Ordinanza di Cassazione Civile Sez. 3 Num. 27943 Anno 2025
Civile Ord. Sez. 3   Num. 27943  Anno 2025
Presidente: COGNOME NOME
Relatore: COGNOME NOME
Data pubblicazione: 20/10/2025
ORDINANZA
sul ricorso iscritto al n. 16883/2022 proposto da:
NOME COGNOME, NOME COGNOME, NOME COGNOME, NOME COGNOME, NOME COGNOME, NOME COGNOME, NOME COGNOME, NOME COGNOME (nato il DATA_NASCITA), NOME COGNOME, NOME COGNOME,  NOME  COGNOME,  NOME  COGNOME, NOME COGNOME, NOME COGNOME, NOME  COGNOME,  NOME  COGNOME,  NOME  COGNOME  e NOME COGNOME, rappresentati e difesi dall’AVV_NOTAIO, con domicilio digitale ex lege ;
– ricorrenti –
e
NOME  COGNOME  (nato  il  DATA_NASCITA),  rappresentato  e  difeso dall’AVV_NOTAIO, con domicilio digitale ex lege ;
contro
RAGIONE_SOCIALE, in persona del legale rappresentante, rappresentata e difesa dagli AVV_NOTAIO.ti NOME AVV_NOTAIO e NOME COGNOME, con domicilio digitale ex lege ;
– controricorrente –
nonché nei conforti di
ASSUNTA COGNOME D’COGNOME e COGNOME;
– intimate –
avverso  la  sentenza  n.  367/2022  della  CORTE D’APPELLO DI SALERNO depositata il 14/4/2022;
udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del 18/9/2025 dal AVV_NOTAIO NOME COGNOME;
ritenuto che,
con sentenza resa in data 14/4/2022, la Corte d’appello di Salerno, in accoglimento dell’appello proposto dalla RAGIONE_SOCIALE e in riforma della decisione di primo grado, ha condannato NOME COGNOME (nato il DATA_NASCITA), NOME COGNOME, NOME COGNOME, NOME COGNOME, NOME COGNOME, NOME COGNOME, NOME COGNOME, NOME COGNOME, NOME COGNOME (nato il DATA_NASCITA), NOME COGNOME, NOME COGNOME, NOME COGNOME, NOME COGNOME, NOME COGNOME, NOME COGNOME, NOME COGNOME, NOME COGNOME, NOME COGNOME, NOME COGNOME, NOME COGNOME e NOME COGNOME, al pagamento, in favore della RAGIONE_SOCIALE, dell’importo di 101.086,38 quale indennità aggiuntiva di cui all’art. 34, co. 2, della legge n. 392/78, oltre agli accessori e al rimborso delle spese di lite;
a fondamento della decisione assunta, la corte territoriale ha rilevato come -diversamente da quanto ritenuto dal giudice di primo grado -la società appellante avesse maturato il diritto al conseguimento dell’indennità integrativa prevista dal secondo comma dell’art. 34 della legge n. 392/78, poiché, a seguito della cessazione del rapporto di locazione commerciale intrattenuto con le controparti (quali locatrici), queste ultime avevano adibito l’immobile già concesso in locazione alla RAGIONE_SOCIALE allo svolgimento di un’attività commerciale identica, o comunque affine, a quella precedentemente svolta dalla RAGIONE_SOCIALE nei medesimi locali;
ciò  posto,  avendo  i  locatori  avviato  tale  attività  entro l’anno successivo alla cessazione del rapporto di locazione con la RAGIONE_SOCIALE, doveva ritenersi integrato il ricorso di tutti i presupposti per il conseguimento, da parte di quest’ultima, dell’ulteriore indennità, pari all’importo di quella per la perdita dell’avviamento commerciale, prevista dall’art. 34, co. 2, della legge numero 392/78;
avverso  la  sentenza d’appello, i  ricorrenti  indicati  in  epigrafe propongono  ricorso  per  cassazione  sulla  base  di  quattro  motivi d’impugnazione;
la RAGIONE_SOCIALE resiste con controricorso;
NOME  COGNOME D’COGNOME e  NOME  COGNOME  non  hanno  svolto difese in questa sede;
la trattazione del ricorso (già fissata per l’adunanza in camera di consiglio del 13/5/2025, allorché la causa è stata tolta dal ruolo per impedimento del relatore) è stata rifissata per l’odierna adunanza;
in data 4/9/2025, nelle more dell’odierna adunanza, si è costituito con  nuovo  difensore  il  ricorrente  NOME  COGNOME,  dando  atto  del
