Ordinanza di Cassazione Civile Sez. 1 Num. 21869 Anno 2025
Civile Ord. Sez. 1 Num. 21869 Anno 2025
Presidente: COGNOME NOME
Relatore: COGNOME
Data pubblicazione: 29/07/2025
ORDINANZA
sul ricorso R.G. n. 06884/2020
promosso da
Comune di Scarperia e San Piero , in persona del Sindaco pro tempore , rappresentat o e difeso dall’avv. NOME COGNOME elettivamente domiciliato in Roma, INDIRIZZO presso lo studio del dott. NOME COGNOME in virtù di procura speciale in atti;
– ricorrente –
contro
NOME COGNOME, NOME COGNOME, NOME COGNOME in qualità di eredi di NOME COGNOME, rappresentate e difese all’ avv. NOME COGNOME in virtù di procura speciale in atti;
– controricorrenti-
e
NOME COGNOME rappresentato e difeso dall’avv. prof. NOME COGNOME e dall’avv. prof. NOME COGNOME in virtù di procura speciale in atti;
– controricorrente –
nonché
NOME COGNOME , NOME COGNOME e RAGIONE_SOCIALE in persona del legale rappresentante pro tempore ;
– intimati –
avverso la sentenza n. 2959/2019 della Corte d’ appello di Firenze, pubblicata il 9 dicembre 2019, notificata il 13, il 14 e il 18 dicembre 2019;
udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del l’11/03/2025 dal Consigliere NOME COGNOME
letti gli atti del procedimento in epigrafe;
SVOLGIMENTO DEL PROCESSO
La Corte di appello di Firenze, pronunciando sulla domanda proposta da NOME, NOME, NOME e NOME COGNOME nei confronti del Comune di San Piero a Sieve -finalizzata ad ottenere la determinazione della giusta indennità di espropriazione, occupazione ed asservimento in riferimento ad alcuni lotti di terreno di loro proprietà, soggetti a procedimento ablativo nell’ambito della realizzazione del Piano degli Insediamenti Produttivi della zona Pianvallico -determinava in € 11.515.971,72 l’indennità di espropriazione, in € 126,90 l’indennità di asservimento di un’area di 423 mq ed in € 1.012,47 l’indennità per ogni anno di occupazione, ordinando il deposito delle somme, al netto di quanto già versato, presso la Cassa Depositi e Prestiti.
La Corte territoriale, prima di tutto, evidenziava che l’indennità doveva essere calcolata sulla base del valore di mercato dei fondi, non operando più i criteri riduttivi di cui all’art. 5 bis della 1. n. 359 del 1992 all’esito dell’intervento della Corte costituzionale.
Quanto al valore delle aree, la Corte recepiva le conclusioni del CTU (ing. NOME COGNOME, senza condividere le osservazioni del Comune, fondate sulla necessità di tener conto delle complessive limitazioni legali in tema di edificabilità, affermando che il valore venale si commisura alle potenzialità di un terreno, e non alle future costruzioni.
Analoghi rilievi svolgeva in merito alle dedotte violazioni della c.d. legge COGNOME, osservando che il CTU aveva correttamente identificato
il rapporto di copertura, stabilendo che a parcheggi privati poteva essere destinata la metà della superficie ablata con destinazione a zona produttiva, i tre quarti di quella a destinazione turistico ricettiva e i 18/23 di quella a destinazione sportivo ricreativa.
Quanto alle spese di urbanizzazione, la Corte d’appello confermava il criterio adottato dal CTU, fondato sulle spese documentate dalla società RAGIONE_SOCIALE, che le aveva sostenute.
Tale decisione veniva impugnata per cassazione da quest’ultima società, con cinque motivi di doglianza, nonché dal Comune di San Piero a Sieve, con dieci motivi di impugnazione, illustrati da memoria, nella quale si dava atto della successione all’originario ente locale del Comune di Scarperia e San Piero. Gli intimati si difendevano con controricorso.
Questa Corte, con sentenza n. 9776 del 20/05/2015, dichiarava inammissibile il ricorso per cassazione della società e accoglieva il nono e il decimo motivo di ricorso per cassazione del Comune, respingendo tutte le altre censure.
