Sentenza di Cassazione Civile Sez. U Num. 6229 Anno 2024
Civile Sent. Sez. U Num. 6229 Anno 2024
AVV_NOTAIO: COGNOME PASQUALE
Relatore: COGNOME NOME
Data pubblicazione: 07/03/2024
SENTENZA
sul ricorso 13793-2020 proposto da:
RAGIONE_SOCIALE elettivamente domiciliata in INDIRIZZO INDIRIZZO, presso lo studio dell’AVV_NOTAIO NOME COGNOME, rappresentata e difesa dall’AVV_NOTAIO NOME COGNOME;
– ricorrente principale –
contro
NOME.
elettivamente domiciliato in Roma, INDIRIZZO
46, presso lo studio dell’AVV_NOTAIO, che lo rappresenta e udienza pubblica 5.12.2023
Numero registro generale 13793/2020 Numero sezionale 535/2023 Numero di raccolta generale 6229/2024 Data pubblicazione 07/03/2024
difende unitamente agli avvocati NOME COGNOME e NOME COGNOME;
contro
ricorrente e ricorrente incidentale –
avverso la sentenza n. 4725/2019 della CORTE D’APPELLO di MILANO, depositata il 28/11/2019.
Udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 05/12/2023 dal Consigliere NOME COGNOME; udito il Pubblico Ministero, in persona del AVV_NOTAIO NOME COGNOME, che ha concluso per il rigetto del ricorso principale e l’assorbimento del ricorso incidentale; uditi gli avvocati NOME COGNOME, NOME COGNOME per delega orale e NOME COGNOME.
FATTI DI CAUSA
1. – Con citazione notificata il 26 gennaio 2015 RAGIONE_SOCIALE RAGIONE_SOCIALE ha convenuto innanzi al Tribunale di Milano R.R. ha domandato che questi fosse condannato a corrisponderle la quota di spettanza di quanto da lui percepito in ragione della cessazione del rapporto di lavoro con RAGIONE_SOCIALE, giusta l’art. 12-bis I. n. 898 del 1970. Ha esposto: che essa attrice e il predetto RAGIONE_SOCIALE R.R. si erano uniti in matrimonio il 25 settembre 1996; che in data 28 aprile 2009 il Tribunale di Milano aveva pronunciato sentenza non definitiva di divorzio, passata in giudicato; che era stata successivamente resa, dallo stesso Tribunale, pronuncia avente ad oggetto il riconoscimento dell’assegno di cui all’art. 5, comma 6, I. cit.; che tale decisione er stata parzialmente riformata dalla Corte di appello milanese con sentenza del 27 dicembre 2012, passata in giudicato; che con quest’ultima pronuncia era stato previsto, in favore della medesima RAGIONE_SOCIALE.S. un assegno di divorzio di euro 9.000,00 mensili; che R.COGNOME.
RAGIONE_SOCIALE
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nell’anno 2008, dopo l’introduzione del giudizio di divorzio, aveva percepito da RAGIONE_SOCIALE indennità correlate alla cessazione del suo rapporto di lavoro con la società, che si era protratto dal 2001 al 2007; che, in particolare, l’ex coniuge aveva conseguito a titolo di «indennità di fine rapporto, indennità equipollenti, altre indennità e prestazioni in forma di capitale» la somma lorda di euro 10.215.630,58; che a titolo di trattamento di fine rapporto era stato erogato l’importo di euro 300.630,58 e a titolo di incentivo all’esodo la somma di euro 9.915.000,00; che sull’importo netto complessivo di euro 5.919.030,87, spettava all’attrice la quota del 40% pari ad euro 2.364.012,40.
Nella resistenza del convenuto il Tribunale di Milano ha riconosciuto spettare all’attrice la complessiva somma di euro 67.558,46: tale importo è stato liquidato tenendo conto della quota di competenza del solo trattamento di fine rapporto conseguito da
RAGIONE_SOCIALE e della somma di euro 6.957,83 (che doveva corrispondere all’ex marito: somma che è stata quindi detratta dall’ammontare riconosciuto alla predetta).
2. – La sentenza è stata impugnata dai due contendenti.
La Corte di appello di Milano, con pronuncia del 28 novembre 2019, ha respinto entrambe le impugnazioni: l’una (quella principale) diretta al riconoscimento del diritto di RAGIONE_SOCIALE V.S. RAGIONE_SOCIALE alla quota del 40% dell’incentivo all’esodo, l’altra (quella incidentale) volta a vedere escluso il diritto, accertato dal Giudice di primo grado, sulla pari quota del trattamento di fine rapporto. La Corte di merito, esprimendo dissenso rispetto all’arresto della giurisprudenza di legittimità marcato da Cass. 12 luglio 2016, n. 14171, ha ritenuto doversi escludere che l’incentivo all’esodo rientrasse nell’indennità di fine rapporto di cui all’art. 12-bis cit.: ha precisato che diversamente opinando si sarebbe finito con l’«attribuire all’ex coniuge una quota di retribuzioni future, non accumulate durante il matrimonio, non collegate quindi alla durata
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del matrimonio secondo la previsione letterale della norma» sopra citata, e ciò in aperto contrasto con le finalità di questa. Quanto all’appello incidentale, ha rilevato che, nel determinarsi la quota del trattamento di fine rapporto a carico dell’ex coniuge debitore dell’assegno divorzile, doveva aversi riguardo agli anni di durata effettiva del matrimonio e non della sola convivenza coniugale, posto che con l’art. 12-bis I. n. 898/1970 il legislatore aveva inteso offrire «assistenza al coniuge separato riconosciuto giudizialmente o consensualmente più debole e quindi meritevole anche dopo la cessazione della convivenza tra i coniugi di contributo al proprio mantenimento».
