Ordinanza di Cassazione Civile Sez. 1 Num. 23360 Anno 2025
Civile Ord. Sez. 1 Num. 23360 Anno 2025
Presidente: COGNOME
Relatore: NOME COGNOME
Data pubblicazione: 16/08/2025
sul ricorso 23352/2020 proposto da:
COMUNE DI SELVA DI VAL GARDENA rappresentato e difeso dagli avvocati NOME COGNOME e NOME.NOME
– ricorrente –
contro
RAGIONE_SOCIALE rappresentati e difesi dagli avvocati NOME COGNOME e NOME
– controricorrenti –
nonché contro
RAGIONE_SOCIALE
– intimati – avverso l’ordinanza della CORTE DI APPELLO di Trento, SEZ. DIST. di BOLZANO n. 22/2018 depositata il 30/05/2020.
Udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del 12/06/2025 dal Cons. Dott. NOME COGNOME
RITENUTO IN FATTO
La Corte di appello di Trento, Sezione distaccata di Bolzano, con l’ordinanza riportata in epigrafe, ha accolto l’opposizione degli odierni intimati alla stima dell’indennità loro dovuta dal Comune di Selva di Val Gardena per l’espropriazione di alcune aree di loro proprietà ricadenti in una zona di espansione destinata all’edilizia agevolata.
Nel determinare il valore di ciascun cespite, il giudice territoriale, richiamati i principi regolanti la materia ed in particolare facendo appello al criterio del serio ristoro che l’indennità di esproprio deve perseguire, ha ritenuto che non fossero a tal fine utilizzabili i parametri di riferimento annualmente determinati per ciascun Comune ubicato nel territorio provinciale dall’Ufficio Provinciale di Estimo ai sensi dell’art. 1bis , comma 2, l. prov. 15 aprile 1991, n. 10, replicando, al contrario assunto del Comune, che «il sistema indennitario è ormai svincolato dalla disciplina delle formule mediane (dichiarata incostituzionale con sentenza n. 348 del 2007) e dei parametri tabellari e risulta, invece, agganciato al valore venale del bene. Il serio ristoro che l’art. 42 Cost., comma 3, riconosce al sacrificio della proprietà per motivi di interesse generale, si identifica, dunque, con il giusto prezzo nella libera contrattazione di compravendita, id est col valore venale del bene»; ha ritenuto perciò che, non potendo condividersi i valori di stima proposti dal Comune -che aveva impugnato la stima peritale sull’assunto che occorresse operare una diversa valutazione per i terreni soggetti ad ablazione ed i terreni destinati all’edilizia privata -, e ciò in quanto per i primi non esisteva un mercato e comunque perché la stima andava operata in applicazione del criterio previsto dall’art. 7quinquies l.
10/1991, potessero prendersi «a base della determinazione dell’indennità di esproprio spettante ai ricorrenti i valori accertati dal consulente tecnico d’ufficio sulla base del metodo comparativo in virtù del confronto effettuato tra i prezzi correnti di beni aventi ubicazione, destinazione e conformazione analoghe a quelle dei fondi occupati, la cui ponderata valutazione, garantendo la diretta correlazione tra il valore ottenuto e le caratteristiche fisiche e giuridiche dei beni assoggettati alla procedura ablatoria, consente di ravvisare quel ragionevole collegamento con il prezzo di mercato degli stessi, da cui dipende la serietà del ristoro riconosciuto all’espropriato».
L’ordinanza è ora impugnata avanti a questa Corte dal Comune soccombente con tre motivi, seguiti da memoria, ai quali resistono gli intimati con controricorso e memoria.
Il Procuratore generale ha depositato le proprie requisitorie scritte chiedendo che la Corte rigetti i primi due motivi di ricorso e dichiari inammissibile il terzo.
CONSIDERATO IN DIRITTO
2. Il primo motivo di ricorso -con cui si denuncia la violazione e falsa applicazione dell’art. 1bis , comma 2, l. 10/1991, poiché la Corte di appello nell’operare la stima, in luogo di affidarsi alle difformi valutazioni del proprio CTU, avrebbe dovuto attenersi, secondo quanto stabilito dalla norma di legge richiamata, ai valori di riferimento annualmente determinati dall’Ufficio Estimo della Provincia, che per le aree interessate indicano un valore compreso tra 600,00 e 900,00 euro al mq., valori a cui si era attenuto, e non avrebbe potuto diversamente fare, esso Comune ricorrente, salvo incorrere in una prevedibile responsabilità erariale, e che se la Corte decidente avesse voluto disattendere, come concretamente fatto, avrebbe dovuto previamente disapplicare il provvedimento amministrativo di determinazione -; ed il
secondo motivo di ricorso -con cui si denuncia la violazione e falsa applicazione dell’art. 7quinquies , comma 3, l. prov. 10/1991, poiché la Corte di appello, nell’operare la stima, avrebbe determinato i valori di stima sulla base del valore venale delle aree destinate all’edilizia privata, anziché riferirsi, secondo quanto stabilito dalla norma di legge richiamata, al valore di mercato delle aree destinate all’edilizia agevolata -esaminabili congiuntamente in quanto involgenti il medesimo tema di diritto, sono entrambi infondati e vanno pertanto disattesi.
