Ordinanza di Cassazione Civile Sez. 1 Num. 2923 Anno 2025
Civile Ord. Sez. 1 Num. 2923 Anno 2025
Presidente: COGNOME NOME COGNOME
Relatore: NOME
Data pubblicazione: 05/02/2025
ORDINANZA
sul ricorso iscritto al n. 10540/2021 R.G. proposto da NOME COGNOME elettivamente domiciliata
– ricorrente –
contro
– controricorrente –
avverso l ‘ordina nza n. rep. 312/2020 della Corte d’Appello di Lecce, sezione distaccata di Taranto, depositata il 16.10.2020;
udita la relazione svolta nella camera di consiglio del 31.1.2025 dal Consigliere NOME COGNOME
FATTI DI CAUSA
La Corte d’Appello di Lecce, sezione distaccata di Taranto, rigetta ndo l’opposizione della proprietaria e attuale ricorrente, ha considerato congrua (e anzi eccedente il valore venale complessivo) l’indennità determinata dall’Azienda Sanitaria Locale Taranto (ASL) per l’esproprio per pubblica utilità di m.q. 22.534 di terreni già coltivati a oliveto e a vigneto e destinati alla realizzazione di un ospedale. La Corte territoriale ha ritenuto corrette la qualificazione dei terreni come non edificabili e la conseguente loro valutazione secondo il criterio del valore agricolo di mercato.
Il ricorso per cassazione è articolato in tre motivi.
ASL Taranto si è difesa con controricorso.
La ricorrente ha altresì depositato memoria illustrativa nel termine di legge anteriore alla data fissata per la trattazione in camera di consiglio ai sensi dell’art. 380 -bis .1 c.p.c.
RAGIONI DELLA DECISIONE
Con il primo motivo di ricorso si denuncia «Violazione e falsa applicazione del d.P.R. n. 327 del 2001 artt. 32, 37, nonché della L.R. Puglia n. 3 del 22.7.2005 artt. 19, 20 in relazione all’art. 360 n. 3 c.p.c.».
La ricorrente osserva che i terreni espropriati ricadono in Zona B2.4, la quale, pur essendo destinata a interventi di edilizia sanitaria esclusivamente pubblica, rientra comunque nella Zona territoriale omogenea B. Invoca quindi l’applicazione dell’art. 19, comma 2, della Legge Regione Puglia n. 3 del 2005 («Disposizioni regionali in materia di espropriazioni per pubblica utilità e prima variazione al bilancio di previsione per l ‘ esercizio finanziario 2005»), secondo cui «Sono da considerarsi, comunque, sempre legalmente edificabili tutte le aree ricadenti
nel perimetro continuo delle zone omogenee di tipo A, B, C e D, secondo le definizioni di cui al D.M. 2 aprile 1968, … , comprese anche le aree a standard a esse riferite». L’ordinanza impugnata avrebbe quindi violato il chiaro disposto della legge regionale considerando i terreni espropriati come terreni non edificabili e confermando un’indennità di espropriazione parametrata al valore agricolo.
1.1. Il motivo è infondato, per la semplice ragione che l’art. 19, comma 2, della Legge Regione Puglia n. 3 del 2005 ha cessato di avere efficacia (art. 136 Cost.) per effetto della dichiarazione di incostituzionalità contenuta nella sentenza n. 120/2022 della Corte costituzionale, la quale ha osservato che «la disposizione non opera sul terreno della legislazione urbanistica, ma, nel distaccarsi da questa, interviene solo a fini indennitari sulla qualitas rei , recidendo ogni nesso con il valore di mercato dei relativi beni e alterando lo statuto della proprietà, così invadendo la competenza statale esclusiva in materia di ordinamento civile» (punto 6.2 della motivazione della sentenza della Corte costituzionale).
Il secondo motivo censura «Violazione e falsa applicazione della Legge 327/2001 artt. 9, 32, 37 e 30 nonché art. 28 e 29 NTA del Regolamento Edilizio del Comune di Taranto e L.R.P. n. 3/2005 artt. 18, 19, 20 L.R.P.».
La ricorrente sostiene che « L’edificabilità, intesa quale caratteristica che attribuisce al fondo da espropriare un valore particolare e più elevato rispetto a quello di un’area agricola, prescinde in generale dall’impossibilità giuridica di edificare » e che « Non è detto che un’area per la quale non sia possibile richiedere un permesso di costruire, debba necessariamente
essere considerata inedificabile ai fini dell’indennità di espropriazione». L’argomento è ulteriormente esplicitato con l’affermazione che «la presenza di un vincolo conformativo che escluda ab origine la possibilità assoluta di edificare comporta che il fondo gravato non possa essere qualificato come edificabile, ma ciò vale solo ai fini urbanistici … e … non significa che ai fini indennitari il fondo non possa essere qualificato edificatorio in quanto gode della possibile dimostrazione del suo valore legato alla sua intrinseca capacità di edificazione – c.d. edificabilità legale».