Nella sentenza appena menzionata, si legge quanto segue: «8- Il nono motivo, con il quale si sostiene che, in violazione della L. n. 2359 del 1865, art. 39, del D.M. n. 1444 del 1968, art. 5, della L. n. 1150 del 1942, art. 41 sexies, della L.R. Toscana n. 28 del 1999, sarebbero stati trascurati i vincoli derivanti da dette norme ai fini dello sfruttamento della capacità edificatoria del piano per gli investimenti produttivi, è fondato. Com’è noto, la determinazione del valore di un terreno mediante il c.d. metodo analitico ricostruttivo si fonda sulle concrete possibilità di realizzare, attraverso la realizzazione dei volumi consentiti, determinate costruzioni. Il relativo calcolo, che si fonda sulla natura edificabile impressa ai terreni dalla variante che approva il piano (c.d. PIP, ma analoghe considerazioni valgano, mutatis mutandis, anche per il c.d. PEEP), non può prescindere, nell’ambito di una valutazione -indipendentemente dalle specifiche destinazioni –
complessiva della potenzialità edificatoria dell’intera area, corrispondente ad evidenti esigenze di omogeneizzazione (Cass., 3 giugno 2004, n. 10555; Cass., 6 settembre 2006, n. 19128), dalle limitazioni di natura urbanistica imposte dallo stesso piano e dalla normativa di riferimento. L’affermazione della sentenza impugnata, a fronte delle specifiche deduzioni del Comune relative agli standards previsti per l’attuazione del piano, secondo cui “il valore venale si commisura alle potenzialità di un terreno e non alle future costruzioni, delle quali non è possibile stabilire in anticipo le volumetrie”, si colloca su un versante antitetico alle previsioni normative e all’orientamento di questa Corte. Sotto tale profilo vale bene ribadire che le aree comprese dal piano regolatore generale nell’ambito di un piano per gli insediamenti produttivi (PIP) assumono carattere edificatorio e subiscono la conformazione propria del piano stesso, onde, nella determinazione del loro valore (nella fattispecie eseguita mediante applicazione del metodo analitico-ricostruttivo), come non si può tenere conto, ai fini della liquidazione dell’indennità di espropriazione, dell’incidenza negativa esercitata sul valore dell’area dal vincolo specifico di destinazione preordinato all’esproprio, così sono invece suscettibili di considerazione i vincoli di conformazione appunto stabiliti, indipendentemente dall’espropriazione, in virtù della preesistente destinazione urbanistica legale e deve, perciò, in particolare, essere fatto riferimento agli “standards” del piano anzidetto, come, ad esempio, agli indici di fabbricabilità previsti da quest’ultimo (Cass., 24 marzo 2004, n. 5874; Cass, Sez. un., 21 marzo 2001, n. 125). Del resto, appare di intuitiva evidenza che, ove si prescinda, come nella specie, da spazi non edificabili in quanto, poiché, ad esempio, riservati a parcheggio, interessati da vincoli, può verificarsi un’indebita dilatazione dei volumi realizzabili, con il risultato di falsare la valutazione derivante dall’applicazione del metodo analitico ricostruttivo, con ovvie ricadute negative sulla determinazione della
giusta indennità. 9- Del pari fondata è l’ultima censura, con la quale, denunciandosi violazione della L. n. 1359 del 1865, artt. 39 e 42 e del D.P.R. n. 327 del 2001, art. 37, si sostiene che erroneamente sarebbe stata detratta soltanto una parte dei costi di urbanizzazione, così accrescendosi illegittimamente il valore dell’area. In proposito deve rilevarsi che il ricorrente, nel rispetto del principio di autosufficienza del ricorso, ha trascritto le critiche svolte all’operato del consulente tecnico d’ufficio, nella parte in cui riconosceva, ai fini della detrazione dei costi di urbanizzazione, soltanto quelli risultanti dall’esame della documentazione della società RAGIONE_SOCIALE, che li aveva sostenuti. Tale valutazione non si sottrae alle critiche mosse dal ricorrente, dovendosi applicare il principio secondo cui, quando si procede alla stima in base al metodo analitico ricostruttivo, occorre considerare il costo complessivo degli oneri di urbanizzazione. Di recente questa Corte ha affermato che “ai fini della determinazione del valore venale di un immobile, gli oneri di urbanizzazione sono stabiliti dalla normativa urbanistica, e la loro incidenza sul prezzo degli immobili in regime di libero mercato non necessita di dimostrazione, dovendo il giudice di merito tenerne conto anche di ufficio” (Cass., 4 luglio 2013, n. 16750).»
Il giudizio veniva riassunto da NOME COGNOME e NOME COGNOME ed anche da NOME COGNOME con distinti ricorsi che davano avvio a due procedimenti separati, poi riuniti, nel corso dei quali, intervenuto il decesso di NOME COGNOME si costituivano le eredi di quest’ultimo
L a Corte d’appello , quale giudice del rinvio, nella contumacia della società Piancavallo, disponeva una nuova CTU (espletata dall’ ing. NOME COGNOME, che veniva integrata per rispondere alla richiesta di chiarimenti del Comune, il quale formulava una nuova richiesta di chiarimenti all’esito delle integr azioni, che non veniva accolta.
La Corte d’appello statuiva come segue: «1) Determina l’indennità di espropriazione relativa ai terreni oggetto di causa nell’importo di
euro 10.520.977, 92, da maggiorarsi degli interessi legali dalla data del decreto di esproprio; 2) Ordina al COMUNE DI RAGIONE_SOCIALE COGNOME (già Camune di San Piero a Sieve) il deposito delle predette somme, detratti gli importi eventualmente già depositati in precedenza con identità di causale, presso …. 3) Condanna il COMUNE DI COGNOME RAGIONE_SOCIALE COGNOME (già Comune di San Piero a Sieve) al rimborso delle spese processuali che liquida …. 4) pone le spese di CTU definitivamente a carico del Comune soccombente» .
