Ordinanza di Cassazione Civile Sez. 1 Num. 23230 Anno 2025
Civile Ord. Sez. 1 Num. 23230 Anno 2025
Presidente: COGNOME
Relatore: COGNOME
Data pubblicazione: 13/08/2025
ORDINANZA
sul ricorso n. 19765/2020 r.g. proposto da:
RAGIONE_SOCIALE in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentata e difesa, giusta procura speciale in calce al ricorso dall’Avv. NOME COGNOME il quale dichiara di voler ricevere le notifiche e le comunicazioni relative al presente procedimento all’indirizzo di posta elettronica certificata indicato, elettivamente domiciliata in Roma, INDIRIZZO, presso lo studio dell’Avv. NOME COGNOME
-ricorrente –
CONTRO
NOME COGNOME NOME E NOME COGNOME, rappresentati e difesi, unitamente e disgiuntamente, dall’Avv. NOME COGNOME e dall’Avv. NOME COGNOME in virtù di procura speciale in calce al controricorso, elettivamente domiciliati in Roma, presso lo studio dell’Avv. NOME COGNOME, INDIRIZZO
-controricorrenti-
NOME, elettivamente domiciliata in Roma, INDIRIZZO presso lo studio RAGIONE_SOCIALE, rappresentata e difesa dall’Avv. NOME COGNOME come da mandato in calce al controricorso.
-controricorrente-
avverso la ordinanza della Corte di appello di Reggio Calabria n. 9268/ 2019, depositata il 6/11/2019.
Udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del 15/5/2025 dal Consigliere dott. NOME COGNOME
RILEVATO CHE:
Con decreto del Ministero delle Infrastrutture e dei Trasporti (Mit) del 18/11/2010 veniva conclusa la procedura di accettazione di conformità urbanistica, in relazione alla realizzazione della fermata INDIRIZZO della metropolitana di superficie Reggio Calabria-Melito.
Si procedeva alla dichiarazione di pubblica utilità, attraverso l’approvazione del progetto definitivo dell’opera con la delibera n. 75 del 12/1/2011.
Veniva emesso in data 25/2/2011 provvedimento di occupazione di urgenza ex art. 22bis del d.P.R. n. 327 del 2001.
L’immissione in possesso delle particelle di proprietà di NOME COGNOME NOME COGNOME e NOME COGNOME quali eredi, avveniva il 23/3/2011.
Veniva poi emesso un successivo decreto di occupazione di urgenza ex art. 22bis del d.P.R. n. 327 del 2001 in data 8/7/2011, cui seguiva una nuova immissione in possesso in data 7/9/2011, con riferimento alle particelle n. 751 e 752. Inizialmente, infatti, tali par-
ticelle erano ritenute appartenenti al demanio marittimo, mentre successivamente ci si accorgeva della natura privata della titolarità.
Con il decreto di occupazione di urgenza si determinava l’indennità provvisoria offerta.
Con riferimento ai terreni di cui ai numeri 28, 31, 33, 327, 329 e 331, si determinava un’indennità provvisoria di euro 363.150,00.
In relazione ai terreni di cui alle particelle 751 e 752, si determinava l’indennità provvisoria di euro 7,90 al metro quadrato, per la somma complessiva di euro 16.900,00.
I proprietari, però, contestavano le indennità liquidate, sostenendo che dovevano essere applicati i valori di mercato, pari ad euro 100,00 m², anziché ad euro 40 m²; dovevano poi essere computati mq 1527, per la stradella detta INDIRIZZO o INDIRIZZO, di natura privata e non pubblica; era erronea la valutazione della particella 923 come incolto sterile, trattandosi di terreno suscettibile di utilizzazione per affitto periodico a stabilimenti balneari; doveva riconoscersi la svalutazione del fondo residuo, trattandosi di espropriazione parziale ex art. 33 del d.P.R. n. 327 del 2001.
Si procedeva ad un primo frazionamento del 18/10/2012, con riguardo alle particelle 921, per mq 73; 913 per mq 3615; 922 per mq 60; 914 per mq 625; per un totale di mq 4373; quanto alla strada di accesso il frazionamento riguardava la particella 916 per mq 1530; la particella n. 918 per mq 530 e la particella 920 per mq 900, per un totale di mq 2940, per un totale complessivo di mq 7333.
Con successivo frazionamento del 6/12/2012 la particella 751 veniva espropriata solo per una parte, mentre la particella 752 veniva espropriata interamente; la porzione espropriata della particella 751 veniva indicata con la particella 923, per mq 1420.
In data 13/4/2015 veniva emesso il decreto di esproprio. Le particelle 916, 918, 920, 752 e 923 appartenevano a RAGIONE_SOCIALE
Italiana; le particelle 913, 914, 921 e 922 appartenevano al Comune di Melito.
NOME COGNOME NOME COGNOME e NOME COGNOME chiedevano la rideterminazione dell’indennizzo.
