era irrilevante la circostanza di una eventuale irreversibile trasformazione intervenuta in data antecedente al decreto di esproprio, attesa l’avvenuta abolizione dell’istituto della cosiddetta occupazione acquisitiva in favore dell’ente espropriante.
La Corte rilevava, quindi, che il C.T.U. aveva accertato che gli immobili oggetto di causa erano costituti da due fabbricati realizzati sulla particella catastale n. 598, del foglio di mappa n. 6. estesa metri
quadrati 300; tali immobili erano situati nella zona est della INDIRIZZO e consistevano in due costruzioni a solo piano terra in blocchetti di calcestruzzo e copertura a falde in ondulina di eternit, che avevano le seguenti superfici: il corpo principale era di 127,20 mq, con un volume di 343,44 mq; il corpo secondario di 27,00 mq ed un volume di 72,90 mc. La superficie totale era quindi pari a 154,20 mq ed il volume totale a 416,34 mc. Si trattava di due modeste costruzioni dalle caratteristiche costruttive economiche, funzionali allo scopo per cui erano state realizzate (garage e magazzini), che, dalle fotografie reperite, risultavano integri, con condizioni di conservazione discreti.
Sempre richiamando la C.T.U., la Corte territoriale precisava che, in base al Piano Regolatore Generale approvato con D.P.G.R.C. n. 702/1997, la particella 598 era ricompresa in una zona destinata parte a parcheggi, parte in zona A.I.C. ( ‘ Attrezzature di interesse Comune ‘) e parte in zona verde di rispetto fluviale. Nello strumento urbanistico precedente, approvato con D.P.G.R.C. n. 498/1989, l’area oggetto di esproprio ricadeva in Z.T.O ‘A’ (centro storico), al limite delle Z.T.O. ‘B’ (di completamento ) e ‘ C ‘ (di espansione). Aggiungeva, quindi, che correttamente il C.T.U. aveva ritenuto che l’ area oggetto di esproprio ricadesse in zona edificata, facente parte di una più vasta zona di natura edificatoria per intrinseche possibilità legali ed effettive di edificabilità. Evidenziava che i manufatti espropriati, e demoliti a seguito della procedura espropriativa, erano stati oggetto di concessione edilizia in sanatoria e che, quindi, trattandosi di beni legalmente edificati, la stima dell’indennità di esproprio doveva coincidere con il valore di mercato data del decreto di esproprio (29/05/2002).
La Corte riteneva, inoltre, corretta la stima operata dal C.T.U., che aveva determinato tale valore in complessivi € 35.000,00, inclusa l’area di pertinenza, spiegando che il consulente del giudice aveva
preso in considerazione la banca dati dei Valori Immobiliari dell’Agenzie delle Entrate del 2013 e il Borsino Immobiliare del 2013 e – tenuto conto dei dati del “Il RAGIONE_SOCIALE” edizione ‘ il Sole 24ore ‘ per gli immobili dei vicini Comini di Soverato e Squillace, relativi all’anno 2002 e all’anno 2016, desumendo da tali dati che i valori immobiliari tra il 2002 ed il 2013 avevano subito una variazione del 45,18% – aveva riformulando i valori accertati al 2013, relativamente agli immobili destinati a ‘ magazzini ‘ e ‘ box ‘ , ottenendo un valore di medio unitario di € 261,50 , aumentato ad € 300,00 per la posizione particolarmente favorevole degli immobili, poi ridotto del 25% in ragione della necessità, documentalmente comprovata, della esecuzione di significativi e costosi lavori di consolidamento statico. Il valore unitario ricavato era, infine, pari ad € 225,00, secondo i valori al 2002.
Per quanto riguardava la superficie degli immobili, la Corte d’appello riteneva corretta l’indicazione del C .T.U. in complessivi 175,80 mq, non condividendo la prospettazione del consulente dei ricorrenti, secondo il quale vi era una superficie abitabile di 30,75 mq (145,05 mq per opere a destinazione non residenziale e 30,75 mq per opere adibite ad abitazione), ritenuta del tutto indimostrata.