Avverso tale sentenza il Comune ha proposto ricorso per cassazione, affidato a cinque motivi di censura.
Solo gli intimati NOME COGNOME, NOME COGNOME, NOME COGNOME in qualità di eredi di NOME COGNOME e NOME COGNOME si sono difesi con controricorso.
Il ricorrente e il controricorrente NOME COGNOME hanno depositato memorie difensive.
MOTIVI DELLA DECISIONE
Con il primo motivo di ricorso i di ricorso è prospettata la questione di legittimità costituzionale degli artt. 62, comma 1, 65, commi 1 e 4, 66, 67, commi 1 e 2, 68, comma 1, 72, comma 1, d.l. n. 69 del 2013, conv. in l. n. 98 del 2013, in relazione agli artt. 102, comma 1, e 106, commi 1 e 2, Cost., con istanza di sospensione del giudizio ex art. 23 l. n. 87 del 1953, sino alla pronuncia della Corte costituzionale su tale questione già sollevata. È comunque dedotta la nullità della sentenza ex art. 158 c.p.c. in relazione all’art. 161 c.p.c. , ai sensi de ll’art. 360, comma 1, n. 4, c.p.c.
Il ricorrente ha rilevato che la sentenza impugnata è stata pronunciata da un Collegio di Corte d ‘a ppello di cui faceva parte, come Consigliere relatore, la dott.ssa NOME COGNOME Giudice ausiliario di Corte d’ appello. Tenuto, pertanto, conto della pendenza dinanzi alla Corte costituzionale della questione di legittimità costituzionale della normativa istitutiva e regolatrice della figura del Giudice ausiliario di
Corte d’ appello, in relazione agli artt. 102, comma 1 e 106, commi 1 e 2, Cost., sollevata dalla questa stessa Corte di cassazione (Cass., Sez. 3, Ordinanze interlocutorie n. 32032 e n. 32033 del 09/12/2019), il Comune ha chiesto, in via preliminare, che il presente giudizio venisse sospeso in attesa della decisione della Corte costituzionale, in quanto la declaratoria di incostituzionalità della normativa avrebbe comportato la nullità della sentenza per violazione dell’art. 158 e 161 c.p.c. in relazione all’art. 360, comma 1 n. 4 c.p.c.
In ogni caso, lo stesso Comune ha, comunque, chiesto che anche in questo procedimento venisse sollevata la stessa questione di legittimità costituzionale degli artt. 62, comma 1, 65, commi 1, e 4, 66, 67, commi 1 e 2, 68, comma 1, 72, comma 1, d.l. n. 69 del 2013, conv. in l. n. 98 del 2013, in relazione agli artt. 102, comma 1, e 106, commi 1 e 2, Cost., con sospensione del giudizio ex art. 23 l. n. 87 del 1953.
Con il secondo motivo di ricorso è dedotta la violazione e/o falsa applicazione dell’art. 62 , comma 2, d.l. n. 69 del 2013, conv. in l. n. 98 del 2013, in relazione all’art. 360, comma 1, n. 3, c.p.c., con conseguente nullità della sentenza ex art. 158 c.p.c. in relazione all’art. 161 c.p.c., ai sensi dell’art. 360, comma 1, n. 4, c.p.c.
Il ricorrente ha ribadito che la sentenza impugnata è stata pronunciata da un Collegio di cui faceva parte, in qualità di Consigliere relatore, un Giudice a usiliario di Corte d’ appello, la dott.ssa NOME COGNOME Ciò in asserita violazione dell’art. 62, comma 2 del D.L. n. 69/2013, convertito in l. n. 68/2013, che esclude dalla competenza dei Giudici Ausiliari di Corte d’Appello i procedimenti trattati dalla Corte di Appello in unico grado, cui ha ricondotto quello che ci occupa.
Con il terzo motivo di ricorso è dedotta la violazione e/o falsa applicazione degli artt. 39 e 42 l. n. 1359 del 1865 e dell’art. 37 d.P.R. n. 327 del 2001, in relazione all’art. 360, comma 1 , n. 3, c.p.c., nonché la violazione e/o falsa applicazione degli artt. 383 e 384, comma 2,
c.p.c. e del dictum della sentenza della statuizione della Corte di cassazione (Cass., Sez. 1, Sentenza n. 9776 del 13/05/2015), in relazione all’art. 360 , comma 1, n. 3 c.p.c., nonché la violazione e/o falsa applicazione dell’art. 132 , comma 2, n. 4, c.p.c., in riferimento all’art. 360, comma 1 , nn. 3 e 4 c.p.c. per vizio di motivazione.
Secondo il ricorrente, l a Corte d’ appello ha errato nel ritenere legittima, e nel fare propria, la quantificazione delle spese per le opere di urbanizzazione da scomputare ai fini della stima dei terreni espropriati, operata dal CTU da ultimo nominato, il quale aveva considerato esclusivamente le tabelle comunali per la determinazione degli oneri di urbanizzazione, inerenti edifici da costruire in zone già urbanizzate.