– La pronuncia della Corte milanese è stata oggetto di un R.R. ricorso per cassazione di V.S. fondato su due motivi.
ha resistito con controricorso e ha spiegato una impugnazione incidentale basata su di un unico mezzo di censura.
– Con ordinanza n. 12014 del 6 maggio 2023 la Prima Sezione di questa Corte ha rimesso gli atti del procedimento al AVV_NOTAIO affinché questi valutasse se ricorressero le condizioni per la rimessione del giudizio alle Sezioni Unite: ciò in ragione dell’esistenza di pronunce contrastanti sul tema della spettanza della quota sull’incentivo all’esodo.
– Fissata udienza pubblica avanti alle Sezioni Unite della Corte per la data odierna, sono state depositate memorie.
Il Pubblico Ministero ha concluso per il rigetto del ricorso.
RAGIONI DELLA DECISIONE
– Il primo motivo denuncia la violazione e falsa applicazione dell’art. 12-bis I. n. 898/1970, «anche in combinato disposto con gli artt. 2 e 29 della Costituzione». La ricorrente lamenta che la Corte di appello si sia discostata dalla pronuncia di questa Corte n. 14171 del 12 luglio 2016 e che lo stesso Giudice distrettuale abbia fornito un’interpretazione dell’art. 12-bis cit. gravemente limitativa, tale da
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escluderne l’applicabilità a una indennità di fine rapporto avente natura retributiva quale è l’incentivo all’esodo. Si rileva che la citata norma deve ritenersi riferita a ogni indennità di natura retributiva, comunque ricollegabile all’apporto fattuale indiretto del coniuge percettore dell’assegno divorzile, e derivante dalla risoluzione del rapporto di lavoro svolto in costanza di matrimonio. In tal senso – si deduce andrebbe accolta una nozione ampia di indennità di fine rapporto, tale da riconnprendere tutti i trattamenti, sia da lavoro subordinato che da lavoro parasubordinato, configura bili quali quota differita della retribuzione corrisposta al momento della cessazione del rapporto di lavoro.
Col secondo mezzo di censura si lamenta la violazione e falsa applicazione dell’art. 12-bis I. n. 898/1970 in combinato disposto con gli artt. 17 e 19 t.u.i.r. (d.P.R. n. 917/1986). La parte istante pon l’accento sulla seguente circostanza: il testo unico delle imposte sui redditi riserva la medesima disciplina al trattamento di fine rapporto e all’incentivo all’esodo, assoggettando entrambi a tassazione separata. Si deduce che ciò costituirebbe frutto di una precisa scelta del legislatore, il quale avrebbe inteso così valorizzare la medesima funzione assolta dalle due indennità. Si rileva, in proposito, che la ratio della tassazione separata sia da rinvenire in motivi di imparzialità ed equità, avendo essa ad oggetto redditi percepiti una tantum che derivano, almeno solitamente, da un processo di maturazione pluriennale.
Col ricorso incidentale condizionato si oppone la violazione e falsa applicazione dell’art. 12-bis I. n. 898/1970. Viene dedotto che la previsione di cui alla citata norma non riguarderebbe l’ipotesi in cui il rapporto di lavoro sia iniziato nel corso della separazione di fatto dei coniugi. Si rileva che la norma in questione mira a valorizzare la solidarietà tra i consorti nel corso del matrimonio e a compensare il contributo personale ed economico dato da un coniuge alla formazione
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del patrimonio dell’altro: in conseguenza, la Corte di appello avrebbe dovuto reputare dirimente la circostanza per cui NOME NOME aveva mancato di fornire, nel periodo indicato, alcun apporto economico al detto patrimonio, che anzi aveva «depauperato».
– I due motivi del ricorso principale possono esaminarsi congiuntamente, in quanto connessi.
– E’ anzitutto necessario dar conto di una precisazione formulata da COGNOME nel suo controricorso: l’essere cioè intervenuta, in sede di modifica delle condizioni di divorzio, la revoca dell’assegno cui lo stesso era tenuto nei confronti di RAGIONE_SOCIALE V.S.
La circostanza non è rilevante ai presenti fini. Il ricorso principale pone la questione dell’assimilabilità dell’indennità di incentivo all’esodo, di cui ha beneficiato COGNOME R.R. RAGIONE_SOCIALE al trattamento di fine rapporto, ai fini dell’applicazione dell’art. 12-bis I. n. 898/1970. Ove pure si ritenesse che la nominata indennità sia soggetta alla richiamata disciplina normativa, andrebbe considerato che la revoca dell’assegno di divorzio opera ex nunc e non può dunque incidere sul pregresso positivo accertamento del diritto all’assegno (su cui è caduto il giudicato rebus sic stantibus) e sul correlato diritto alla quota del trattamento di fine rapporto (Cass. 19 febbraio 2021, n. 4499; cfr. pure: Cass. 9 marzo 2022, n. 7733; Cass. 8 agosto 2022, n. 24403); in conseguenza, la detta evenienza non potrebbe nemmeno vanificare il diritto alla quota dell’indennità di incentivo all’esodo che al detto trattamento fosse equi pa ra bile.