decesso, in data 1° giugno 2025, del precedente difensore di tutti i ricorrenti, AVV_NOTAIO;
NOME COGNOME ha depositato memoria;
considerato che,
dev ‘ essere  preliminarmente  esclusa  la  necessità  di  alcun  rinvio della decisione del l’odierno ricorso eventualmente motivata dal dedotto decesso dell’AVV_NOTAIO (a cui, peraltro, la comunicazione del provvedimento con il quale è stata fissata la nuova adunanza fu validamente effettuata in data 17/6/2025), non avendo gli interessati provveduto al deposito di alcuna rituale documentazione idonea ad attestare quanto dedotto;
con il primo motivo, i ricorrenti si dolgono della nullità della sentenza impugnata (in relazione all’art. 360 n. 4 c.p.c.), per avere la corte territoriale violato il principio della non integrabilità del dispositivo con la motivazione ( ex art. 429 c.p.c.) non avendo il giudice d’appello aggiunto, nella sentenza successivamente depositata, l’attestazione della sussistenza dei presupposti di cui all’art. 13, co. 1, del d.p.r. n. 115/2002 (ai fini del pagamento del c.d. doppio contributo) non contenuto nel dispositivo precedentemente letto in udienza;
il motivo è infondato.
osserva il Collegio come, secondo l’insegnamento della giurisprudenza  di  legittimità,  la  declaratoria  della  sussistenza  dei presupposti  per  il  versamento  di  un  ulteriore  importo  a  titolo  di contributo unificato ex art. 13, comma 1 quater, del d.P.R. n. 115 del 2002, in ragione dell’integrale rigetto, inammissibilità o improcedibilità dell’impugnazione,  non  ha  natura  di  condanna  –  non  riguardando l’oggetto  del  contendere  tra  le  parti  in  causa  –  bensì  la  funzione  di
agevolare l’accertamento amministrativo; tale dichiarazione, pertanto, non preclude la contestazione nelle competenti sedi da parte dell’amministrazione ovvero del privato, ma non può formare oggetto di  impugnazione  (Sez.  3,  Ordinanza  n.  18191  del  02/07/2024,  Rv. 671577 – 01);
da tale premessa deriva che l’inserimento di tale declaratoria nella motivazione depositata successivamente alla lettura in udienza del dispositivo non vale a integrare i contenuti della decisione assunta con detto dispositivo, trattandosi unicamente di un atto destinato ad agevolare l’accertamento amministrativo in ordine all’effettiva sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte dell’impugnante, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato ex art. 13, comma 1 quater, del d.P.R. n. 115 del 2002;
da tanto discende la radicale infondatezza della censura in esame nella parte in cui ha dedotto l’asserita violazione del principio della non integrabilità del dispositivo con la motivazione della sentenza;
con il secondo motivo, i ricorrenti si dolgono della nullità della sentenza impugnata per violazione o falsa applicazione dell’art. 437, co. 2, c.p.c. (in relazione all’art. 360 nn. 3 e 4 c.p.c.), per avere la corte territoriale illegittimamente ammesso in appello la testimonianza del teste NOME COGNOME in relazione a una circostanza già posta a oggetto della prova testimoniale espletata in primo grado con altri testimoni indotti dalla RAGIONE_SOCIALE, con la conseguente destinazione di tale integrazione istruttoria a supplire illegittimamente le carenze istruttorie integralmente imputabili alla negligenza della controparte;
il motivo è inammissibile e, in ogni caso, infondato;
varrà  preliminarmente  rilevare  come  parte  ricorrente  abbia  del tutto omesso di evidenziare l’avvenuta proposizione dell’eccezione di nullità dell’ammissione della  prova  in  appello,  con  la  conseguente impossibilità di dolersene in questa sede di legittimità;