Interveniva nel giudizio NOME COGNOME.
Il CTU espletava la consulenza tecnica: determinava la somma spettante a titolo di indennizzo in euro 542.817,50, oltre euro 30.000,00 per costruzioni; la superficie occupata non era di mq 8070, come risultanti dall’immissione in possesso del 22/3/2011, ma di mq 7333; le particelle numeri 751 e 752 dovevano essere considerate in quanto non rientravano nel demanio marittimo, ma erano di proprietà privata; con ulteriore decreto di occupazione di urgenza n. 97 del 8/7/2011 si provvedeva all’immissione in possesso del 7/9/ 2011.
La Corte d’appello di Reggio Calabria, con ordinanza n. 9268/2019, depositata il 6/11/2019, determinava l’indennizzo complessivo in euro 543.817,50, di cui euro 466.645,00 per le particelle 913, 914, 916, 918, 920, 921 e 922; determinava in euro 36.172,50 l’indennizzo relativo alla strada; in euro 30.000,00 l’indennizzo per la costruzione; in euro 38.478,99 l’indennizzo per le particelle 752 e 923, con decurtazione di euro 20.000,00 per il parcheggio da realizzare.
L’indennità di occupazione veniva determinata in euro 213.034,10.
La Corte territoriale si confrontava anche con le osservazioni del CTP degli attori, cui il CTU non aveva dato risposta, evidenziando che la stradella solo per la metà era di proprietà dei COGNOME; decurtava il valore dei terreni del 30% per la sussistenza della servitù di uso pubblico, in quanto il terreno era utilizzato come passaggio per giungere all’arenile; decurtava il valore del 40% con riferimento al prezzo
di locazione «dell’area prospiciente il mare ricadente in ‘bianca non formata’» sulla base di due precedenti concessioni, del 2001 e del 2011, «che non contenevano sconti rispetto al prezzo unitario» individuato dal CTU.
Con riferimento alla «stradina», per la Corte territoriale trattavasi di strada di proprietà dei ricorrenti, anche se di uso pubblico, della consistenza di mq 1998.
La Corte d’appello applicava il criterio della probabile destinazione delle singole aree, a monte e a valle delle opere ferroviarie, tenendo conto della «vocazione turistico-balneare della zona di Annà», valutando la vicinanza delle particelle alla spiaggia, «facendo ricorso ai risultati delle indagini operate presso gli agenti immobiliari della zona, complessivamente convergenti sia sui valori di base che sull’incidenza in ragione di almeno il 15% in positivo della vicinanza alla spiaggia».
L’area residua rimasta in proprietà dei COGNOME non aveva ricevuto né danni né benefici dalla procedura.
Avverso tale sentenza ha proposto ricorso per cassazione la RAGIONE_SOCIALE, depositando anche memoria scritta.
Hanno resistito con controricorso NOME COGNOME NOME COGNOME e NOME COGNOME depositando anche memoria scritta.
Ha resistito con autonomo controricorso NOME COGNOME depositando anche memoria scritta.
CONSIDERATO CHE:
Con il primo motivo di impugnazione la ricorrente deduce la «A) nullità del procedimento per mancata integrazione del contraddittorio rispetto all’accertamento della qualificazione della natura
giuridica e titolarità della proprietà della stradella vicinale. B) violazione e falsa applicazione del combinato disposto degli articoli 102 c.p.c., 948, 50 d.P.R. n. 327 del 2001, 2729 e 2967 c.c., con riferimento all’art. 360, primo comma, n. 3 e n. 4, c.p.c.».
In particolare, la Corte territoriale, nel decidere in ordine alla titolarità della strada vicinale, attribuita presuntivamente agli attori in ragione della metà indivisa, ha ritenuto che la stessa fosse in comunione con i proprietari frontistanti.
Si tratterebbe di soggetti che la Corte d’appello menziona («tali Vilardi»), individuati nella consulenza tecnica d’ufficio, perché indicati nell’atto di acquisto per notaio Canale del 1969.
Tuttavia, per tali soggetti non è stata disposta l’integrazione del contraddittorio, pur sussistendo il litisconsorzio necessario.
Vi erano, infatti, da una parte, i ricorrenti COGNOME, unitamente ai COGNOME (mai evocati in giudizio) e dall’altra, il Comune di Melito Porto Salvo.
La Corte territoriale, anziché ordinare l’integrazione del contraddittorio nei loro confronti, avrebbe «supinamente eseguito la soluzione salomonica» proposta dal CTU, attribuendo tale strada in comproprietà agli attori ed ai proprietari frontistanti, escludendo in toto ogni diritto del Comune.
Per il CTU si trattava di una strada «privata con uso pubblico».
Per il CTU, dunque, «il suolo della strada vicinale ancorché soggetto a servitù di pubblico transito deve ritenersi di proprietà privata, e precisamente di proprietà dei frontisti latistanti».
Il CTU avrebbe ignorato i dati offerti dal CTP di RFI, a sostegno della natura pubblica della stradella in capo al Comune.