4. – Tanto premesso, occorre prendere le mosse dall’art. 12-bis I. n. 898 del 1970, aggiunto dall’art. 16, comma 1, della I. n. 74/1987, il quale prescrive, al primo comma, che il coniuge nei cui confronti sia stata pronunciata sentenza di scioglimento o di cessazione degli effetti civili del matrimonio ha diritto, se non passato a nuove nozze e in quanto sia titolare di assegno ai sensi dell’art. 5, ad una percentuale dell’indennità di fine rapporto percepita dall’altro coniuge all’atto della
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cessazione del rapporto di lavoro anche se l’indennità viene a maturare dopo la sentenza; il secondo comma dello stesso articolo precisa, poi, che tale percentuale è pari al quaranta per cento dell’indennità totale riferibile agli anni in cui il rapporto di lavoro è coinciso con il matrimonio.
La questione su cui vedono i due mezzi di censura della ricorrente principale si inscrive nel tema, più ampio, della delimitazione della fattispecie normativa di cui al cit. art. 12-bis, con particolare riguardo a quanto ne costituisce oggetto, e cioè l’indennità di fine rapporto erogata al coniuge obbligato alla corresponsione dell’assegno di divorzio: indennità che è riconosciuta all’altro coniuge nella misura sopra indicata.
Sulla concreta possibilità di far rientrare nella detta indennità il cosiddetto incentivo all’esodo – e cioè quella prestazione cui, in base a un intercorso accordo negoziale, è tenuto il datare di lavoro a fronte della disponibilità, manifestata dal lavoratore, di addivenire allo scioglimento anticipato del rapporto di prestazione d’opera l’ordinanza interlocutoria dà conto di un arresto della Sesta Sezione di questa Corte (Cass. 12 luglio 2016, n. 14171) che, nel dare risposta positiva al quesito, valorizza la circostanza per cui le somme corrisposte a tale titolo non avrebbero natura liberale né eccezionale, costituendo, piuttosto, reddito di lavoro dipendente (e ciò proprio in quanto predeterminate al fine di sollecitare e remunerare, mediante una vera e propria controprestazione, consistente nel consenso del lavoratore alla risoluzione anticipata del rapporto). A tale decisione, che trae ispirazione da quanto ripetutamente affermato dalla Quinta Sezione di questa Corte con riguardo al trattamento fiscale dell’incentivo all’esodo, l’ordinanza interlocutoria contrappone una non recente pronuncia della Prima Sezione, secondo cui l’indennità di cui è menzione nell’art. 12-bis riguarda unicamente quell’indennità, comunque denominata, che, maturando alla cessazione del rapporto di lavoro, è determinata in proporzione della durata del rapporto medesimo e dell’entità della
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retribuzione corrisposta al lavoratore: connotazione – questa – non presente nell’incentivo all’anticipato collocamento in quiescenza (Cass. 17 aprile 1997, n. 3294).
5. – La modalità di calcolo del trattamento di fine rapporto introdotta dal testo novellato dell’art. 2120 c.c. (ex art. 1 I. 297/1982), la quale è basata non più sull’ultima retribuzione del prestatore, ma sui compensi a questo tempo per tempo erogati e periodicamente rivalutati, consente di affermare che il trattamento in questione costituisce un compenso oramai ancorato allo sviluppo economico che ha avuto la carriera del lavoratore. Al trattamento di fine rapporto è così comunemente riconosciuta la natura di retribuzione differita; qualificazioni in passato associate alla vecchia indennità di anzianità – come quella di prestazione previdenziale, o di premio di fedeltà – hanno perduto ogni attualità: la stessa giurisprudenza di legittimità è ferma, oggi, nell’annettere al trattamento di fine rapporto carattere retributivo e sinallagmatico e nel definire, appunto, lo stesso come istituto di retribuzione differita (per tutte: Cass. 8 gennaio 2016, n. 164; Cass. 14 maggio 2013, n. 11479).
In dottrina si è sottolineato come proprio questa connotazione esclusivamente retributiva del trattamento di fine rapporto possa aver indotto il legislatore all’introduzione della disciplina dell’art. 12-bis. In effetti, una volta che si individui nel trattamento di fine rapporto una retribuzione del prestatore d’opera che matura nel corso dell’esecuzione del contratto lavoro – ma che diviene esigibile solo alla cessazione di questo -, riesce difficile giustificare la mancata attribuzione di una quota di tale retribuzione al coniuge che abbia diritto all’assegno di divorzio.