La parte ha ricordato che nella prima sentenza della Corte d’appello l’effettivo importo delle spese per le opere di urbanizzazione non era stato determinato in € 3.254.892,15, pari alle spese documentate a tal fine dalla società RAGIONE_SOCIALE perché da tale importo era stato decurtato il costo teorico dell ‘urbanizzazione dell’area, determinato virtualmente applicando le tabelle degli oneri di urbanizzazione all’epoca vigenti nel Comune, così arrivando all’imp orto, quali maggiori spese di urbanizzazione, di € 1.692.662,80 oltre interessi.
La stessa parte ha aggiunto che la Corte di cassazione aveva annullato tale statuizione, affermando che dovesse essere considerato il costo complessivo delle spese di urbanizzazione (e non solo le maggiori spese di urbanizzazione), accogliendo il corrispondente motivo di ricorso, in cui si lamentava l’indebita decurtazione di alcuni costi di urbanizzazione, così accrescendosi illegittimamente il valore dell’area .
Pertanto, la Corte d’appello , con la sentenza in questa sede impugnata, sempre ad opinione del ricorrente, ha violato il dictum della Corte, perché ha applicato , per calcolare l’incidenza sul val ore dei beni delle opere di urbanizzazione, non le spese effettivamente sostenute,
e documentate, ma quelle teoriche derivanti dalla tabella comunale sopra menzionata che attengono agli oneri di urbanizzazione applicabili in caso di aree già urbanizzate.
Ad opinione del Comune, infatti, la Corte d’appello avrebbe dovuto tenere conto che si trattava di aree assolutamente non urbanizzate, ricomprese in zone di espansione, che necessitavano di un piano particolareggiato attuativo di quello generale (appunto un PIP), ove le opere di urbanizzazione dovevano essere specificate in un progetto approvato da Comune e regolamentate in un’apposita convenzione urbanistica, da eseguirsi preventivamente rispetto all’insediamento degli opifici, e perciò la spesa era necessariamente correlata, perché equivalente, allo specifico costo delle opere.
In ogni caso, secondo il ricorrente la decisione è irrimediabilmente contraddittoria nella parte in cui ha affermato che dovevano essere conteggiati tutti i costi di urbanizzazione e, poi, nell’effettuare la relativa valutazione, ha proceduto a considerare solo gli oneri di urbanizzazione tabellari, senza riconoscere le spese effettivamente sostenute dall’Amministrazione per la realizzazione d i dette opere di urbanizzazione, così non coprendo tutte le spese sostenute a tal fine.
Con il quarto motivo di ricorso è dedotta la violazione e/o falsa applicazione dell’art. 39 l. n. 1359 del 1865 e dell’art. 37 d.P.R. n. 327 del 2001, dell’art. 5 del D.M. n. 1444 del 1968 e della L.R.T. n. 28 del 1999 in relazione all’art 42 della Costituzione , oltre alla violazione e/o falsa applicazione degli artt. 383 e 384, comma 2, c.p.c. e del dictum della sentenza della Corte di cassazione, Sez. 1, n. 9776 del 13/05/2015 , in relazione all’art. 360 comma 1 n. 3 c.p.c.
In primo luogo, secondo il Comune, la Corte d’ appello ha errato nel ritenere congrua l’indennità di espropriazione così come individuata dal CTU, e ciò sulla base di una erronea interpretazione degli artt. 39 l. n. 1359 del 1865 e 37 d.P.R. n. 327 del 2001, oltre che del dictum della Corte di Cassazione e del concetto di ‘valore venale del terreno’.
In particolare, il ricorrente ha dedotto che, pur avendo ripreso gli standards urbanistici del PIP, come prescritto dalla Corte di cassazione, il CTU, con una valutazione recepita dal giudice di merito, ha, poi, raddoppiato la superficie utile lorda degli insediamenti industriali, ipotizzando astrattamente e in modo del tutto slegato dall’effettiva commerciabilità e, dunque, dall’effettivo valore venale dei terreni, la realizzazione di capannoni industriali a due piani fuori terra, di altezza inferiore a 4 metri ciascuno (concretamente metri 3,75, considerando 50 cm per la realizzazione del solaio), così ipotizzando, in modo del tutto irrealistico, una configurazione di strutture destinate a produttivo per 60,025 mq, con una superficie coperta di 30.012 mq.
Ad opinione del ricorrente, l’erroneità e l’illegittimità della soluzione era tanto più evidente se solo si guardavano i capannoni così come erano stati effettivamente edificati, ove la maggior parte di essi era monovolume e solo 2 erano sviluppati su due piani, aggiungendo che, se si guardavano anche le zone vicine a quelle interessate dall’intervento , la percentuale complessiva dei capannoni a due piani era ancora più bassa, evidenziando che gli standards urbanistici prevedevano esclusivamente la possibilità di realizzare edifici industriali sino a complessivi 8 m di altezza, senza imporre la realizzazione edifici di due piani.