La Corte territoriale ha osservato, con riferimento alla stradella, che il CTP di RFI non avrebbe «addotto alcun elemento che consenta di revocarne in dubbio la natura privata».
Tuttavia, ad avviso della ricorrente, la Corte territoriale sarebbe incorsa in tre errori: avrebbe violato l’art. 102 c.p.c., in quanto la decisione riguardava più soggetti, dei quali alcuni mai evocati in giudizio; avrebbe violato l’art. 2967 c.c., avendo invertito l’onere della prova circa la proprietà della strada. Infatti, il convenuto può limitarsi a negare l’affermazione del preteso proprietario, mentre quest’ultimo ha l’onere di dimostrare il fatto costitutivo del suo diritto; avrebbe violato l’art. 2729 c.c. oltre all’art. 948 c.c. e all’art. 50 del d.P.R. n. 327 del 2001. La prova della proprietà non può essere raggiunta mediante presunzioni, «e senza risalire ad un acquisto certo, a titolo originario o quale effetto di più atti di trasferimento, che dimostrino la continuità della titolarità e del possesso».
Con il secondo motivo di impugnazione il ricorrente lamenta «errore sulla qualificazione della natura giuridica e titolarità della proprietà della stradella Vicinale. Violazione e falsa applicazione del combinato disposto degli articoli 102 c.p.c., 948, 2729 e 2967 c.c., con riferimento all’art. 360, primo comma, n. 3, c.p.c.».
In particolare, le strade vicinali, ove soggette al pubblico transito, sono assoggettate al regime giuridico proprio delle strade pubbliche. Inoltre, affinché una strada possa rientrare nella categoria delle vie vicinali pubbliche devono sussistere i requisiti del passaggio esercitato da una collettività di persone qualificate dall’appartenenza ad una comunità territoriale, della concreta idoneità della strada a soddisfare esigenze di generale interesse, di un titolo valido a sorreggere l’affermazione del diritto di uso pubblico.
Nella specie, a giudizio della ricorrente, la strada sarebbe stata sempre assoggettata ad uso pubblico da parte di una comunità di utenti, sicché il Comune era titolare di un diritto reale d’uso pubblico sull’area.
Inoltre, la stradella collega la via pubblica e l’arenile ed è percorsa dai cittadini che accedono alla spiaggia pubblica.
Pertanto, la stradella non era attribuibile in proprietà agli attori, contrariamente a quanto sostenuto dal CTU e confermato dalla Corte d’appello.
Con il terzo motivo di impugnazione si deduce «errore di diritto nella individuazione del regime legale della fascia di rispetto ferroviaria. Violazione e falsa applicazione dell’art. 49 d.P.R. 11 luglio 1980, n. 753, degli articoli 2729 e 2967 c.c., con riferimento all’art. 360, primo comma, n. 3. Violazione e falsa applicazione dell’art. 115 c.p.c., dell’art. 24 e 111 Costituzione con riferimento all’art. 360, primo comma, n. 4, c.p.c.».
In sostanza, il CTU ha ritenuto che le superfici poste a valle dell’infrastruttura ferroviaria, dal lato dell’arenile, «non sono normate dallo strumento urbanistico del Comune» e sono soggette «a rispetto ferroviario ai sensi del d.P.R. 11 luglio 1980, n. 753 che vieta di costruire, ricostruire o ampliare manufatti ad una distanza di 30 m dal bordo della rotaia più esterna».
Il CTU, dunque, ha evidenziato l’assenza di indicazioni normative, ma ha precisato che ciò non giustificava la scelta di considerare l’area bianca come agricola.
Infatti, pure con le limitazioni imposte dal vincolo ferroviario, l’area era però suscettibile di utilizzazione ed in grado di produrre reddito.
Per la ricorrente, invece, la Corte d’appello sarebbe incorsa in errore, seguendo le valutazioni del CTU, il quale «ha omesso di verificare se dette costruzioni , genericamente menzionate e senza alcun riferimento a dati catastali o idonei ad identificarne i proprietari, fossero state edificate legittimamente o fossero abusive».
Con il quarto motivo di impugnazione si deduce la «violazione e falsa applicazione dell’art. 91 c.p.c., con riferimento all’art. 360, primo comma, n. 3, c.p.c., per quanto attiene alla decisione sulle spese di causa».
L’esito del giudizio non avrebbe dovuto condurre alla condanna alle spese, con compensazione nella misura di un quarto, ma alla compensazione integrale delle stesse, se non alla imputazione delle spese ai soli ricorrenti, vista la differenza tra le domande avanzate quelle accolte.
Il primo motivo è infondato.
5.1. Deve evidenziarsi che l’eccezione relativa alla sussistenza di un’ipotesi di litisconsorzio necessario tra gli attori e i proprietari antistanti è stata sollevata per la prima volta in sede di legittimità.