Il fondamento del diritto in questione è, del resto, lo stesso che su cui poggia il riconoscimento dell’assegno divorzile: l’attribuzione patrimoniale risponde, cioè, alle medesime finalità, assistenziale e perequativo-compensativa, cui obbedisce, secondo il noto arresto di
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queste Sezioni Unite (Cass. Sez. U. 11 luglio 2018, n. 18287), l’assegno in questione. Secondo la detta pronuncia «la funzione assistenziale dell’assegno di divorzio si compone di un contenuto perequativocompensativo che discende direttamente dalla declinazione costituzionale del principio di solidarietà e che conduce al riconoscimento di un contributo che, partendo dalla comparazione delle condizioni economico-patrimoniali dei due coniugi, deve tener conto non soltanto del raggiungimento di un grado di autonomia economica tale da garantire l’autosufficienza, secondo un parametro astratto ma, in concreto, di un livello reddituale adeguato al contributo fornito nella realizzazione della vita familiare, in particolare tenendo conto delle aspettative professionali ed economiche eventualmente sacrificate, in considerazione della durata del matrimonio e dell’età del richiedente»: in presenza di una condizione di squilibrio economico patrimoniale da ricondurre al sacrificio di aspettative professionali e reddituali basate sull’assunzione di un ruolo all’interno della famiglia e dal conseguente contribuito fattivo alla formazione del patrimonio comune e a quello dell’altro coniuge, «occorre tenere conto di questa caratteristica della vita familiare nella valutazione dell’inadeguatezza dei mezzi e dell’incapacità del coniuge richiedente di procurarseli per ragioni oggettive» (sent. cit., in motivazione, par. 10).
Già i lavori parlamentari della I. n. 74/1987 attestano il concorrere, nella misura contemplata dall’art. 12 -bis I. n. 898 del 1970, di una dimensione solidaristica, del tutto coerente con le richiamate finalità, assistenziale e perequativo-compensativa dell’erogazione. Si legge, infatti, nella relazione della Commissione giustizia, che assicurare al coniuge, titolare dell’assegno di mantenimento, una percentuale dell’indennità di fine rapporto percepita dall’altro coniuge dopo la sentenza di divorzio pare «adeguato al rispetto della solidarietà economica che si instaura tra i coniugi durante la convivenza e rispondente alla stessa natura giuridica dell’indennità di liquidazione
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percepita a seguito della cessazione di un rapporto di lavoro».
Per parte sua, la dottrina ha avuto modo di sottolineare come all’istituto di cui all’art. 12-bis sia riconducibile un elemento assistenziale, specificamente operante nei confronti del consorte economicamente più debole, e un elemento compensativo, ravvisabile nel collegamento tra la partecipazione all’indennità di fine rapporto e il contributo personale ed economico offerto da ognuno dei coniugi alla formazione del patrimonio di ciascuno e alla formazione del patrimonio di entrambi. Tale contributo spiegherebbe, in particolare, l’aspettativa maturata nei confronti degli accantonamenti e delle trattenute obbligatorie operate sulla retribuzione durante il matrimonio e successivamente percepite, sotto forma di indennità di fine rapporto, dal coniuge il cui rapporto di lavoro sia venuto a cessare (tale essendo il momento in cui il relativo diritto giunge a maturazione).
E’ da aggiungere che la Corte costituzionale, chiamata a pronunciarsi sulla conformità della norma di cui all’art. 12-bis I. n. 898 del 1970 alla Carta fondamentale – nella parte in cui la prima, nel fissare l’attribuzione dell’indennità in una misura percentuale fissa e rapportata anche al periodo successivo alla cessazione della convivenza, parrebbe generare un’ingiustificata parificazione di situazioni tra loro molto diverse quanto a durata della convivenza e del periodo di separazione -, ha avuto modo di rilevare che la componente compensativa dell’assegno poggi sulla «considerazione della particolare condizione della donna, che deve assumere su di sé oneri rilevanti in ordine all’assolvimento di compiti di natura domestica e familiare in sostituzione o in aggiunta al lavoro extradomestico, e del pregiudizio che ne consegue rispetto a prospettive di autonomia economica e di affermazione professionale», cogliendosi, in ciò, «il riflesso delle crescenti difficoltà di organizzazione della vita quotidiana e familiare, dei problemi connessi agli oneri del doppio lavoro e della discriminazione di fatto della donna sul terreno professionale: onde una
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più appropriata considerazione dei vantaggi e delle utilità economiche che l’altro coniuge trae dall’impegno e dalle energie profuse dalla donna nella famiglia» (Corte cost. 24 gennaio 1991, n. 24, in motivazione, par. 4 del considerato in diritto).
Sulla medesima linea si è attestata la giurisprudenza di questa Corte, la quale, facendo propri i contributi della dottrina e gli approdi della Corte costituzionale, ha avuto modo di osservare come, in definitiva, la ratio dell’art. 12 -bis della I. n. 898 del 1970 debba individuarsi nel «fine di attuare una partecipazione, seppure posticipata, alle fortune economiche costruite insieme dai coniugi finché il matrimonio è durato, ovvero di realizzare la ripartizione tra i coniugi di un’entità economica maturata nel corso del rapporto di lavoro e del matrimonio, così soddisfacendo esigenze (non solo di natura assistenziale, evidenziate dal richiamo alla spettanza dell’assegno di divorzio, ma) anche di natura compensativa, rapportate cioè al contributo personale ed economico dato dall’ex coniuge alla formazione del patrimonio di ciascuno e di quello comune» (così Cass. 30 dicembre 2005, n. 28874, in motivazione, ove il richiamo a Cass. 17 dicembre 2003, n. 19309).