in ogni caso, è appena il caso di rilevare come la corte territoriale, nell’ammettere la prova testimoniale del teste COGNOME come integrazione di un quadro probatorio riferito a circostanze di fatto già poste a oggetto della prova testimoniale espletata in primo grado (come peraltro espressamente riconosciuto dagli stessi odierni istanti), si è integralmente allineata al consolidato insegnamento della giurisprudenza di legittimità ai sensi del quale, nel rito del lavoro, caratterizzato dall’esigenza di contemperare il principio dispositivo con quello della ricerca della verità materiale, allorché le risultanze di causa offrano significativi dati d’indagine, il giudice, anche in grado di appello, ove reputi insufficienti le prove già acquisite, deve esercitare il poteredovere, previsto dall’art. 437 cod. proc. civ., di provvedere d’ufficio agli atti istruttori sollecitati da tale materiale probatorio e idonei a superare l’incertezza sui fatti costitutivi dei diritti in contestazione, purché i fatti stessi siano allegati nell’atto costitutivo, non verificandosi in questo caso alcun superamento, a mezzo dell’attività istruttoria svolta d’ufficio dal giudice, di eventuali preclusioni o decadenze processuali già verificatesi a carico delle parti, in quanto la prova disposta d’ufficio è solo un approfondimento, ritenuto indispensabile al fine di decidere, di elementi probatori già obiettivamente presenti nella realtà del processo (cfr. Sez. L, Sentenza n. 278 del 10/01/2005, Rv. 579464 -01; Sez. L, Sentenza n. 19305 del 29/09/2016, Rv. 641377 – 01);
nel  caso  di  specie, l’ammissione del  teste  COGNOME  in  sede d’appello in  altro  non  è  consistito  se  non nell’approfondimento di elementi probatori già obiettivamente presenti nella realtà del processo,  al  fine  di  acquisire  ulteriori  elementi  di  informazione  in relazione a prove già acquisite e, in quanto tale, destinato a superare le  incertezze  residuate  in  relazione  ai  fatti  costitutivi  del  diritto  di credito in contestazione;
con il terzo motivo, i ricorrenti censurano la sentenza impugnata per violazione o falsa applicazione dell’art. 34, co. 2, della legge n. 392/78 (in relazione all’art. 360 n. 3 c.p.c.), per avere la corte territoriale erroneamente riconosciuto, in favore della controparte, il diritto al conseguimento dell’indennità di cui all’art. 34, co. 2, della legge n. 392/78 senza alcuna prova che la RAGIONE_SOCIALE (o un suo cessionario di ramo d’azienda) esercitasse, all’interno dei locali alla stessa già concessi in locazione dagli odierni istanti, un’attività commerciale identica, o simile, a quella esercitata dalla conduttrice subentrata, tenuto conto della lunga interruzione seguita al fallimento della RAGIONE_SOCIALE e alla successiva fugace apparizione (cartacea più che reale) della soc. RAGIONE_SOCIALE prima della riconsegna dell’immobile locato ai locatori in data 9.5.2005;
il motivo è inammissibile;
osserva il Collegio come, secondo il consolidato insegnamento della giurisprudenza di legittimità, il motivo d’impugnazione è rappresentato dall’enunciazione,  secondo  lo  schema  normativo  con  cui  il  mezzo  è regolato dal legislatore, della o delle ragioni per le quali, secondo chi esercita  il  diritto  d’impugnazione,  la  decisione  è  erronea,  con  la conseguenza  che,  in  quanto  per  denunciare  un  errore  bisogna