Si rileva che, nel caso in cui il giudizio di appello sia stato introdotto in violazione dell’art. 331 c.p.c. e la relativa nullità non sia stata rilevata né dalle parti nè dal giudice, tale violazione può essere fatta valere dalle parti (compresa quella che introdusse l’appello), con ricorso principale o incidentale avverso la sentenza conclusiva del gravame, soltanto qualora la violazione abbia riguardato una situazione di litisconsorzio necessario iniziale (art. 102 c.p.c.) o di litisconsorzio necessario processuale determinata dall’ordine del giudice (art. 107 c.p.c.), atteso che in tali casi, a differenza di ogni altra ipotesi di violazione dell’art. 331 c.p.c. (e, dunque, di litisconsorzio necessario processuale da inscindibilità o da dipendenza), non può operare la regola dell’art. 157, comma 3, c.p.c. trattandosi di violazioni rilevabili d’ufficio dalla Corte di cassazione, circostanza che esclude che la parte abbia perduto il potere di impugnare (Cass. n. 21381/2018); nel caso di specie, però non ricorre una ipotesi di litisconsorzio sostanziale.
6. In particolare, per questa Corte il giudizio di determinazione dell’indennità di espropriazione ha carattere unitario ed investe il diritto nella sua interezza, anche qualora il bene oggetto del procedimento ablatorio sia in comproprietà indivisa, sicché, mentre la determinazione giudiziale dell’indennità giova ai comproprietari che non abbiano proposto opposizione (non ricorrendo un’ipotesi di litisconsorzio necessario), senza che ad essi possa opporsi alcuna decadenza, nel caso in cui solo alcuni degli opponenti comproprietari abbiano coltivato il giudizio nei gradi di impugnazione, non può configurarsi la formazione frazionata del giudicato in capo ai diversi opponenti, i quali tutti devono considerarsi parti processualmente necessarie nei successivi gradi, anche se non abbiano proposto impugnazione (Cass., sez. 1, 12/6/2019, n. 15780).
Si è chiarito, infatti, che il giudizio di determinazione dell’indennità di esproprio investe il diritto nella sua interezza (Cass. n. 12700 del 2014). Il decreto di espropriazione per pubblica utilità incide sull’oggetto, ma non sulla natura del diritto espropriato e, quindi, il diritto reale degli espropriati si trasferisce sulla somma di cui è previsto il deposito prima che venga emesso il decreto (Cass. n. 15780 del 2019).
Ove, dunque, si versi nell’ipotesi di comproprietà indivisa del bene, la comunione permane sull’indennità fino al momento in questa sarà divenuta definitiva e ne sarà disposto lo svincolo dall’autorità giudiziaria, sulla base dell’accordo delle parti o in ragione dei diritti degli espropriati (Cass., n. 15780 del 2019).
Tra l’altro, ove si fosse in presenza di un’ipotesi di litisconsorzio sostanziale ex art. 102 c.p.c., la ricorrente avrebbe dovuto indicare i litisconsorti pretermessi e provarne l’esistenza, nonché dimostrare i motivi per i quali è necessaria l’integrazione (Cass., sez.
L, 2/3/2020, n. 5679; Cass., sez. 5, 5/11/2019, n. 28356; Cass. sez. 2, n. 17589 del 2020).
Va anche chiarito che il controllo effettuato dall’autorità espropriante in ordine alla titolarità del bene oggetto di espropriazione si basa fondamentalmente sui dati catastali, che possono anche divergere dai titoli di proprietà, proprio in ragione della estrema semplificazione del procedimento di liquidazione dell’indennizzo.
8.1. Va, in primo luogo, precisato che, anche sulla scorta di opinioni dottrinali, la normativa di cui alla legge n. 865 del 1971 prevede che l’espropriato debba essere identificato nel soggetto che risulta proprietario dei terreni alla luce delle risultanze catastali (cfr. anche Cass., sez. 1, 22/3/2007, n. 6980; Cass., sez. 24/2/2011, n. 4580; Cass., sez. 1, 18/5/2012, n. 7904; Cass., sez. 1, 12/5/2014, n. 10289; Cass., n. 13920/2019, in relazione all’art. 3 del d.P.R. n. 327 del 2001; Cass., sez. 1, 4/4/2023, n. 9227), e ciò per rendere celere il procedimento, che, altrimenti, sarebbe reso maggiormente difficoltoso dall’individuazione dell’effettivo proprietario del bene.
Si è sottolineato che lo scopo della previsione è quello di rendere più veloce il procedimento, esonerando la parte pubblica da minuziose indagini volte ad individuare i proprietari effettivi, se diversi da quelli catastali.
La norma, dunque, non pone all’Amministrazione alcun onere di porre in essere indagini per ricostruire le vicende della proprietà.