6. – Questa funzione compensativa, destinata a combinarsi, nell’istituto modellato dall’art. 12 -bis, con quella assistenziale, si identifica con la funzione perequativo-compensativa, di cui fa appunto parola, in tema di assegno divorzile, Cass. Sez. U. 11 luglio 2018, n. 18287: espressione – quest’ultima – rispondente all’esigenza di meglio descrivere l’elemento di riequilibrio verso cui è proiettata l’attribuzione patrimoniale di portata compensativa, la quale, nella logica della richiamata pronuncia, è appunto deputata a porre rimedio a quella disparità delle condizioni economico-patrimoniali che discende dalle comuni determinazioni assunte dai coniugi nella conduzione della vita familiare.
Sarebbe ben difficile dissociare le nominate funzioni –
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assistenziale e perequativa-compensativa – dell’assegno di divorzio dalle funzioni cui deve assolvere la quota dell’indennità di cui all’art. 12bis.
E’ sufficiente guardare al disegno legislativo: questo, assegnando sic et simpliciter la quota di indennità al coniuge, non passato a nuove nozze, che sia già titolare dell’assegno di divorzio, si basa su di un chiaro presupposto: quello per cui le due attribuzioni patrimoniali sono dirette al conseguimento dei medesimi risultati. Diversamente, l’automatismo contemplato dall’art. 12 -bis non avrebbe ragion d’essere e la norma avrebbe previsto un nuovo apprezzamento di merito da parte del giudice chiamato a pronunciarsi sulla spettanza dell’indennità.
Da un diverso angolo prospettico è possibile cogliere un dato ulteriore, che conferma quanto si è appena osservato. In una situazione segnata dallo squilibrio determinato dal sacrificio delle ragionevoli aspettative economiche che è alla base del riconoscimento del diritto all’assegno divorzile appare pienamente giustificato tener conto anche di quella porzione reddituale maturata nel corso del rapporto e accantonata periodicamente per divenire esigibile al momento della cessazione dello stesso, giacché essa pure integra un incremento conseguito attraverso il contributo prestato dal coniuge che ha sopportato il detto sacrificio. Ove quella retribuzione differita restasse a totale beneficio del soggetto cui è erogata, il rischio di uno sbilanciamento ingiustificato tra le posizioni patrimoniali dei coniugi si riproporrebbe proprio con riguardo all’incremento reddituale in questione, il quale è maturato in costanza del matrimonio ed è divenuto esigibile solo dopo lo scioglimento di esso. Ebbene, il legislatore pone rimedio a tale inconveniente, riconoscendo al consorte che ha diritto all’assegno di divorzio la spettanza di una quota fissa dell’indennità consistente nella nominata retribuzione differita; ed è significativo, in proposito, che tale quota incida sull’indennità totale limitatamente «agli anni in cui il rapporto di lavoro è coinciso con il matrimonio»: al periodo,
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cioè, in cui la retribuzione del soggetto tenuto al pagamento dell’assegno ha «concorso» a determinare lo squilibrio postmatrimoniale.
Sull’argomento coglie dunque nel segno il rilievo del Pubblico Ministero, secondo cui il trattamento di fine rapporto è un indice del livello reddituale raggiunto dall’ex coniuge sicché, ove tale livello reddituale dipenda anche dal sacrificio individuale dell’altro coniuge, non vi sarebbe ragione di non considerarlo quale fonte di una provvidenza a favore di quest’ultimo.
– Quanto osservato in ordine alla funzione della quota dell’indennità si riflette sull’individuazione delle attribuzioni patrimoniali suscettibili di essere ricomprese nella fattispecie normativa.
Non sfuggirà che l’art. 12-bis menziona l’indennità di fine rapporto, onde il diritto riconosciuto non ha un oggetto perfettamente sovrapponibile al trattamento di fine rapporto di cui all’art. 2120 c.c..
La formulazione della norma riflette la scelta del legislatore di non riservare la disciplina dell’art. 12-bis alla sola ipotesi della percezione del trattamento di cui al cit. art. 2120. Al contempo, il fatto che l’indennità in questione sia definita attraverso lo stesso elemento predicativo che connota, sul piano lessicale, il trattamento di fine rapporto lascia intendere che la norma non si riferisca a tutte le prestazioni cui il lavoratore ha diritto in dipendenza della cessazione del contratto, ma solo a quelle che obbediscono alla logica cui risponde il trattamento di fine rapporto. Cospira al medesimo risultato la composita funzione dell’attribuzione patrimoniale, insieme assistenziale e perequativo-compensativa, dell’indennità stessa: rispetto alla finalità di porre rimedio a quello sbilanciamento delle situazioni economiche dei coniugi che è stato determinato dalla ripartizione dei ruoli all’interno della vita familiare è del tutto coerente uno strumento che operi la ridistribuzione di una parte dei redditi maturati nel corso del rapporto matrimoniale (come le quote di corrispettivo oggetto di
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accantonamento, divenute esigibili nel momento in cui il contratto di lavoro viene ad estinguersi): non anche ogni diversa misura priva di correlazione con la pregressa vita coniugale, e destinata a beneficiare il lavoratore nel periodo che segue lo scioglimento del vincolo.