identificarlo e, quindi, fornirne la rappresentazione, l’esercizio del diritto d’impugnazione di una decisione giudiziale può considerarsi avvenuto in modo idoneo soltanto qualora i motivi con i quali è esplicato si concretino in una critica della decisione impugnata e, quindi, nell’esplicita e specifica indicazione delle ragioni per cui essa è errata, le quali, per essere enunciate come tali, debbono concretamente considerare le ragioni che la sorreggono e da esse non possono prescindere, dovendosi, dunque, il motivo che non rispetti tale requisito considerarsi nullo per inidoneità al raggiungimento dello scopo. In riferimento al ricorso per Cassazione tale nullità, risolvendosi nella proposizione di un ‘ non motivo ‘ , è espressamente sanzionata con l’inammissibilità ai sensi dell’art. 366 n. 4 cod. proc. civ. (cfr. Sez. 3, Sentenza n. 359 del 11/01/2005, Rv. 579564 -01 e success. conformi; cfr. altresì Sez. U, Sentenza n. 7074 del 20/03/2017 in motivazione);
nel caso di specie, gli odierni ricorrenti non risultano essersi in alcun modo confrontati con la seguente illustrazione contenuta nella sentenza d’appello: « Non è possibile, d’altronde, ritenere – essendo, al riguardo, infondato il primo motivo addotto a sostegno dell’appello incidentale proposto da COGNOME NOME (nato in data DATA_NASCITA), COGNOME NOME, COGNOME NOME, COGNOME NOME, COGNOME NOME, COGNOME NOME, COGNOME NOME e COGNOME NOME (cfr. la memoria difensiva depositata in cancelleria in data 12 settembre 2019, a pagina 5) – che l’immobile, dopo il fallimento della RAGIONE_SOCIALE, fosse rimasto inutilizzato fino al momento del rilascio. Sul punto, infatti, sono pienamente condivisibili -e devono essere in hac sede pedissequamente richiamate le argomentazioni in virtù delle quali il Giudice di primo grado aveva reputato adeguatamente fornita la
dimostrazione della continuazione dell’attività, in seguito al fallimento della RAGIONE_SOCIALE, ad opera della RAGIONE_SOCIALE, come era possibile evincere dal contratto d’affitto d’azienda del 23 aprile 2004 e dalle dichiarazioni rese dai testimoni COGNOME NOME e COGNOME NOME, in cui, peraltro, erano rinvenibili diversi richiami alle fatture commerciali dalle quali risultava una fornitura di arredi e di merci proprio in relazione all’arco temporale in esame, nonché dall’inattendibilità -desumibile dalle circostanze diffusamente enunciate nella decisione, anche al riguardo ineccepibile, esaustiva e convincente – delle dichiarazioni rese dai testimoni COGNOME NOME e COGNOME NOME (cfr. la sentenza impugnata, alle pagine 10, 11 e 12, le cui argomentazioni, come si è detto, sono, in parte qua, pienamente condivisibili e devono essere tenute ferme in questa sede) » (cfr. pagg. 8-9 della sentenza d’appello impugnata in questa sede);
da tanto discende che la censura in esame, non considerando in alcun  modo  tali  passaggi  della  decisione  impugnata,  si  risolva, sostanzialmente, in un inammissibile ‘ non-motivo ‘;
con il quarto motivo, i ricorrenti censurano la sentenza impugnata per violazione o falsa applicazione dell’art. 34, co. 2, della legge n. 392/1978 (in relazione all’art. 360, n. 3, c.p.c.), per avere la corte territoriale erroneamente affermato la sostanziale identità dell’attività commerciale esercitata dal nuovo conduttore, rispetto a quella precedentemente esercitata dalla RAGIONE_SOCIALE, all’interno dei medesimi locali, senza tener conto del ruolo determinante del marchio e della griffe come strumenti di trascinamento della clientela, tale da escludere alcun possibile pregiudizio per la stessa RAGIONE_SOCIALE
RAGIONE_SOCIALE, avuto riguardo all’avvenuta apertura, da parte di quest’ultima, di un  locale  commerciale  a  brevissima  distanza  geografica  dai  locali oggetto dell’odierno giudizio,  dotato  di  dimensioni,  articolazioni  e capacità pubblicitarie ben maggiori dell’immob ile degli odierni istanti;
