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Indennità De Maria e retribuzione di posizione

La Corte di Cassazione, con l’ordinanza n. 5126/2024, ha rigettato il ricorso di un dipendente universitario che chiedeva l’inclusione della retribuzione di posizione nel calcolo della cosiddetta Indennità De Maria. La Corte ha ribadito il principio secondo cui tale indennità, finalizzata a equiparare il trattamento economico del personale universitario a quello del personale sanitario, non può estendersi automaticamente a emolumenti, come la retribuzione di posizione, che sono strettamente legati all’effettivo conferimento e svolgimento di un incarico dirigenziale, la cui prova spetta al lavoratore.

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Pubblicato il 3 novembre 2025 in Diritto del Lavoro, Giurisprudenza Civile, Procedura Civile

Indennità De Maria: la Cassazione esclude la retribuzione di posizione senza incarico direttivo

Con la recente ordinanza n. 5126 del 27 febbraio 2024, la Corte di Cassazione è tornata a pronunciarsi su un tema cruciale per il personale universitario in servizio presso le aziende ospedaliere: il calcolo della cosiddetta Indennità De Maria. La Suprema Corte ha confermato un orientamento ormai consolidato, stabilendo che la retribuzione di posizione, tipica delle funzioni dirigenziali, non può essere automaticamente inclusa nel computo di tale indennità se il dipendente non prova di aver effettivamente svolto un incarico di natura direttiva.

Il caso: la richiesta di un dipendente universitario

La vicenda trae origine dalla richiesta di un funzionario tecnico universitario, in servizio presso un policlinico universitario, di ottenere il pagamento di un’indennità perequativa, la Indennità De Maria, volta a equiparare il suo trattamento economico a quello del personale ospedaliero del X livello. Basandosi su una precedente sentenza che gli aveva riconosciuto tale diritto, il dipendente aveva ottenuto un decreto ingiuntivo per una somma considerevole.

L’Università e l’Azienda Ospedaliera si erano opposte, dando il via a un contenzioso che è giunto fino al terzo grado di giudizio. Il punto nodale della disputa era se, nel calcolo dell’indennità, dovesse essere inclusa anche la “retribuzione di posizione”, una voce economica che, nel comparto sanità, è strettamente connessa all’esercizio di funzioni dirigenziali.

L’evoluzione del giudizio nei gradi di merito

Il Tribunale, in primo grado, aveva parzialmente accolto le ragioni del lavoratore, condannando le amministrazioni al pagamento di una somma ridotta. La Corte d’Appello, tuttavia, riformando parzialmente la decisione, aveva ulteriormente ridotto l’importo, escludendo dal calcolo proprio la retribuzione di posizione. Secondo i giudici di secondo grado, il dipendente non aveva fornito la prova di aver ricoperto un incarico dirigenziale che giustificasse il riconoscimento di tale emolumento.

Il lavoratore ha quindi proposto ricorso per Cassazione, lamentando, tra i vari motivi, la violazione di un precedente giudicato e l’errata applicazione delle norme di legge e dei contratti collettivi.

Le motivazioni della Suprema Corte sull’Indennità De Maria

La Corte di Cassazione ha rigettato integralmente il ricorso, fornendo importanti chiarimenti sia sul piano processuale che su quello sostanziale.

La distinzione tra mere difese ed eccezioni nuove

In primo luogo, la Corte ha respinto la doglianza secondo cui l’amministrazione, in appello, avrebbe introdotto un’eccezione nuova contestando l’assenza di un incarico dirigenziale. I giudici hanno chiarito che contestare la mancanza di prova di un fatto costitutivo del diritto altrui (in questo caso, l’aver ricoperto un incarico dirigenziale) non costituisce un’eccezione in senso stretto, ma una mera difesa. Come tale, è sempre ammissibile, anche in appello.

Il cuore della questione: Indennità De Maria e retribuzione di posizione

Il punto centrale della decisione riguarda la natura e i limiti dell’Indennità De Maria. La Corte ha richiamato il principio fondamentale stabilito dalle Sezioni Unite (sentenza n. 9279/2016): l’equiparazione garantita dall’art. 31 del D.P.R. n. 761/1979 ha lo scopo di allineare il trattamento economico complessivo, ma incontra un limite logico e giuridico invalicabile.

Non possono essere incluse automaticamente nel calcolo quelle componenti retributive che non derivano dal mero inquadramento contrattuale, ma sono erogate esclusivamente in correlazione all’effettivo conferimento di incarichi specifici, come quello dirigenziale. La retribuzione di posizione rientra pienamente in questa categoria.

In altre parole, l’intento perequativo della norma non può trasformarsi in un’attribuzione automatica di emolumenti legati a responsabilità e funzioni che il dipendente universitario non ha mai esercitato. Spetta al lavoratore che reclama tali somme dimostrare di possedere i requisiti specifici previsti per la loro erogazione, ovvero l’aver ricoperto un ruolo direttivo.

Le conclusioni: la conferma di un principio consolidato

L’ordinanza in commento consolida un indirizzo giurisprudenziale di fondamentale importanza. L’Indennità De Maria è uno strumento di giustizia perequativa, ma non può portare a un arricchimento ingiustificato riconoscendo voci retributive accessorie senza che ne sussistano i presupposti di fatto. La decisione riafferma la netta distinzione tra il trattamento economico fondamentale, legato alla qualifica, e quello accessorio, legato alle funzioni effettivamente svolte. Per ottenere il riconoscimento di quest’ultimo, la semplice equiparazione giuridica non è sufficiente; è necessaria la prova concreta dell’esercizio delle relative mansioni e responsabilità.

La retribuzione di posizione va sempre inclusa nel calcolo dell’Indennità De Maria?
No, la retribuzione di posizione, sia nella sua parte fissa che variabile, può essere inclusa nel calcolo solo se il dipendente prova di aver ricevuto l’effettivo conferimento di un incarico direttivo. L’equiparazione non è automatica per gli emolumenti legati a specifiche funzioni.

Contestare la mancanza di prova di un fatto è considerata un’eccezione nuova in appello?
No, la Corte chiarisce che la contestazione dei fatti posti dalla controparte a fondamento del proprio diritto, inclusa la mancanza di prova di un elemento costitutivo (come l’aver ricoperto un incarico dirigenziale), costituisce una mera difesa e non un’eccezione nuova, pertanto è ammissibile in appello.

Cosa significa il principio di autosufficienza del ricorso per cassazione in relazione a un precedente giudicato?
Significa che se un ricorrente sostiene che una sentenza abbia violato un precedente giudicato, deve trascrivere integralmente nel proprio ricorso il testo della decisione passata in giudicato (sia il dispositivo che la motivazione rilevante), per permettere alla Corte di Cassazione di valutare la doglianza senza dover cercare e consultare atti esterni. In caso contrario, il motivo di ricorso è inammissibile.

La selezione delle sentenze e la raccolta delle massime di giurisprudenza è a cura di Carmine Paul Alexander TEDESCO, Avvocato a Milano, Pesaro e Benevento.

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