In secondo luogo, il ricorrente ha dedotto che il Giudice d’appello ha condiviso le conclusioni del CTU in ordine al valore dei terreni espropriati, ritenute immuni da vizi logici e basate su un accertamento completo ed esaustivo, mentre, invece, il CTU aveva omesso di tenere in considerazione gli elementi di raffronto indicati dal Comune (contratti di vendita di terreni del PIP, precisamente indicati ed individuati dal Comune nelle controdeduzioni e facilmente reperibili da parte del CTU presso l’archivio notarile e/o la Conservatoriale dei registri Immobiliari) anche con riferimento ai terreni limitrofi, compresi nel PIP di NOME COGNOME, limitandosi ad affermare che le informazioni
assunte presso non meglio identificate agenzie immobiliari, professionisti esterni nel settore estimativo e società specializzate avevano dato positivo riscontro alla stima effettuata da CTU nominato nel primo giudizio, condivisa anche dal CTU da ultimo nominato.
Il Comune ha, in particolare, rilevato che il Giudice ha sempre l’obbligo di indicare le fonti dei dati utilizzati per la stima e non può limitarsi a richiamare genericamente le informazioni assunte.
Ad opinione del Comune, inoltre, il Giudice ha errato anche nel ritenere immune da vizi logici, e basata su un accertamento completo ed esaustivo, la valutazione compiuta dal CTU, nella parte in cui ha ritenuto irrilevante qualsivoglia elemento di valutazione, che consentisse di individuare la corretta applicazione dell’indice di fabbricabilità previsto dal piano, tenuto conto della situazione dell’area industriale oggetto di giudizio, a partire dalla documentazione fotografica, dagli atti di compravendita delle aree del PIP, indicati in modo preciso e, quindi, acquisibili d’ufficio , cui andavano aggiunti gli atti di compravendita relativi a immobili presenti nel limitrofo PIP relativo a Petrona La Torre, area considerata dall’OMI omogenea a quella di Pianvallico.
Con il quinto motivo di ricorso è dedotta la violazione o falsa applicazione art. 91 c.p.c., in relazione all’art. 360, comma 1, n. 3, c.p.c. , per avere la Corte d’appello condannato il Comune di Scarperia e San Piero al rimborso delle spese processuali, senza che vi fosse alcuna soccombenza, posto che il suo primo ricorso ex art. 360 c.p.c. era stato accolto, con riferimento al nono e decimo motivo di doglianza, e la prima sentenza della Corte di appello di Firenze era stata cassata, tant’è che, in conseguenza di ciò, la misura dell’indennità di espropriazione nella sentenza qui impugnata, è stata determinata in circa un milione di euro in meno (€ 10.520.977,92) rispetto a quella determinata nella prima decisione della Corte d’appello ( € 11.515.971,72).
2. Il primo motivo di ricorso è infondato.
Com’è noto, sulla questione di legittimità costituzionale illustrata nel motivo si è già pronunciata la Corte costituzionale con la sentenza n. 41/2021, dichiarando l’illegittimità costituzionale degli artt. 62, 63, 64, 65, 66, 67, 68, 69, 70, 71 e 72 d.l. n. 60 del 2013, conv. con modif. in l. n. 98 del 2013, nella parte in cui non hanno previsto la loro applicazione fino al completamento del riordino del ruolo e delle funzioni della magistratura onoraria, nei tempi stabiliti dall’art. 32 d.lgs. n. 116 del 2017 (Corte cost., Sentenza n. 41 del 17/03/2021).
A fondamento della decisione, la menzionata Corte costituzionale ha affermato che l’articolo 106 Cost. – secondo cui è possibile la nomina di magistrati onorari ‘per tutte le funzioni attribuite a giudici singoli’ -permette solo eccezionalmente e temporaneamente che, in via di supplenza, i giudici onorari possano svolgere funzioni collegiali di primo grado. La nomina dei giudici onorari è consentita, quindi, solo nei tribunali, e non nelle c orti (d’appello o di cassazione) , con la conseguenza che l’istituzione dei giudici onorari ausiliari, destinati, in base alla legge, a svolgere stabilmente e soltanto funzioni collegiali presso le Corti d’appello, nelle controversie civili, deve ritenersi in aperto contrasto con l’articolo 106 Cost.
Nel dichiarare l’illegittimità costituzionale delle norme indicate, la Corte costituzionale ha, però, ritenuto necessario lasciare al legislatore un sufficiente lasso di tempo per assicurare la necessaria gradualità nella completa attuazione della normativa costituzionale.
È stato così indicato il termine previsto dall’articolo 32, primo periodo, d.lgs. n. 116 del 2017, di riforma generale della magistratura onoraria, ossia quello del 31 ottobre 2025. Fino ad allora, è stata affermata la ‘ temporanea tollerabilità costituzionale’ dell’attuale assetto, al fine di evitare l’annullamento delle decisioni pronunciate con la partecipazione dei giudici ausiliari e di non privare immediatamente
le Corti d’appello dell’apporto di questi giudici onorari per la riduzione dell’arretrato nelle cause civili.