La notifica del decreto di esproprio a chi, non essendo proprietario effettivo del bene, risulti tale dai registri catastali, non incide sulla validità ed efficacia del provvedimento ablativo, ma impedisce il decorso del termine di decadenza per l’opposizione alla stima nei confronti del proprietario effettivo ed abilita quest’ultimo a chiedere il risarcimento del danno derivato dalla ritardata riscossione dell’indennità, ove l’omissione o il ritardo della notificazione sia ascrivibile
ad un difetto di diligenza dell’espropriante (Cass., sez. 1, 12/5/2014, n. 10289; Cass., sez. 1, 10/2/2015, n. 2539). Tale diritto permane in capo al proprietario anche nell’ipotesi in cui questi, successivamente al decreto di esproprio – e, dunque, alla consumazione dell’illecito a suo danno – abbia alienato il bene, salvo che il trasferimento all’acquirente sia comprensivo del credito risarcitorio.
Il proprietario effettivo può autonomamente agire per la determinazione dell’indennità relativa alla proprietà acquisita e successivamente espropriata, esplicando anche intervento litisconsortile nell’azione di opposizione alla stima proposta dal proprietario catastale (Cass., sez. 1, 27/12/1999, n. 14587).
Di recente si è statuito, in relazione all’art. 3 del d.P.R. n. 327 del 2001, applicabile ratione temporis , che per il rispetto del principio di partecipazione degli interessati al procedimento di espropriazione è sufficiente che la P.A. provveda alla notifica degli atti ai proprietari dei terreni come risultanti dai certificati catastali, non essendo prescritta alcuna ulteriore indagine finalizzata ad accertare l’identità degli effettivi proprietari, senza che per tale ragione risulti compromessa la legittimità della procedura ablativa, in quanto la notifica al solo intestatario catastale del decreto di espropriazione impedisce soltanto il decorso del termine di decadenza per la sua impugnazione, non per quella di colui che risulti proprietario del bene oggetto del provvedimento (Cass., Sez. U, 19/6/2023, n. 17445).
8.2. La giurisprudenza di questa Corte si muove in tale solco.
Si è ritenuto (Cass., sez. 1, 21/2/2018, n. 4198), infatti, che con espresso richiamo ad altra pronuncia (Cass., sez. 1, 27/10/2005, n. 20905) – il proprietario del bene espropriato non ha azione nei confronti dell’espropriante per il pagamento dell’indennità di esproprio, ove questa sia stata riscossa dall’intestatario catastale del medesimo bene. Ciò riposa sul principio per cui il debito dell’espro-
priante si estingue, in parte qua , a seguito del pagamento in buona fede al creditore apparente in base all’art. 1189, primo comma, c.c.
Pertanto, il proprietario reale, oltre ad agire nei confronti dello stesso creditore apparente in base alle regole stabilite per la ripetizione dell’indebito, ex art. 1189, 2º comma, c.c., ben può pretendere «la determinazione della giusta indennità nei confronti dell’espropriante, salvo poter conseguire in concreto solo la differenza tra quanto giudizialmente riconosciuto e quanto erogato in favore dello intestatario catastale».
Ciò che rileva, ai fini dell’accoglimento dell’azione del proprietario effettivo nei confronti dell’ente espropriante, è la sussistenza o meno della buona fede dell’Amministrazione nell’effettuare il pagamento al proprietario catastale, in luogo del proprietario effettivo.
In particolare, si rileva, con riferimento espresso al quadro normativo, che le norme della legge n. 865 del 1971, fanno riferimento, a più riprese, all’individuazione del proprietario in base ai dati catastali.
L’art. 10, primo comma, della legge n. 865 del 1971 fa proprio riferimento ad «una relazione esplicativa dell’opera dell’intervento da realizzare, corredata dalle mappe catastali sulle quali siano individuate le aree da espropriare, dall’elenco dei proprietari iscritti negli atti catastali, nonché dalle planimetrie dei piani urbanistici vigenti».
L’art. 12, quarto comma, della legge n. 865 del 1971, chiarisce che «la Cassa depositi e prestiti provvede, in deroga alle vigenti disposizioni, al pagamento delle somme ricevute in deposito a titolo di indennità di esproprio o di occupazione in base al solo nullaosta del prefetto, al quale compete l’accertamento della libertà e proprietà dell’immobile espropriato».
L’art. 13, primo comma, della legge n. 865 del 1971 chiarisce che «il prefetto pronuncia , entro 15 giorni dalla richiesta, l’e-
spropriazione sulla base dei dati risultanti dalla documentazione di cui all’art. 10», con la precisazione, nel secondo comma, che «il decreto del prefetto deve essere notificato ai proprietari nelle forme degli atti processuali civili, inserito per estratto nel foglio degli annunzi legali della provincia e trascritto presso il competente ufficio del registro immobiliare in termini di urgenza».
10. Analoga normativa si rinviene nell’art. 3, comma 2, del d.P.R. n. 327 del 2001, applicabile ratione temporis , in base al quale «utti gli atti della procedura espropriativa, ivi incluse le comunicazioni ed il decreto di esproprio, sono disposti nei confronti del soggetto che risulti proprietario secondo i registri catastali, salvo che l’autorità espropriante non abbia tempestiva notizia dell’eventuale diverso proprietario effettivo».