Circa la valutazione degli immobili, la Corte rilevava che il consulente dei ricorrenti aveva utilizzando i dati O.M.I. relativi al 2002 del Comune di Serra San Bruno che, però, andavano considerati solo con riferimento alla parte non residenziale, per quanto sopra argomentato, che riportavano un valore minimo di € 310,00 ed un valore massimo di € 410 ,00 al mq, e quindi un valore del tutto pari a quello indicato per i “magazzini” nei dati O.M.I. del 2013, avendo comunque il consulente di parte errato tra i valori dei magazzini e quelli dei negozi, considerata la tipologia degli immobili espropriati (indicata nella concessione in sanatoria e nella relazione di stima a firma del
progettista dei lavori eseguire sull’area espropriata, geom. NOME COGNOME giustamente ridotto del 25% per i necessari costosi lavori di consolidamento statico.
Nel determinare la somma dovuta, la Corte precisava, infine che, versandosi in ipotesi di somme dovute a titolo di indennità, la relativa obbligazione aveva natura di debito di valuta, soggetta al principio nominalistico, per cui nessuna somma sul predetto importo era dovuta per effetto della svalutazione monetaria in mancanza di prova dell’ulteriore danno subito a causa del ritardo colpevole nel pagamento delle indennità, ai sensi dell’art. 1224, comma 2, c.c..
Avverso tale sentenza hanno proposto ricorso per cassazione NOME e NOME affidato a cinque motivi.
L’intimat o si è difeso con controricorso.
RAGIONI DELLA DECISIONE
Con il primo motivo di ricorso è dedotta l’e rronea o falsa applicazione dell’art. 42 bis , comma 3, l. n. 327 del 2001, in relazione all ‘ art. 360, comma 1, n. 3, c.p.c., per aver e la Corte d’appello ritenuto irrilevante l’esame sulla avvenuta irreversibile trasformazione dell’immobile durante l’occupazione illegittima, intervenuta in data antecedente al decreto di esproprio.
Con il secondo motivo di ricorso è dedotta l’i llegittimità dell’ordinanza in relazione all’art. 360, comma 1, n. 4, c.p.c., per violazione dell ‘ art. 132, comma 2, n. 4, c.p.c. (ai sensi. dell’art. 156, comma 2, c.p.c.), per essere la motivazione apparente, in ragione della mera acquisizione del risultato della C.T.U. estimativa, senza alcun esame della correttezza formale, sostanziale, logica dell ‘elaborato peritale, o comunque per essere la motivazione insufficiente.
Con il terzo motivo di ricorso è dedotta l’i llegittimità dell’ordinanza, in relazione all’art. 360, comma 1, n. 3, c.p.c., per violazione degli artt. 115 e 116 c.p.c., avendo la Corte d ‘a ppello avallato un metodo di.
valutazione difforme da quelli comunemente adottati in sede di determinazione del valore di mercato, commettendo degli errori di logica e ragionevolezza.
Con il quarto motivo di ricorso è dedotta l’ illegittimità della sentenza per violazione dell’art. art. 38 d.P.R. n. 327 del 2001, in relazione all ‘ art. 360, comma 1, n. 3, c.p.c., per avere la Corte d’appello determinato erroneamente il valore di mercato dell’immobile oggetto di esproprio senza applicare né il metodo di stima sinteticocomparativo né quello analitico-ricostruttivo, lasciando il giudizio ad una valutazione soggettiva del giudice, senza operare un calcolo a parte per l’area pertinenziale e senza tenere nel giusto conto le potenzialità effettive e legali del l’area espropriata.
Con il quinto motivo di ricorso è dedotta l’ illegittimità della sentenza , in relazione all’art. 360, comma 1, n. 3, c.p.c., per violazione dell’art. 1 prot. 1 addizionale alla Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, per avere la Corte d’appello riconosciuto sulla somma di € 35.000,00 gli interessi legali dalla data del 29/05/2002 alla data dell’11/09/2014, anziché gli interessi moratori, con esclusione della rivalutazione monetaria.
È infondata l’eccezione di inammissibilità del ricorso per difetto di interesse, formulata dal controricorrente, che ha dedotto la mancanza del requisito della soccombenza, tenuto conto che le parti private hanno chiaramente affermato di avere preteso la liquidazione di una indennità di maggiore entità rispetto a quella accertata.