In tal senso, questa Corte ha avuto modo di condividere il convincimento dottrinale secondo cui l’istituto di cui all’art. 12-bis I. n. 898 del 1970 si applica a tutte quelle indennità, comunque denominate, che maturano alla data di cessazione del rapporto lavorativo e che sono determinate in misura proporzionale alla durata del rapporto di lavoro e all’entità della retribuzione corrisposta, qualificandosi come quota differita della retribuzione condizionata sospensivamente nella riscossione dalla risoluzione del rapporto di lavoro (Cass. 17 dicembre 2003, n. 19309, cit.; cfr. pure Cass. 11 aprile 2003, n. 5720, secondo cui la quota dell’indennità di fine rapporto ha per l’appunto riguardo a quella parte della retribuzione, destinata al sostegno del nucleo durante la convivenza dei coniugi, percepita in forma differita). Come chiarito dalla stessa giurisprudenza di legittimità, al fine di stabilire se un determinata attribuzione in favore del lavoratore rientri o meno fra le indennità di fine rapporto contemplate dall’art. 12-bis, cit. non è nemmeno determinante il carattere strettamente o prevalentemente retributivo della stessa, essendo decisivo, piuttosto, il correlarsi dell’attribuzione – fermi, ovviamente, gli altri presupposti stabiliti dalla legge – all’incremento patrimoniale prodotto, nel corso del rapporto, dal lavoro del coniuge che si è giovato del contributo indiretto dell’altro (Cass. 30 dicembre 2005, n. 28874, cit., con cui si è ritenuto che la norma più volte citata ricomprenda le indennità di risoluzione del rapporto di agenzia, senza che rilevi la circostanza che le stesse siano parametrate all’incremento del monte-premi, agli incassi e alle provvigioni e che non abbiano carattere prevalentemente retributivo). 8. – Il criterio sopra indicato opera come spartiacque tra ciò che il coniuge beneficiario dell’assegno di divorzio può pretendere e ciò che Sez. U RG 13793/2020 udienza pubblica 5.12.2023 RAGIONE_SOCIALE 14 Firmato Da COGNOME NOME Emesso Da: RAGIONE_SOCIALE 3 Seria l#: 77354c8504c6618aa48da968 29b07616 Corte di Cassazione – copia non ufficiale
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lo stesso non può, invece, esigere, a mente dell’art. 12-bis I. n. 898/1970.
E così, sono da ritenere incluse nella richiamata disciplina le indennità di fine rapporto spettanti ai dipendenti pubblici che pure consistono in quote differite della retribuzione, suscettibili di esazione dopo l’estinzione del rapporto di lavoro (cfr. infatti la cit. Cass. 1 dicembre 2003, n. 19309, con riguardo all’«indennità premio di servizio» erogata, in passato, dall’RAGIONE_SOCIALE) e le indennità, egualmente concepite, riferite ai rapporti di lavoro parasubordinato (cfr. la cit. Cass. 30 dicembre 2005, n. 28874).
Vi esulano, invece, le prestazioni private di natura previdenziale e assicurativa, come l’indennità di cessazione dal servizio corrisposta ai notai (Cass. 11 aprile 2003, n. 5720, cit.), l’indennità da mancato preavviso per licenziamento in tronco e l’indennità percepita a titolo di risarcimento del danno per illegittimo licenziamento, le quali hanno ad oggetto il ristoro di un danno le cui conseguenze si sviluppano de futuro, mentre l’indennità di fine rapporto opera de praeterito, rappresentando parte della retribuzione dovuta al lavoratore (così, ancora, Cass. 17 dicembre 2003, n. 19309, cit., in motivazione: la sentenza pare evocare sul punto un arresto della giurisprudenza di merito riferita al risarcimento del danno percepito dal lavoratore per l’illegittimo licenziamento).
E’ evidentemente estranea all’indicata nozione di indennità di fine rapporto anche l’indennità di incentivo all’esodo. Come è stato condivisibilmente osservato (Cass. 17 aprile 1997, n. 3294, cit., in motivazione), tale indennità non opera quale retribuzione differita, sicché è da escludere la conseguente necessità di farne partecipe il coniuge che di tale retribuzione ha già fruito sotto forma di assegno divorzile. In effetti, tale indennità non si raccorda ad entità economiche maturate nel corso del rapporto di lavoro, onde non trova fondamento giustificativo l’apprensione di una quota di essa da parte del coniuge
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che ha diritto alla percezione dell’assegno di divorzio: l’esigenza di assicurare, in chiave assistenziale e perequativo-compensativa, una ripartizione dei redditi maturati nel corso del matrimonio qui non ricorre, proprio in quanto non si è in presenza di proventi accantonati nel corso della vita coniugale e divenuti esigibili al cessare del rapporto lavorativo; si è piuttosto al cospetto di un’attribuzione patrimoniale discendente da un sopravvenuto accordo con cui si remunera il coniuge lavoratore per il prestato consenso all’anticipato scioglimento del rapporto di lavoro.
– In definitiva, la spettanza, al coniuge divorziato, della quota del 40% dell’indennità in questione non ha mai modo di configurarsi.