il motivo è inammissibile;
fermo il carattere del tutto generico della censura in esame (essendosi peraltro i ricorrenti astenuti dall’evidenziare sulla base di quali documenti fossero state argomentate le sollecitazioni critiche in concreto avanzate), osserva il Collegio come l’accertamento dell’identità o della sostanziale affinità della nuova attività esercitata all’interno dei locali già concessi in locazione al vecchio conduttore, rispetto all’attività già esercitata da quest’ultimo, costituisce espressione di un apprezzamento discrezionale proprio del giudice del merito, come tale non rinnovabile dal giudice di legittimità, laddove il giudice di merito abbia correttamente ricondotto i fatti accertati al paradigma normativo applicato;
in particolare, l’apprezzamento in ordine al carattere decisivo – ai fini  della  identità  o  meno dell’attività esercitata  rilevante  ai  sensi dell’art. 34,  co.  2,  della  legge  n.  392/78  dell’offerta al  pubblico  di merce  dotata  di  un  marchio  o  di  una griffe ,  in  tesi  capace  di differenziarsi oggettivamente da beni identici ma non contrassegnati dal medesimo marchio o dalla medesima griffe , costituisce espressione di una valutazione di fatto (e non di diritto);
in  breve, l’affermazione secondo  cui  un  capo  di  abbigliamento munito  di  un  determinato  marchio  (o  di  una  determinata griffe ) costituisca,  sul  piano  merceologico,  la  stessa  cosa  di  un  capo  di abbigliamento identico, benché privo di quel marchio o di quella griffe
(e non già una ‘cosa’ diversa) costituisce espressione di un giudizio di fatto  (d ‘ indole ontologica), poiché  si risolve nell’affermazione di un’identità (o  di  una  diversità)  tra  enti  fondata sull’applicazione di criteri di discriminazione formulati sulla base di considerazioni di natura integralmente fattuale;
nella specie, il motivo in esame, lungi dal contestare un preteso errore di sussunzione del giudice d’appello (poiché gli odierni ricorrenti insistono  nella  ricostruzione  di  una  diversa  consistenza  dei ‘fatti’ di causa, rispetto a quanto accertato dal giudice di merito), si risolve nella prospettazione  di  una  rilettura  nel  merito  dei  fatti  di  causa  e  delle prove, sulla base di un’impostazione critica non consentita in sede di legittimità;
sulla  base  di  tali  premesse,  rilevata  la  complessiva  infondatezza delle censure esaminate, deve essere pronunciato il rigetto del ricorso;
le spese seguono  la soccombenza  e  si liquidano  come  da dispositivo;
si  dà  atto  della  sussistenza  dei  presupposti  processuali  per  il versamento, da parte dei ricorrenti, dell’ulteriore importo  a  titolo  di contributo unificato pari a quello, ove dovuto, per il ricorso, a norma del comma 1quater , dell’art. 13 del d.p.r. n. 115/2002;
P.Q.M.
Rigetta il ricorso e condanna i ricorrenti al rimborso, in favore della controricorrente, delle spese del presente giudizio, liquidate in complessivi euro 7.000,00, oltre alle spese forfettarie nella misura del 15%, agli esborsi liquidati in euro 200,00, e agli accessori come per legge.
Dichiara la sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte dei ricorrenti, dell’ulteriore importo  a  titolo  di contributo unificato pari a quello, ove dovuto, per il ricorso, a norma del comma 1quater , dell’art. 13 del d.p.r. n. 115/2002.
Così deciso in Roma, nella camera di consiglio della Terza Sezione Civile della Corte Suprema di Cassazione del 18/9/2025.
Il Presidente NOME COGNOME