Si chiarisce, poi, che «nel caso in cui abbia avuto notizia della pendenza della procedura espropriativa dopo la comunicazione dell’indennità provvisoria al soggetto che risulti proprietario secondo i registri catastali, il proprietario effettivo può, nei 30 giorni successivi, concordare l’indennità ai sensi dell’art. 45, comma 2».
Al comma 3 dell’art. 3 del d.P.R. n. 327 del 2001 si prevede che «colui che risulta proprietario secondo i registri catastali e riceva la notificazione o comunicazione di atti del procedimento espropriativo, ove non sia più proprietario è tenuto di comunicarlo all’amministrazione procedente entro 30 giorni dalla prima notificazione, indicando altresì, ove ne sia a conoscenza, il nuovo proprietario, o comunque fornendo copie degli atti in suo possesso utili a ricostruire le vicende dell’immobile».
In tal modo, dunque, il proprietario effettivo si inserisce nel procedimento espropriativo che sia stata avviato nei confronti del proprietario catastale.
Si reputa in dottrina che tale possibilità sia consentita solo nella fase del procedimento espropriativo successiva alla determinazione dell’indennità provvisoria, ma anteriore alla determinazione e pagamento di quella definitiva.
La possibilità di concordare l’indennità definitiva con il proprietario effettivo sussiste, non solo fino a quando l’indennità definitiva è stata determinata ma anche nella fase successiva, fino a quando venga pagata.
Dopo il pagamento, il proprietario effettivo è tutelato mediante l’azione di restituzione dell’indebito da esercitarsi nei confronti di chi ha ricevuto il pagamento dell’indennità senza averne titolo.
Si è specificato che la regola in base alla quale gli atti della procedura vengono legittimamente compiuti nei confronti del proprietario catastale costituisce una deroga ai principi civilistici in tema di indebito. Tale deroga è stabilita in favore dell’Amministrazione espropriante, sicché, una volta che l’indennità sia stata pagata al proprietario catastale, l’Amministrazione non è tenuta ad effettuare un secondo pagamento al proprietario effettivo e a ripetere l’indebito da quello catastale, come accadrebbe in base ai principi civilistici in tema di indebito.
È invece il proprietario effettivo a dover agire nei confronti di quello catastale.
11. La giurisprudenza di questa Corte ha, dunque, chiarito che il proprietario del bene espropriato (o il suo avente causa), il quale non ha azione nei confronti dell’espropriante per il pagamento dell’indennità di esproprio ove questa, in applicazione dell’art. 12, terzo e quinto comma, della legge n. 865 del 1971, sia stata riscossa dall’intestatario catastale del medesimo bene nell’inerzia del proprietario, essendosi il debito dell’espropriante estinto a seguito del pagamento in buona fede al creditore apparente in base all’art. 1189,
primo comma, cod. civ., può agire esclusivamente nei confronti dello stesso creditore apparente secondo le regole stabilite per la ripetizione dell’indebito ex art. 1189, secondo comma, cod. civ. (Cass., sez. 3, 27/10/2005, n. 20905). Pertanto, in considerazione del presupposto che il diritto del proprietario all’indennità di espropriazione ed il diritto di ripetere dal creditore apparente quanto a lui non corrisposto a titolo di indennizzo non dovutogli hanno ad oggetto prestazioni distinte e si rivolgono ad obbligati diversi, non è possibile riferire il termine iniziale di prescrizione dell’azione ex art. 1189, secondo comma, cod. civ. a momenti precedenti alla sua insorgenza, quando è possibile agire soltanto a tutela del diverso diritto all’indennità di espropriazione nei confronti dell’ente espropriante.
Pertanto, deve ribadirsi che, in tema di espropriazione per pubblica utilità, il proprietario del bene espropriato non ha azione nei confronti dell’espropriante per il pagamento dell’indennità di esproprio ove questa sia stata versata a chi appariva proprietario, essendo il debito dell’espropriante estinto dal pagamento in buona fede al creditore apparente, ai sensi dell’art. 1189, primo comma, cod. civ.; il vero proprietario può agire esclusivamente nei confronti dell'” accipiens “, secondo le regole stabilite per la ripetizione dell’indebito, ai sensi dell’art. 1189, secondo comma, cod. civ. (Cass., sez. 2, 29/8/ 2014, n. 18452).