3. Come bene ha ricordato il Procuratore Generale, la giurisprudenza della Corte Costituzionale, sul filo delle sollecitazioni più volte venute in questa direzione dalla Corte EDU interpretando l’art. 1 del protocollo aggiuntivo alla Convenzione, ha da tempo enunciato il principio, tra l’altro con la sentenza n. 348/2007, secondo cui «in conformità ai principi stabiliti dall’art. 1 del primo Protocollo della Convenzione per la salvaguardia dei Diritti dell’Uomo e delle libertà fondamentali (CEDU), firmata a Roma il 4 novembre 1950, quale interpretato dalla Corte Europea per i Diritti dell’Uomo, l’indennità di esproprio di aree edificabili espropriate deve consistere in somme congruamente proporzionate al valore di mercato dei fondi e che siano comunque rappresentative di un ‘serio ristoro’». Ne consegue che , una volta che il presupposto del computo dell’indennità di esproprio viene agganciato al valore di mercato del bene, la necessità di mantenere operativo il legame tra indennità ed equo ristoro consente anche di discostarsi dai parametri normativi dettati dall’ente territoriale, se non consentono il soddisfacimento del diritto alla giusta indennità riconosciuto dall’art. 1 prot. 1 CEDU.
A nulla vale opporre una paventata responsabilità erariale, non potendo questa ipotizzarsi se la valutazione del cespite si adegua al valore di mercato, in ciò attuandosi infatti esattamente il principio del serio ristoro, debitamente valorizzato dalla vista giurisprudenza costi-
tuzionale; né può farsi questione della necessità di una previa disapplicazione, a cui ha implicitamente proceduto il decidente, dal momento che il principio dell’equo ristoro è di diretta derivazione dal recepimento nell’ordinamento interno delle pronunce della Corte europea per i diritti dell’uomo secondo quanto stabilito, tra l’altro, dall’art. 117 Cost., sì che esso prevale su qualsiasi disposizione di diverso contenuto, tanto più se normativamente di rango minore, quale è la tabella approvata dall’Ufficio Estimo della Provincia.
4. Il terzo motivo di ricorso -con cui si denuncia l’illegittimità della decisione impugnata per insufficiente e contraddittoria motivazione circa un punto decisivo della controversia, laddove essa aveva erroneamente negato l’esistenza di un mercato delle aree agevolate, risultando, infatti, detta affermazione smentita dai documenti versati in atti (che attesterebbero l’acquisto concluso in altra occasione da parte della stessa espropriate di aree aventi tale natura) e, comunque, per motivazione insufficiente, perché frutto di un giudizio apodittico, e per motivazione contraddittoria, perché non si accorda con l’affermazione successiva dell’avvenuto acquisto da parte della stessa espropriata di aree consimili -è inammissibile, poiché palesemente versato in fatto ed essendo dunque diretto a rimodulare il giudizio in tal senso reso dal decidente di merito.
E’ infatti appena il caso di ricordare che «il ricorso per cassazione non introduce un terzo grado di giudizio tramite il quale far valere la mera ingiustizia della sentenza impugnata, caratterizzandosi, invece, come un rimedio impugnatorio, a critica vincolata ed a cognizione determinata dall’ambito della denuncia attraverso il vizio o i vizi dedotti» (Cass., Sez. U, 29/03/2013, n. 7931). Per vero, il controllo che la Corte di Cassazione è chiamata ad esercitare in funzione della legalità della decisione «non consente di riesaminare e di valutare autonomamente il merito della causa» ( ex plurimis , Cass., Sez. I, 6/03/2019, n.
6519), così come a sua volta il controllo di logicità «non consente alla parte di censurare la complessiva valutazione delle risultanze processuali contenuta nella sentenza impugnata, contrapponendo -come appunto qui -alla stessa una sua diversa interpretazione, al fine di ottenere la revisione da parte del giudice di legittimità degli accertamenti di fatto compiuti dal giudice di merito ( ex plurimis , Cass., Sez. II, 19/07/2021, n. 20553). E questo perché, come si chiosa abitualmente, il controllo affidato alla Corte «non equivale alla revisione del ragionamento decisorio, ossia dell’opzione che ha condotto il giudice del merito ad una determinata soluzione della questione esaminata, posto che ciò si tradurrebbe in un nuova formulazione del giudizio di fatto, in contrasto con la funzione assegnata dall’ordinamento al giudice di legittimità» ( ex plurimis , Cass., Sez. I, 5/08/2016 n. 16526). E dunque inammissibile il ricorso che sollecita a questa Corte una nuova valutazione di risultanze di fatto, «sì come emerse nel corso dei precedenti gradi del procedimento, così mostrando di anelare ad una surrettizia trasformazione del giudizio di legittimità in un nuovo, non consentito, giudizio di merito, nel quale ridiscutere tanto il contenuto di fatti storici e vicende processuali, quanto l’attendibilità maggiore o minore di questa o di quella ricostruzione procedimentale, quanto ancora le opzioni espresse dal giudice di appello -non condivise e per ciò solo censurate al fine di ottenerne la sostituzione con altre più consone ai propri desiderata -quasi che nuove istanze di fungibilità nella ricostruzione dei fatti di causa fossero ancora legittimamente proponibili dinanzi al giudice di legittimità » (così in motivazione, da ultimo, ex plurimis , Cass., Sez. V, 5/07/2024, n. 19379).
Il motivo, dunque, perché così connaturato, non può trovare seguito.
Il ricorso va conclusivamente respinto.
Le spese seguono la soccombenza e si liquidano come da dispositivo.
Ove dovuto, sussistono i presupposti per il raddoppio a carico del ricorrente del contributo unificato ai sensi del dell’art. 13, comma 1quater, d.P.R. 30 maggio 2002, n. 115.
P.Q.M.
Respinge il ricorso e condanna parte ricorrente al pagamento in favore di parte resistente delle spese del presente giudizio che liquida in euro 20.200,00, di cui euro 200,00 per esborsi, oltre al 15% per spese generali ed accessori di legge.
Ai sensi del dell’art. 13, comma 1quater, d.P.R. 30 maggio 2002, n. 115 dichiara la sussistenza dei presupposti per il versamento da parte del ricorrente, ove dovuto, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso.
Così deciso in Roma nella camera di consiglio della I sezione ci-