Ove, infatti, l’accordo avente ad oggetto l’incentivo all’esodo intervenga, o sia destinato comunque ad avere effetto, nel corso del matrimonio e prima della proposizione della domanda di divorzio, il diritto alla detta quota andrebbe escluso se pure si equiparasse l’incentivo stesso all’indennità di fine rapporto: e ciò in quanto l’art. 12 bis della I. n. 898 del 1970, nella parte in cui stabilisce, in favore del coniuge titolare dell’assegno divorzile, il diritto ad una quota dell’indennità di fine rapporto percepita dall’altro coniuge, «anche se l’indennità viene a maturare dopo la sentenza», deve essere interpretato nel senso che il diritto alla quota sorge soltanto se l’indennità spettante all’altro coniuge venga a maturare al momento della proposizione della domanda introduttiva del giudizio di divorzio o successivamente ad essa (Cass. 16 dicembre 2010, n. 25520; Cass. 10 novembre 2006, n. 24057; Cass. 8 ottobre 2003, n. 14997; Cass. 7 giugno 1999, n. 5553). Ove, poi, il diritto all’incentivo all’esodo maturi dopo la proposizione della domanda giudiziale di divorzio, non competerà, del pari, alcunché per tale titolo all’avente diritto all’assegno, giacché l’indennità in questione è destinata ad operare non già de praeterito (con riferimento a compensi già spettanti al lavoratore, e non ancora esigibili), ma de futuro. In quest’ultima ipotesi si potrebbe
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dibattere di altro: e cioè del rilievo che, volta per volta, venga concretamente ad assumere l’indennità erogata nel quadro dell’accertamento giudiziale finalizzato a quantificare l’assegno divorzile, o ai fini del giudizio revisionale contemplato dall’art. 9, comma 1, I. n. 898 del 1970. Ma nella presente sede non si impone, al riguardo, alcun approfondimento, dal momento che la detta questione è estranea al ricorso per cassazione.
10. – A fronte delle considerazioni che precedono non paiono persuasivi i rilievi formulati da Cass. 12 luglio 2016, n. 14171.
Tale pronuncia, come accennato, argomenta dalla natura che riveste l’incentivo all’esodo secondo la giurisprudenza tributaria.
In base all’art. 49, comma 1, t.u.i.r. (norma, questa, che viene qui richiamata – come le altre di seguito menzionate – avendo riguardo alla versione applicabile ratione temporis alla fattispecie per cui è causa), sono redditi di lavoro dipendente «quelli che derivano da rapporti aventi per oggetto la prestazione di lavoro, con qualsiasi qualifica, alle dipendenze e sotto la direzione di altri, compreso il lavoro a domicilio quando è considerato lavoro dipendente secondo le norme della legislazione sul lavoro».
Il primo comma dell’art. 51 t.u.i.r. dispone, poi, che il reddito di lavoro dipendente è costituito «da tutte le somme e i valori in genere, a qualunque titolo percepiti nel periodo d’imposta, anche sotto forma di erogazioni liberali, in relazione al rapporto di lavoro».
Avendo riguardo alla precedente versione della norma, l’art. 48 t.u.i.r. (sostituito dall’art. 51 ad opera del d.lgs. n. 344/200 qualificava reddito di lavoro dipendente quello costituito da tutti i compensi in denaro o in natura percepiti «in dipendenza del rapporto di lavoro, comprese le somme percepite a titolo di rimborso di spese inerenti alla produzione del reddito e le erogazioni liberali» e questa Corte regolatrice aveva precisato, fin dal 2000, che le somme erogate dal datore di lavoro al dipendente a titolo di integrazione del
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trattamento di fine rapporto, siccome percepite «in dipendenza» del rapporto di lavoro, sono soggette ad IRPEF: tra esse si è ritenuto rientrare anche l’emolumento costituente incentivo alle dimissioni volontarie (Cass. 5 gennaio 2000, n. 51).
D’altro canto, l’art. 17 (già art. 16), comma 1, lett. a), t.u.i. dispone che sono soggetti a tassazione separata il trattamento di fine rapporto di cui all’art. 2120 c.c., le indennità equipollenti, comunque denominate, commisurate alla durata dei rapporti di lavoro dipendente e le «altre indennità e somme percepite una volta tanto in dipendenza della cessazione dei predetti rapporti, comprese l’indennità di preavviso». In proposito, la Corte di legittimità, dopo aver rilevato che le somme corrisposte dal datore di lavoro, in aggiunta alle spettanze di fine rapporto, come incentivo alle dimissioni anticipate del dipendente, costituiscono reddito di lavoro dipendente, essendo predeterminate al fine di remunerare il consenso del lavoratore alla risoluzione anticipata del rapporto, in funzione del ristoro di un lucro cessante, ha osservato che le stesse sono assoggettate alla tassazione separata alla stregua delle «altre indennità e somme» di cui all’art. 16 (poi art. 17), primo comma, lett. a), del t.u.i.r., percepite una tantum in dipendenza della cessazione del rapporto di lavoro (Cass. 31 maggio 2013, n. 13777).
Insomma, ai fini della individuazione della corretta imposizione, l’incentivo all’esodo ha sicuramente la natura di corrispettivo versato al prestatore di lavoro in cambio del suo consenso alla cessazione anticipata del rapporto di lavoro e si risolve in una remunerazione erogata in dipendenza del rapporto di lavoro; ragion per cui le somme a tale titolo corrisposte devono essere assoggettate a tassazione (separata), al ricorrere dei presupposti convenzionali (Cass. 24 agosto 2022, n. 25193; sulla stessa linea: Cass. 26 febbraio 2019, n. 5545; Cass. 24 luglio 2013, n. 17986; Cass. 27 giugno 2007, n. 14821).