Si è anche precisato che, in tema di espropriazione per pubblica utilità, la notifica del decreto di esproprio a chi, non essendo proprietario effettivo del bene, risulti tale dai registri catastali, non solo impedisce il decorso del termine di decadenza per l’opposizione alla stima nei confronti del proprietario effettivo, ma abilita quest’ultimo, ove l’omissione o il ritardo della notificazione nei suoi confronti sia ascrivibile ad un difetto di diligenza dell’espropriante nell’accertamento del titolare del bene sottoposto ad espropriazione, a chie-
dere il risarcimento del danno derivato dalla ritardata riscossione dell’indennità. Tale danno, generalmente riconoscibile in via presuntiva in favore di qualsiasi creditore che ne domandi il risarcimento, senza necessità di inquadrarlo in una apposita categoria, è quantificabile nell’eventuale differenza, a decorrere dalla data di insorgenza della mora, tra il tasso di rendimento medio annuo netto dei titoli di Stato di durata non superiore a dodici mesi e il saggio degli interessi legali (Cass., sez. 1, 28/5/2014, n. 11901).
12. Il secondo motivo è inammissibile.
12.1. Deve premettersi che costituisce principio costantemente ribadito dalla giurisprudenza di legittimità (di recente Cass., sez. 1, 17/7/2024, n. 19784, che ha però escluso la sussistenza della dicatio ad patriam in quanto mancava un collegamento con la strada pubblica e vi era stato il rifiuto da parte dell’Amministrazione comunale all’effettuazione di interventi di manutenzione del manto stradale), quello secondo cui la dicatio ad patriam , quale modo di costituzione di una servitù di uso pubblico, postula che il proprietario, con un comportamento anche non intenzionalmente diretto a dare vita al predetto diritto, metta volontariamente il proprio bene a disposizione della collettività, con carattere di continuità e non di mera precarietà e tolleranza, assoggettandolo al relativo uso, al fine di soddisfare un’esigenza comune dei membri della collettività considerati uti cives (cfr . Cass., sez. 2, 14/06/2018, n. 15618; 22/11/2000, n. 15111; di recente Cass., sez. 1, 26/4/2024, n. 11320), e ciò indipendentemente non solo dai motivi per cui tale comportamento venga tenuto, dalla sua spontaneità e dallo spirito che lo anima (cfr. Cass., sez. 2, 4/06/2001, n. 7481; 21/05/2001, n. 6924; 17/03/ 1995, n. 3117), ma anche dal decorso di un congruo periodo di tempo o dall’esistenza di un atto negoziale o un provvedimento ablativo (cfr. Cass., sez. 2, 10/12/1994, n. 10574).
Peraltro, la valutazione del giudice di merito in ordine alla sussistenza o meno di una dicatio ad patriam , ove adeguatamente motivata, non può essere sindacata dal giudice di legittimità (Cass., sez. 1, 3/7/2024, n. 18222).
Pertanto, da un lato, deve sottolinearsi che la servitù di uso pubblico non trasforma la proprietà privata in proprietà pubblica; sicché gli attori restano proprietari della stradella di collegamento al mare.
Dall’altro, proprio dagli stralci della relazione tecnica redatta dal CTU emerge la permanenza della proprietà privata della strada in capo agli attori.
Il CTU ha infatti rimarcato la funzione specifica di tale tratto di strada, «considerate le caratteristiche della stradella (prima di essere inglobata nella nuova infrastruttura viaria), non asfaltata, e la sua funzione di collegamento della vecchia strada statale con un tratto di arenile».
Ha poi specificato che «l’ipotesi che essa già esistesse all’epoca della realizzazione della tratta ferroviaria da Reggio Calabria a Melito Porto Salvo (inaugurata nel 1868) è realistica per la presenza del tombino posto nel tratto terminale a consentire l’accesso al mare e l’eventuale deflusso di acque, ma tale fatto può tutt’al più costituire una traccia per orientarsi nella possibile datazione di un atto di qualsiasi natura che costituisca attendibile titolo di proprietà».
Con la precisazione però che «ritiene la sottoscritta che la ricerca di questo titolo (ammesso che esso esista) esuli dal suo mandato e, nell’incertezza delle circostanze sopra indicate, risulterebbe peraltro estremamente costosa. Si conclude che la stradella, per la sua natura vicinale, fosse di proprietà dei ricorrenti almeno per una metà della sua superficie per via del confine con i loro immobili».
La Corte d’appello, in ordine alla stradella, con piena valutazione meritale ha affermato che «non può tenersi conto dell’assenza di frazionamento riguardo al sedime della INDIRIZZO, da considerare non completamente privata», specificando che «altrettanto chiari sono i motivi che hanno indotto la CTU a considerare indennizzabile in metri quadrati 795 di strada vicinale, non avendo il CTP dedotto alcun elemento che consenta di revocarne in dubbio la natura privata».
Tra l’altro, la Corte territoriale ha ridotto il valore del terreno in ragione del 30% «per il fatto che sulla stradella grava una servitù pubblica, non avendo il Comune in trent’anni mai svolto alcun lavoro sull’area. Il punto non è tuttavia se questa servitù sia stata concretamente esercitata, ma se essa sussista, bastando già questa circostanza a ridurre il valore».
Il terzo motivo è inammissibile.