Deve pertanto escludersi il vizio della sentenza impugnata, prospettato dal ricorrente con il primo motivo di ricorso, come pure l’ammissibilità della questione di costituzionalità , già proposta, esaminata ed accolta dalla Corte costituzionale, sia pure nei termini appena illustrati.
Va, infatti, confermato il principio affermato anche da questa Corte, secondo cui, in seguito alla citata sentenza n. 41/2021 della Corte costituzionale -che ha dichiarato l’illegittimità costituzionale di quelle disposizioni, contenute nel d.l. n. 69 del 2013 (conv. con modif. nella l. n. 98 del 2013), che conferiscono al giudice ausiliario di appello la qualità di componente dei collegi nelle sezioni delle Corti di appello -le menzionate Corte d’appello hanno potuto legittimamente continuare ad avvalersi dei giudici ausiliari, fino alla riforma complessiva della magistratura onoraria, da portare a termine entro il 31/10/2025 (Cass., Sez. 2, n. 4874 del 25/02/2025).
La sentenza in questa sede impugnata, pubblicata il 09/12/2019, non può, pertanto, ritenersi viziata a causa della partecipazione alla decisione di un Giudice ausiliario, non essendo all’epoca completata la menzionata riforma né decorso il termine appena indicato.
3. Anche il secondo motivo di ricorso è infondato.
La sentenza in questa sede impugnata è stata assunta nel giudizio di rinvio a seguito della decisione del giudice di legittimità, successiva alla pronuncia di annullamento adottata da questa Corte di cassazione nei confronti di una sentenza pronunciata in unico grado dalla Corte d’appello.
Si tratta di un giudizio rescissorio, che segue quello operato dalla Corte di cassazione, avviato per il compimento degli accertamenti in fatto che il giudice di legittimità non può compiere, conseguenti all’annullamento della pronuncia di merito già assunta, e impugnata
per cassazione, tant’è che, o ve tali accertamenti in fatto non siano necessari, la Corte di legittimità può cassare la decisione impugnata e decidere direttamente nel merito la vertenza, senza alcun rinvio.
S ebbene l’art. 394 c.p.c. stabilisca, in via generale, che nel procedimento di rinvio si osservano le norme stabilite per il procedimento davanti al Giudice al quale la Corte ha rinviato la causa, tuttavia, la stessa disposizione reca norme peculiari, specificando in particolare che le parti, le quali conservano la stessa posizione processuale che avevano nel procedimento in cui fu pronunciata la sentenza cassata, non possono prendere conclusioni diverse da quelle prese nel giudizio nel quale fu pronunciata la sentenza cassata, salvo che la necessità delle nuove conclusioni sorga dalla sentenza della cassazione.
Tali speciali caratteristiche hanno portato gli interpreti a definire il giudizio di rinvio come un giudizio chiuso (Cass., Sez. 2, Ordinanza n. 29879 del 27/10/2023).
La statuizione del giudice di legittimità delimita, infatti, l ‘ oggetto del giudizio in questione e, in caso di violazione di legge, indica anche il principio di diritto da applicare alla fattispecie.
Nel giudizio di rinvio, dunque, viene meno la ratio che presiede al divieto di assegnazione del giudice ausiliario al procedimento di unico grado, e cioè la mancanza di una sentenza già adottata prima che la Corte di appello decida sulla vertenza, poiché tale giudizio costituisce la fase rescissoria del giudizio di impugnazione per cassazione, che presuppone, anzi, l’adozione di un a precedente statuizione a definizione di un precedente giudizio di merito.
Il terzo motivo di ricorso è fondato nella parte in cui lamenta il vizio di motivazione , con assorbimento dell’ulteriore profilo di doglianza.
4.1. In virtù delle disposizioni vigenti non è più consentita l’impugnazione ai sensi dell’art. 360, comma 1, n. 5, c.p.c. «per
omessa insufficiente o contraddittoria motivazione circa un fatto controverso e decisivo per il giudizio» , ma soltanto «per omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti» .
Le Sezioni Unite di questa Corte hanno affermato che la richiamata modifica normativa ha avuto l’effetto di limitare il vizio di motivazione, quale oggetto del sindacato di legittimità, alle fattispecie nelle quali esso si converte in violazione di legge (Cass., Sez. U, Sentenza n. 8053 del 07/04/2014).
In particolare, la riformulazione appena richiamata deve essere interpretata alla luce dei canoni ermeneutici dettati dall’art. 12 prel., come riduzione al “minimo costituzionale” del sindacato di legittimità sulla motivazione. Pertanto, è divenuta denunciabile in cassazione solo l’anomalia motivazionale che si tramuti in violazione di legge costituzionalmente rilevante, in quanto attinente all’esistenza della motivazione in sé, purché il vizio risulti dal testo della sentenza impugnata, a prescindere dal confronto con le risultanze processuali (Cass., Sez. U, Sentenza n. 8053 del 07/04/2014).