È altresì in sussistente l’ulteriore profilo di inammissibilità del ricorso, pure prospettato dal controricorrente, concernente l’ impossibilità di impugnazione di provvedimenti istruttori, non aventi contenuto decisorio su diritti, per avere i ricorrenti censurato le risultanze della C.T.U., poiché, nella specie, benché siano ravvisabili gli altri, diversi, profili di inammissibilità di cui si dirà, i ricorrenti
censurano la statuizione assunta con l’ordinanza impugnata, che ha contenuto di decisione sull’entità dell’indennità di esproprio, sia pure determinata in base alla risultanze della C.T.U. espletata.
Il primo motivo di ricorso è inammissibile.
4.1. Come sopra evidenziato, la Corte d’appello ha ritenuto che non avesse alcuna influenza sull’esito del giudizio l’accertamento della legittimità o meno dell’occupazione che ha preceduto l’adozione del decreto di esproprio, nel corso della quale era intervenuta l’irreversibile trasformazione del suolo, sulla base di due argomenti. Da una parte, ha rilevato che il decreto di occupazione è un provvedimento formalmente e sostanzialmente autonomo rispetto a quello di espropriazione, con la conseguenza che eventuali vizi che inficiano la validità del primo non incidono sulla legittimità del secondo, come da giurisprudenza di questa Corte citata nell’ordinanza impugnata (Cass.4850/2016) . Dall’altra ha evidenziato che era, comunque, irrilevante la circostanza che vi fosse stata una eventuale irreversibile trasformazione del suolo prima che venisse adottato il decreto di esproprio, essendo oramai abolito l’istituto della cosiddetta occupazione acquisitiva in favore dell’ente espropriante.
Secondo i ricorrenti, invece, la Corte ha errato nel non accertare che l’occupazione fosse illegittima, perché con l’irreversibile trasformazione del suolo si era verificato l’effetto estintivo della proprietà in capo ai privati, che rendeva privo di efficacia il decreto di esproprio successivamente intervenuto, da considerare tamquam non esset . L ‘erronea mancata considerazione dell ‘ intervenuta trasformazione del suolo aveva, poi, determinato l ‘ errata negazione della rivalutazione monetaria (poiché il credito nascente dall’occupazione illegittima è un credito di valore e, in quanto tale, suscettibile di rivalutazione monetaria) e l’err onea individuazione del termine iniziale del decorso degli interessi e della rivalutazione
monetaria stessa (poiché l’accertamento dell’i rreversibile trasformazione del fondo durante l’o ccupazione illegittima fa retrodatare il termine di decorrenza degli interessi e della rivalutazione andrebbe alla data dell’occupazione illegittima e/o a quella della irreversibile trasformazione del fondo).
4.2. I ricorrenti non hanno specificamente censurato la statuizione della Corte territoriale nella parte in cui ha affermato l’autonomia delle questioni relative alla legittimità dell’ occupazione rispetto a quelle che interessano il decreto di esproprio, richiamando pertinente giurisprudenza di legittimità sul punto (Cass. n. 4850/2016; in senso conforme Cass. n. 16509/2019), ma si sono limitati a criticare la statuizione impugnata sul secondo argomento illustrato nell’ordinanza impugnata.
Il motivo non attinge, dunque, una delle due rationes poste a fondamento della decisione, così rendendo il motivo per ciò solo inammissibile (Cass., Sez. 1, Ordinanza n. 17182 del 14/08/2020; Cass., Sez. 3, Sentenza n. 10815 del 18/04/2019).
5. Anche il secondo motivo di ricorso è inammissibile.
Secondo i ricorrenti, dalla lettura della decisione impugnata, nella parte relativa al valore riconosciuto al bene espropriato, emerge che la Corte ha fatto propria la relazione di stima, limitandosi a ripetere i vari passaggi della C.T.U., senza tuttavia specificare, nel corpo della motivazione, le ragioni di fatto e di diritto che rendevano la C.T.U. corretta e senza illustrare in modo sufficiente le ragioni per cui le osservazioni del consulente di parte del ricorrente fossero state correttamente disattese.
La critica, così come formulata, non prospetta, tuttavia, un vizio di motivazione censurabile in sede di legittimità.
5.1. Com’è noto, la vigente formulazione dell’art. 360, comma 1, n. 5, c.p.c., introdotta con la novella del 2012, non consente più
l’impugnazione «per omessa insufficiente o contraddittoria motivazione circa un fatto controverso e decisivo per il giudizio» , ma soltanto «per omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti» .