14.1. In sostanza, si chiede a questa Corte una nuova valutazione degli elementi istruttori, già compiutamente effettuata dalla Corte d’appello, non consentita in questa sede.
Quanto al valore dei terreni, la Corte territoriale a seguito delle conclusioni del CTU, ha rilevato che «applicando il criterio della probabile destinazione delle singole aree, a monte e a valle delle opere ferroviarie, e dell’effettiva data di immissione in possesso, la consulente ha poi ricostruito il credito degli attori, tenendo conto della vocazione turistico-balneare della zona di Annà, valutata la vicinanza delle particelle alla spiaggia, oltretutto in zona particolarmente pregiata perché scarsamente affollata, facendo ricorso ai risultati delle indagini operate presso gli agenti immobiliari della zona, complessivamente convergenti sia sui valori di base che sull’incidenza in ragione di almeno il 15% in positivo della vicinanza alla spiaggia».
La ricorrente intende contestare tale valutazione meritale, sostenendo che il CTU non avrebbe tenuto conto della fascia di rispetto ferroviaria di cui all’art. 49 del d.P.R. n. 753 del 1980.
In realtà, proprio dagli stralci della CTU riportata dalla ricorrente emerge la piena valutazione anche di tale elemento, consistente nella fascia di rispetto ferroviaria.
La CTU, infatti, ha rilevato che le superfici «non sono normate dallo strumento urbanistico del Comune di Melito» e sono soggette «a rispetto ferroviario ai sensi del d.P.R. 11 luglio 1980, n. 753, che vieta di costruire, ricostruire o ampliare manufatti ad una distanza di 30 m dal bordo della rotaia più esterna».
E tuttavia, in assenza di indicazioni normative «non è possibile procedere alla stima di tipo comparativo per la mancanza di compravendite cui fare riferimento per la comparazione».
La CTU ha sottolineato che «l’assenza di indicazioni da parte dello strumento urbanistico non giustifica la scelta di considerare l’area bianca come agricola, stimandola conseguentemente come incolto sterile», essendo invece evidente che «pur con le limitazioni imposte dal vincolo ferroviario (peraltro agente anche nelle aree limitrofe, normate e regolarmente edificate), l’area è suscettibile di utilizzazione ed in grado di produrre reddito».
Chiosa il CTU nel senso che «in questo tratto, escluso l’impiego ai fini edilizi per l’edificazione di strutture stabili, non è invece impossibile la realizzazione di opere di carattere temporaneo: gazebo e/o chioschi, eventualmente in seguito a richiesta di autorizzazione all’amministrazione ferroviaria, e aree attrezzate per lo sport (pallavolo, bocce). I predetti usi assumono rilevanza qualora se ne ipotizzi la connessione con l’attuazione delle edificazioni ai fini turistici previste e normate nella zona dallo strumento urbanistico del Comune di Melito Porto Salvo».
Si chiede, in sostanza una inammissibile rivisitazione di tutti gli elementi istruttori già abbondantemente esaminati nel corso del giudizio di merito.
15. Il quarto motivo è inammissibile.
La Corte d’appello, infatti, con pieno giudizio di fatto, ha considerato che la domanda degli attori si è rivelata nella sostanza fondata, «ma con una differenza sensibile tra chiesto e ottenuto», sicché «le spese seguono la principale soccombenza in capo all’espropriante ma vanno compensate per un quarto».
Per questa Corte, infatti, in tema di spese processuali, il sindacato della Corte di cassazione è limitato ad accertare che non risulti violato il principio secondo il quale le spese non possono essere poste a carico della parte totalmente vittoriosa; pertanto, esula da tale sindacato e rientra nel potere discrezionale del giudice di merito la valutazione dell’opportunità di compensare in tutto o in parte le spese di lite, e ciò sia nell’ipotesi di soccombenza reciproca, sia nell’ipotesi di concorso di altri giusti motivi (Cass., sez. 5, 19/6/2013, n. 15317).
16. Le spese del giudizio di legittimità vanno poste, per il principio della soccombenza, a carico della ricorrente si liquidano come da dispositivo.
P.Q.M.
rigetta il ricorso.
Condanna la ricorrente a rimborsare, in favore dei controricorrenti NOME COGNOME NOME COGNOME e NOME COGNOME, le spese del giudizio di legittimità, che si liquidano in complessivi euro 7.000,00, oltre euro 200,00 per esborsi, rimborso forfettario delle spese generali nella misura del 15%, Iva e cpa.
Condanna la ricorrente a rimborsare, in favore della controricorrente NOME COGNOME le spese del giudizio di legittimità,
che si liquidano in complessivi euro 6.000,00, oltre euro 200,00 per esborsi, rimborso forfettario delle spese generali nella misura del 15%, Iva e cpa.
Ai sensi dell’art. 13 comma 1-q uater del d.P.R. 115 del 2002, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso, a norma del comma 1bis , dello stesso art. 1, se dovuto.
Così deciso in Roma, nella camera di consiglio del 15 maggio