2.1. Anche questo motivo è infondato, perché riprende lo stesso concetto che era alla base della norma regionale sopra ricordata e che ha portato alla sua dichiarazione di illegittimità costituzionale.
La ricorrente ripropone la tesi dell’irrilevanza del vincolo conformativo nella valutazione, ai soli fini indennitari, della edificabilità del terreno espropriato. In altri termini si propone di valutare come se fosse edificabile un terreno che, in base a un vincolo conformativo (e, quindi, non espropriativo), non è edificabile da parte dei privati. Ma, in tal modo, si pretende una determinazione dell’indennità di esproprio che prescinde dal valore venale del bene, il quale dipende dalla qualitas rei delineata dai vincoli conformativi posti alla sua utilizzazione edificatoria (art. 32 d.P.R. n. 327 del 2001; v. Cass. nn. 7393/2023; 24744/2022; 207/2020). In una contrattazione tra privati il valore del bene è legato alla possibilità di sfruttamento del bene stesso da parte dei privati. Se un vincolo conformativo destina il bene a uno sfruttamento edilizio esclusivamente da parte degli enti pubblici, quel terreno è da considerare non
edificabile per i soggetti privati e, quindi, non edificabile ai fini della determinazione del suo valore venale.
La tesi di parte ricorrente -secondo cui « all’interno di ciascuna zona omogenea, tutte le aree partecipano in egual misura e con pari dignità al processo di trasformazione edilizia prevista dal piano regolatore, diventando ugualmente edificabili, nel senso indennitario» -si traduce nel tentativo di sostituire al criterio del valore venale del bene, determinato in base alla sua conformazione urbanistica, un alternativo criterio equitativo basato su una finzione, che non ha nulla a che vedere con il valore di mercato del bene. Ma, come osservato dalla Corte costituzionale, «Non è dato … compensare a posteriori, nella mera eventualità dell’espropriazione , gli effetti dell’apposizione su un fondo del vincolo conformativo, dotando quel terreno, che sul mercato non può spendere la qualità di bene edificabile, di tale fittizio valore» (sent. cit. punto 6.3).
In definitiva, la distinzione tra vincoli conformativi e vincoli espropriativi non può essere aggirata stabilendo l’irrilevanza dei primi ai fini della determinazione dell’indennità di espropriazione. La Corte territoriale si è correttamente attenuta a questo principio.
Il terzo motivo censura «Violazione e falsa applicazione del d.P.R. 327/2001 artt. 9, 32, 37, 30, 40, del Regolamento Urbanistico del Comune di Taranto art. 28 e 29 NTA in relazione all’art . 360 c.p.c. n. 3».
In via subordinata rispetto alla tesi che si tratti di terreni (da considerare come se fossero) edificabili, la ricorrente sostiene che la Corte territoriale sarebbe «incorsa nel
fondamentale errore di prendere in considerazione per la valutazione venale dei beni espropriati, il valore agricolo medio tratto dai VAM, così come indicato dalla ASL nei suoi atti di causa, senza considerare il valore venale pieno che agli stessi la ASL aveva riconosciuto nei propri atti amministrativi».
3.1. Il motivo è inammissibile, perché non coglie il decisum quale esso è esposto nell’ordinanza impugnata , ove si afferma che il valore dei terreni espropriati è stato «determinato secondo il valore agricolo di mercato» e non secondo il «valore agricolo medio (V.A.M.)», utilizzato invece per determinare l’indennizzo dovuto al fittavolo (molto inferiore al l’indennizzo liquidato alla proprietaria).
Il «valore agricolo di mercato» altro non è che il valore venale del terreno agricolo, la cui determinazione in concreto nella misura di € 5 al m.q. rientra nell’apprezzamento del fatto, riservato al giudice del merito (e che la Corte d’Appello ha dichiarato non essere stato contestato dalla ricorrente).
Rigettato il ricorso, per la regolazione delle spese del presente giudizio di legittimità sussistono valide ragioni per la mitigazione del principio della soccombenza, in considerazione del fatto che la sentenza della Corte costituzionale che ha vanificato le difese della ricorrente incentrate sulla legge della Regione Puglia n. 3 del 2005 è intervenuta solo in pendenza del giudizio di legittimità. Pertanto la condanna viene limitata alla metà delle spese -quota liquidata in dispositivo -con compensazione della restante metà.
Si dà atto che, in base all’esito del ricorso, sussistono i presupposti per il raddoppio del contributo unificato ai sensi dell’art. 13, comma 1 -quater , del d.P.R. n. 115 del 2002.
P.Q.M.
La Corte:
rigetta il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento di metà delle spese del giudizio di legittimità, quota che liquida in € 4.000 per compensi, oltre alle spese generali al 15%, a € 100 per esborsi e agli accessori di legge, dichiarando compensata la restante metà;
ai sensi dell’art. 13, comma 1 -quater , del d.P.R. n. 115 del 2002, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte della ricorrente , dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello per il ricorso a norma del comma 1 -bis , dello stesso articolo 13, se dovuto.
Così deciso in Roma, nella camera di consiglio del