Le Sezioni Unite di questa Corte hanno affermato che la richiamata modifica normativa ha avuto l’effetto di limitare il vizio di motivazione, quale oggetto del sindacato di legittimità, alle fattispecie nelle quali esso si converte in violazione di legge (Cass., Sez. U, Sentenza n. 8053 del 07/04/2014).
In particolare, la riformulazione appena richiamata deve essere interpretata alla luce dei canoni ermeneutici dettati dall’art. 12 prel., come riduzione al ‘ minimo costituzionale ‘ del sindacato di legittimità sulla motivazione. Pertanto, è divenuta denunciabile in cassazione solo l’anomalia motivazionale che si tramuti in violazione di legge costituzionalmente rilevante, in quanto attinente all’esistenza della motivazione in sé, purché il vizio risulti dal testo della sentenza impugnata, a prescindere dal confronto con le risultanze processuali (Cass., Sez. U, Sentenza n. 8053 del 07/04/2014).
In altre parole, a seguito della riforma del 2012 è scomparso il controllo sulla motivazione con riferimento al parametro della sufficienza, ma resta il controllo sull’esistenza (sotto il profilo dell’assoluta omissione o della mera apparenza) e sulla coerenza (sotto il profilo della irriducibile contraddittorietà e dell’illogicità manifesta) della stessa, ossia il controllo riferito a quei parametri che determinano la conversione del vizio di motivazione in vizio di violazione di legge, sempre che emerga immediatamente e direttamente dal testo della sentenza impugnata (v. ancora Cass., Sez. U, Sentenza n. 8053 del 07/04/2014 e, da ultimo, Cass., Sez. 1, n. 13248 del 30/06/2020).
A tali principi si è uniformata negli anni successivi la giurisprudenza di legittimità, la quale ha più volte precisato che la violazione di legge,
come sopra indicata, ove riconducibile alla violazione degli artt. 111 Cost. e 132, comma 2, n. 4, c.p.c., determina la nullità della sentenza ai sensi dell’art. 360, comma 1, n. 4, c.p.c. (così Cass., Sez. U, Sentenza n. 22232 del 03/11/2016; conf. Cass. Sez. 6-3, Ordinanza n. 22598 del 25/09/2018; Cass., Sez. L, Sentenza n. 27112 del 25/10/2018; Cass., Sez. 6-L, Ordinanza n. 16611 del 25/06/2018; Cass., Sez. 3, Sentenza n. 23940 del 12/10/2017).
Questa Corte ha, in particolare, affermato che il vizio di motivazione previsto dall’art. 132, comma 2, n. 4, c.p.c. e dall’art. 111 Cost. sussiste quando la pronuncia riveli una obiettiva carenza nella indicazione del criterio logico che ha condotto il giudice alla formazione del proprio convincimento, come accade quando non vi sia alcuna esplicitazione sul quadro probatorio, né alcuna disamina logicogiuridica che lasci trasparire il percorso argomentativo seguito (Cass., Sez. L, Ordinanza n. 3819 del 14/02/2020).
Ricorre, dunque, il vizio in questione, quando la decisione, benché graficamente esistente, non rende percepibile il fondamento della decisione, perché reca argomentazioni obiettivamente inidonee a far conoscere il ragionamento seguito dal giudice per la formazione del proprio convincimento, non potendosi lasciare all’interprete il compito di integrarla con le più varie, ipotetiche, congetture (Cass., Sez. 6-1, Ordinanza n. 6758 del 01/03/2022; Cass., Sez. 1, Ordinanza n. 13248 del 30/06/2020).
5.2. Con specifico riferimento alla motivazione della decisione che recepisca le risultanze peritali, questa Corte ha precisato che, in via generale, il giudice di merito che aderisce alle conclusioni del consulente tecnico esaurisce l’obbligo di motivazione con l’indicazione delle fonti del suo convincimento, non dovendo necessariamente soffermarsi anche sulle contrarie allegazioni dei consulenti tecnici di parte, le quali, sebbene non espressamente confutate, restano
implicitamente disattese, perché incompatibili, fermo restando che il giudice deve, invece, motivare la propria adesione alla C.T.U., a pena di nullità della propria statuizione per difetto di motivazione, quando le censure all’elaborato peritale non sono solo puntuali e specifiche, ma evidenziano anche la totale assenza di giustificazioni delle conclusioni assunte dal consulente dell’ufficio (Cass., Sez. 1, Sentenza n. 15804 del 06/06/2024).