In altre parole, a seguito della riforma del 2012 è scomparso il controllo sulla motivazione con riferimento al parametro della sufficienza, ma resta il controllo sull’esistenza (sotto il profilo dell’assoluta omissione o della mera apparenza) e sulla coerenza (sotto il profilo della irriducibile contraddittorietà e dell’illogicità manifesta) della stessa, ossia il controllo riferito a quei parametri che determinano la conversione del vizio di motivazione in vizio di violazione di legge, sempre che emerga immediatamente e direttamente dal testo della sentenza impugnata (v. ancora Cass., Sez. U, Sentenza n. 8053 del 07/04/2014 e, da ultimo, Cass., Sez. 1, n. 13248 del 30/06/2020).
A tali principi si è uniformata negli anni successivi la giurisprudenza di legittimità, la quale ha più volte precisato che la violazione di legge, come sopra indicata, ove riconducibile alla violazione degli artt. 111
Cost. e 132, comma 2, n. 4, c.p.c., determina la nullità della sentenza ai sensi dell’art. 360, comma 1, n. 4, c.p.c. (così Cass., Sez. U, Sentenza n. 22232 del 03/11/2016; conf. Cass. Sez. 6-3, Ordinanza n. 22598 del 25/09/2018; Cass., Sez. L, Sentenza n. 27112 del 25/10/2018; Cass., Sez. 6-L, Ordinanza n. 16611 del 25/06/2018; Cass., Sez. 3, Sentenza n. 23940 del 12/10/2017).
Questa Corte ha, in particolare, affermato che il vizio di motivazione previsto dall’art. 132, comma 2, n. 4, c.p.c. e dall’art. 111 Cost. sussiste quando la pronuncia riveli una obiettiva carenza nella indicazione del criterio logico che ha condotto il giudice alla formazione del proprio convincimento, come accade quando non vi sia alcuna esplicitazione sul quadro probatorio, né alcuna disamina logicogiuridica che lasci trasparire il percorso argomentativo seguito (Cass., Sez. L, Ordinanza n. 3819 del 14/02/2020).
Ricorre, dunque, il vizio in questione, quando la decisione, benché graficamente esistente, non rende percepibile il fondamento della decisione, perché reca argomentazioni obiettivamente inidonee a far conoscere il ragionamento seguito dal giudice per la formazione del proprio convincimento, non potendosi lasciare all’interprete il compito di integrarla con le più varie, ipotetiche, congetture (Cass., Sez. 6-1, Ordinanza n. 6758 del 01/03/2022; Cass., Sez. 1, Ordinanza n. 13248 del 30/06/2020).
Tale evenienza si verifica non solo nel caso in cui la motivazione sia meramente assertiva, ma anche qualora sussista un contrasto irriducibile tra affermazioni inconciliabili, perché non è comunque percepibile l’iter logico seguito per la formazione del convincimento e, di conseguenza, non è possibile effettuare alcun effettivo controllo sull’esattezza e sulla logicità del ragionamento del giudice (Cass., Sez. L, Ordinanza n. 12096 del 17/05/2018; Cass., Sez. 6-L, Ordinanza n. 16611 del 25/06/2018).
Alle stesse conseguenze è assoggettata una motivazione perplessa ed obiettivamente incomprensibile, poiché anche in questo caso non è possibile comprendere il ragionamento seguito dal giudice e, conseguentemente, effettuare un controllo sulla correttezza dello stesso (cfr. Cass., Sez. 1, Ordinanza n. 7090 del 03/03/2022).
Ovviamente il controllo della motivazione del giudice di merito, nei limiti sopra indicati, non equivale alla revisione del ragionamento decisorio, ossia dell’opzione che ha condotto tale giudice ad una determinata soluzione della questione esaminata, posto che ciò si tradurrebbe, pur a fronte di un possibile diverso inquadramento degli elementi probatori valutati, in una nuova formulazione del giudizio di fatto (Cass., Sez. 1, Sentenza n. 16526 del 05/08/2016).
4.2. Nel caso di specie, la Corte di cassazione che ha cassato con rinvio la prima pronuncia, stabilendo che si deve « applicare il principio secondo cui, quando si procede alla stima in base al metodo analitico ricostruttivo, occorre considerare il costo complessivo degli oneri di urbanizzazione» , aggiungendo che «Di recente questa Corte ha affermato che “ai fini della determinazione del valore venale di un immobile, gli oneri di urbanizzazione sono stabiliti dalla normativa urbanistica, e la loro incidenza sul prezzo degli immobili in regime di libero mercato non necessita di dimostrazione, dovendo il giudice di merito tenerne conto anche di ufficio” (Cass., 4 luglio 2013, n. 16750)».
La Corte di legittimità ha, dunque, precisato che occorre tenere conto dei costi di urbanizzazione ai fini della determinazione del valore dei beni espropriati, quando la stima è fatta in base al criterio analitico ricostruttivo, spiegando le ragioni (gli oneri di urbanizzazione sono previsti dalla legge), ma non ha indicato quale il criterio utilizzare per la quantificazione.