Ciò non significa, però, che l’art. 12-bis I. n. 898 del 1970 assimili l’incentivo all’esodo all’indennità di fine rapporto ivi prevista. Una
Sez. U RG 13793/2020 udienza pubblica 5.12.2023
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indennità corrisposta in dipendenza della cessazione del rapporto di prestazione d’opera può essere soggetta a tassazione, quale corrispettivo della rinuncia alla conservazione del posto di lavoro e, allo stesso tempo, non presentare le connotazioni che la norma sopra indicata richiede.
In altri termini, il regime fiscale dell’indennità in parola non interferisce con la qualificazione della stessa sul piano civilistico. Quel che rileva, ai fini dell’inapplicabilità della disciplina della misura di cu all’art. 12-bis all’incentivo all’esodo è che l’indennità in questione non possa annoverarsi tra quelle che maturano alla data di cessazione del rapporto lavorativo e che sono determinate in misura proporzionale sia alla durata del rapporto di lavoro, che all’entità della retribuzione corrisposta. Rispetto a tale dato la disciplina fiscale dell’indennità rappresenta un elemento giuridicamente neutro.
11. – Oltretutto, nell’economia di un’indagine sul portato dell’art. 12-bis I. n. 898 del 1970 (un’indagine diretta a individuare le erogazioni rientranti nella fattispecie «indennità di fine rapporto» ivi rappresentata), l’enfatizzazione degli arresti della giurisprudenza tributaria in tema di incentivo all’esodo esprime l’opzione per un percorso ermeneutico che non trova giustificazione sul piano dei principi. Seguendo tale percorso si viene infatti a sottostimare l’importanza di un’interpretazione che sia orientata a valorizzare, in consonanza con l’art. 12 preleggi, la lettera e la ratio della norma – e cioè il significato manifestato dalle parole impiegate dal legislatore e l’interesse specifico tutelato dalla disposizione di legge -, conferendo rilievo assorbente a una disciplina, quella fiscale, che obbedisce a fini del tutto diversi. L’identificazione dell’interesse tutelato dalla norma da interpretare e la definizione del suo grado di tutela possono naturalmente esigere l’esame di altre norme dell’ordinamento che regolano quello stesso interesse o interessi che interagiscono con esso: tale è il senso dell’interpretazione sistematica, vale a dire d
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un’interpretazione funzionale che sia coerente col sistema della legge. E’ escluso, invece – perché ciò si tradurrebbe in una distorsione del portato precettivo del cit. art. 12 delle preleggi -, che la lettera della norma da interpretare e la ratio che questa è in grado autonomamente di esprimere possano essere trascurati in considerazione del significato da attribuire a disposizioni che perseguano interessi diversi e che si occupino, per altri scopi, del medesimo fatto o della medesima situazione giuridica presi in considerazione dalla suddetta norma.
I confini dell’interpretazione sistematica sono stati d’altro canto tracciati in passato da questa Corte, allorquando ha evidenziato che l’intenzione del legislatore va individuata avendo riguardo al testo della norma oggetto di specifico esame e, solo in via subordinata e complementare, in ciò che può genericamente desumersi dalle finalità ispiratrici di un più ampio complesso normativa in cui quel testo, insieme con altri, ma distintamente da essi, è inserito (Cass. 16 ottobre 1975, n. 3359, seguita da altre: cfr. ad es. Cass. 26 marzo 2009, n. 12905, non massiniata in CED, e Cass. 21 maggio 2004, n. 9700, altrimenti massimata, in motivazione): sicché, in definitiva, il declinare il processo ermeneutico muovendo dal dettato di norme diverse da quella da interpretare, piuttosto che dall’interpretazione letterale e logica di quest’ultima, rappresenta una vera e propria inversione di metodo (cfr., ancora, la cit. Cass. 16 ottobre 1975, n. 3359, in motivazione).
12. – I due motivi del ricorso principale vanno in conclusione rigettati in applicazione del seguente principio di diritto:
«La quota dell’indennità di fine rapporto spettante, ai sensi dell’art. 12-bis della I. n. 898 del 1970 n. 898, introdotto dall’art. 16 I. n. 74 del 1987, al coniuge titolare dall’assegno divorzile e non passato a nuove nozze, concerne non tutte le erogazioni corrisposte in occasione della cessazione del rapporto di lavoro, ma le sole indennità, comunque denominate, che, maturando in quel momento, sono determinate in
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proporzione della durata del rapporto medesimo e dell’entità della retribuzione corrisposta al lavoratore; tra esse non è pertanto riconnpresa l’indennità di incentivo all’esodo con cui è regolata la risoluzione anticipata del rapporto di lavoro».
– Il ricorso incidentale, in quanto condizionato, resta assorbito.
– Poiché la presente pronuncia è resa su di un contrasto di giurisprudenza, risulta giustificata la compensazione integrale delle spese del giudizio di legittimità.
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso principale; dichiara assorbito quello incidentale condizionato; compensa le spese del giudizio di legittimità; ai sensi dell’art. 13, comma 1 quater, del d.P.R. n. 115 del 2002, inserito dall’art. 1, comma 17, della I. n. 228 del 2012, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte della ricorrente principale, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello stabilito per il ricorso, se dovuto; ai sensi dell’art. 52 d.lgs. n. 196 d 2003, dispone che in caso di diffusione del presente provvedimento siano omessi le generalità e gli altri dati identificativi delle parti.
Così deciso in Roma, nella camera di consiglio delle Sezioni Unite civili, in data 5 dicembre 2023.