5.3. Nella specie, dalla lettura dell’ordinanza impugnata si evince con chiarezza l’adesione alle conclusioni cui è pervenuto il consulente tecnico dell’ufficio, le cui motivazioni sono fatte proprie e illustrat e nella decisione della Corte d’appello , anche nella parte in cui non ha condiviso le osservazioni e le critiche del consulente di parte dei ricorrenti, con argomenti esplicitati e chiaramente esposti, e perciò motivati (v. supra e p. 9 e ss. dell’ordinanza impugnata).
Il terzo motivo è parimenti inammissibile.
6.1. Come precisato da questa Corte, in tema di ricorso per cassazione, una censura relativa alla violazione e falsa applicazione degli artt. 115 e 116 c.p.c. non può porsi per una ritenuta erronea valutazione del materiale istruttorio compiuta dal giudice di merito, ma solo se si alleghi che quest’ultimo abbia posto a base della decisione prove non dedotte dalle parti, ovvero disposte d’ufficio al di fuori dei limiti legali, o abbia disatteso, valutandole secondo il suo prudente apprezzamento, delle prove legali, ovvero abbia considerato come facenti piena prova, recependoli senza apprezzamento critico, elementi di prova soggetti invece a valutazione (Cass., Sez. 1, Sentenza n. 6774 del 01/03/2022; Cass., Sez. 6-1, Ordinanza n. 1229 del 17/01/2019).
Il ricorrente per cassazione non può, infatti, rimettere in discussione, contrapponendone uno difforme, l’apprezzamento in fatto dei giudici del merito (ove non sia dedotto il difetto di motivazione o l’omesso esame di un fatto decisivo ), atteso che l’apprezzamento dei
fatti e delle prove è sottratto al sindacato di legittimità, in quanto, nell’ambito di quest’ultimo, non è conferito il potere di riesaminare e valutare il merito della causa, ma solo quello di controllare, sotto il profilo logico formale e della correttezza giuridica, l’esame e la valutazione del giudice di merito, a cui resta riservato di individuare le fonti del proprio convincimento e, all’uopo, di valutare le prove, controllarne attendibilità e concludenza e scegliere, tra esse, quelle ritenute idonee a dimostrare i fatti in discussione (Cass., Sez. 5, Ordinanza n. 32505 del 22/11/2023).
6.2. Nel caso di specie, la censura attiene alla scelta operata dalla Corte d’appello di dare rilievo ad alcuni criteri ed elementi di valutazione piuttosto che ad altri, con una critica che non prospetta i vizi sopra evidenziati, ma semplicemente, e impropriamente, esprime la non condivisione della valutazione in fatto operata dal giudice di merito.
7. Anche il quarto motivo è inammissibile.
Com’è noto, l’art. 38, comma 1, d.P.R. n. 327 del 2001, stabilisce che «Nel caso di espropriazione di una costruzione legittimamente edificata, l’indennità è determinata nella misura pari al valore venale.»
Dalla lettura dell’ordinanza impugnata si evince con chiarezza che la Corte d’appello ha operato una valutazione complessiva dell’area, comprensiva anche dell’area pertinenziale ai manufatti, tenendo conto del valore di mercato di aree di Comuni vicini, determinato con riferimento all’anno in cui è stato adottato il decreto di esproprio, secondo un criterio esplicitato in ogni passaggio. Il valore determinato è stato, poi, aumentato, considerando la particolare posizione in cui il bene si trovava, e diminuito, in considerazione dello stato di conservazione dello stesso, rispondendo in modo esplicito alle critiche sollevate dai consulenti tecnici di parte (p. 11 e ss. dell’ordinanza impugnata).
Il motivo, come formulato, non ha prospettato una censura relativa al mancato rispetto del valore venale del bene, ma si risolve in una critica al valore attribuito agli elementi presi in considerazione dalla Corte d’appello (il valore di mercato dell’area al tempo dell’esproprio , la considerazione dell’ area pertinenziale, la specificità della posizione del fondo), in quanto diverso da quello che i ricorrenti avrebbero voluto vedere riconosciuto, così svolgendo una doglianza che attiene al giudizio di merito, non sindacabile in sede di legittimità.