La Corte d’appello , in proposito, ha rilevato, a p. 20, che «Il CTU, infatti, procedeva alla stima del valore dei terreni comparando
l’incidenza della variante di piano e dei suoi standar ds, con i pertinenti indici di fabbricabilità e, nel contempo, deduceva dal relativo ammontare tutti i costi di urbanizzazione, non solo quelli scaturenti dalla documentazione della RAGIONE_SOCIALE s.p.a. (come invece aveva fatto il consulente d’ufficio ne l giudizio di prima istanza)».
La menzionata Corte non ha spiegato come è arriva alla quantificazione dei costi di urbanizzazione e, alle osservazioni in ordine alla ritenuta erronea quantificazione dei costi di urbanizzazione sulla base delle sole tabelle comunali, la Corte ha riposto semplicemente riportando quanto scritto nella CTU, ove si legge che «…la base di calcolo degli oneri di urbanizzazione (così come quella degli indici di fabbricabilità) è stata ottenuta dallo scrivente a seguito di formale richiesta di accesso agli atti dello stesso Comune di Scarperia e San Pietro che oggi, per il tramite del proprio CT di parte, la contesta (vedasi allegato C).»
La motivazione è solo apparente, perché la Corte di merito non ha spiegato quale fosse la base di calcolo utilizzata per determinare gli oneri di urbanizzazione.
Il quarto motivo di ricorso è solo in parte fondato.
5.1. Deve ritenersi inammissibile la doglianza nella parte in cui è censurata la valutazione dell’edificabilità dei capannoni industriali suscettibili di realizzazione nell’area compresa nel PIP mediante la realizzazione di costruzioni a due piani, tenuto conto che la stessa parte non ha dedotto che tale realizzazione non era consentita, ma ha semplicemente non condiviso la scelta adottata di considerare la massima edificabilità, la cui fattibilità secondo la conformazione dell’area non è messa in discussio ne.
Si tratta in sintesi di una censura che attiene al merito della decisione, non recando l’illustrazione della doglianza la deduzione di alcuna violazione di legge, ma solo una non condivisione della soluzione assunta.
5.2. La censura riferita alla statuizione con la quale il Giudice di appello ha ritenuto di poter condividere la stima del valore dei beni espropriati, è invece prospettata quale violazione, o comunque distorsione, dei criteri di corretta quantificazione del valore venale del terreno e conseguentemente quale violazione del dictum della Corte di Cassazione e della normativa che presidia tale valutazione.
Sebbene la censura sia espressa all’interno dello stesso motivo di ricorso con cui è dedotta la violazione o falsa applicazione di norme riguardanti la stima dei beni espropriati, è evidente che la doglianza in esame attiene, e con chiarezza, alla motivazione della decisione.
5.2.1. Richiamato, in via generale, l’orientamento della giurisprudenza di legittimità sul vizio di motivazione della sentenza, occorre ricordare che, con specifico riferimento all’attività del consulente tecnico, le cui risultanze sia recepite dal Giudice, questa Corte ha più volte precisato che il CTU ha il potere di attingere aliunde notizie e dati non rilevabili dagli atti processuali quando ciò sia indispensabile per espletare convenientemente il compito affidatogli, sempre che non si tratti di fatti costituenti materia di onere di allegazione e di prova delle parti, aggiungendo che dette indagini possono concorrere alla formazione del convincimento del giudice, a condizione che ne siano indicate le fonti, in modo che le parti siano messe in grado di effettuarne il controllo, a tutela del principio del contraddittorio (Cass., Sez. 2, Sentenza n. 2671 del 05/02/2020; Cass., Sez. 1, Sentenza n. 1901 del 28/01/2010; Cass., Sez. 2, Sentenza n. 13428 del 08/06/2007).
Nel caso di specie, tuttavia, il Giudice di merito ha fatto riferimento a fonti informative consultate dal CTU, ma non ha specificato quali fossero, né il contenuto delle informazioni ricevute, rendendo non verificabile la valutazione di correttezza della stima operata, a conferma di quella del primo CTU, in forza di elementi di valutazione non determinati.
5.3. L’accoglimento del profilo di censura appena esaminato rende superfluo l’esame degli altri, coinvolgenti sempre la motivazione, da ritenersi pertanto assorbiti.
L’accoglimento del terzo motivo e di parte del quarto motivo di ricorso determina la cassazione della sentenza impugnata con rinvio, rendendo superfluo l’esame del quinto motivo di ricorso, da ritenersi pertanto assorbito.
In conclusione, deve essere accolto il terzo motivo e in parte il quarto motivo di ricorso e, respinti il primo e il secondo, assorbito il quinto, la sentenza deve essere cassata con rinvio alla Corte d’appello di Firenze, chiamata a statuire anche sulle spese del giudizio di legittimità.
P.Q.M.
La Corte
accoglie il terzo e parzialmente il quarto motivo di ricorso e, respinti il primo e il secondo, assorbito il quinto, cassa la sentenza impugnata con rinvio alla Corte d’appello di Firenze, chiamata a statuire anche sulle spese del giudizio di legittimità.
Così deciso in Roma, nella camera di consiglio della Prima Sezione civile