8. Il quinto motivo è infondato.
La Corte d’appello ha affermato quanto segue : «Va infine puntualizzato che versandosi in ipotesi di somme dovute a titolo di indennità, la relativa obbligazione ha natura di debito di valuta, soggetta quindi al principio nominalistico, per cui nessuna somma sul predetto importi è dovuta per effetto della svalutazione monetaria in mancanza di prova dell’ulteriore danno subito a causa del ritardo colpevole nel pagamento delle indennità, ai sensi dell’art. 1224, comma 2, cod. civ. (v. Cass. 17 aprile 2013, n. 9361).»
I ricorrenti hanno dedotto che sull’importo liquidato avrebbero dovuto comunque essere riconosciuti, in favore dei ricorrenti, gli interessi moratori unitamente alla rivalutazione monetaria, dalla data dell’immissione in possesso o dalla diversa data del decreto di esproprio sino al soddisfo, come pure affermato dalla Corte EDU (da ultimo Corte EDU, Sentenza del 14/04/2015, c-22432/03, COGNOME c. Italia), poiché un’adeguata indennità di espropriazione deve in primo luogo corrispondere al valore venale all ‘ epoca della perdita del bene. Inoltre, siccome l’adeguatezza dell’indennità diminuirebbe se essa fosse versata senza riferimento a varie circostanze, suscettibili di ridurne il valore, quale il decorso di un notevole lasso temporale, l’importo iniziale deve essere aggiornato per compensare gli effetti dell’inflazione e deve essere maggiorato dell’importo degli interessi legali dovuti.
Questa Corte ha, tuttavia, precisato che, in tema di indennità di espropriazione, non trova diretta applicazione l’art. 1 del Primo Protocollo addizionale della CEDU, come interpretato dalla Corte EDU, relativo al diritto alla percezione di una giusta indennità da parte del soggetto privato della proprietà per causa di pubblico interesse, non essendo la materia disciplinata dal diritto europeo ma solo da quello nazionale che, peraltro, recando la possibilità della liquidazione del maggior danno da ritardo per le obbligazioni di valuta, ai sensi dell’art. 1224, comma 2, c.c., consente di soddisfare ugualmente l’esigenza di pieno ristoro del soggetto espropriato, qualora decorra un certo lasso di tempo tra l’espropriazione e la liquidazione dell’indennizzo (Cass., Sez. 1, Ordinanza n. 32911 del 09/11/2021).
Nel caso di specie, in conformità al principio enunciato, la Corte d’appello ha escluso la liquidazione della svalutazione monetaria, quale maggior danno subito dagli espropriati ex art. 1224 c.c., perché ha ritenuto non provato il danno ulteriore cagionato da un colpevole ritardo dell’Amministrazione , e rispetto a tale ultima dirimente affermazione non si rinviene in ricorso una critica compiuta e pertinente.
In conclusione, il ricorso deve essere respinto.
La statuizione sulle spese segue la soccombenza.
Il controricorrente, nel rassegnare le conclusioni, ha chiesto «La condanna alle spese e competenze di questo giudizio dei ricorrenti con distrazione al sottoscritto procuratore».
Com’è noto, tuttavia, ai fini dell’ottenimento della distrazione, è necessaria la dichiarazione scritta di avvenuta anticipazione delle spese di lite per fondare il diritto alla distrazione delle spese ai sensi dell’art. 93 c.p.c. (Sez. 6-3, Ordinanza n. 10236 del 30/03/2022).
Nel caso di specie, in assenza di tale dichiarazione, la richiesta non può essere accolta.
12. In applicazione dell’art. 13, comma 1 quater , d.P.R. n. 115 del 2002, occorre dare atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento da parte dei ricorrenti di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello richiesto per l’impugnazione proposta, se dovuto.
P.Q.M.
La Corte
rigetta il ricorso;
condanna i ricorrenti alla rifusione delle spese di lite sostenute dal controricorrente, che liquida in € 4.5 00,00 per compenso, oltre € 200,00 per esborsi ed accessori di legge;
dà atto, i n applicazione dell’art. 13, comma 1 quater , d.P.R. n. 115 del 2002, della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento da parte dei ricorrenti di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello richiesto per l’impugnazione proposta, se dovuto.
Così deciso in Roma, nella camera di consiglio della Prima Sezione civile