Ordinanza di Cassazione Civile Sez. L Num. 1993 Anno 2024
Civile Ord. Sez. L Num. 1993 Anno 2024
Presidente: COGNOME NOME
Relatore: COGNOME NOME
Data pubblicazione: 18/01/2024
ORDINANZA
sul ricorso 20497-2018 proposto da:
NOME COGNOME NOME, domiciliato in ROMA INDIRIZZO presso LA CANCELLERIA DELLA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE, rappresentato e difeso dall’avvocato COGNOME;
– ricorrente –
contro
REGIONE CALABRIA, in persona del Presidente legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, INDIRIZZO, presso lo studio dell’avvocato COGNOME, rappresentata e difesa dall’avvocato COGNOME COGNOME;
– controricorrente –
Oggetto
Retribuzione pubblico impiego
R.G.N. 20497/2018
COGNOME.
Rep.
Ud. 20/12/2023
CC
avverso la sentenza n. 1081/2017 della CORTE D’APPELLO di CATANZARO, depositata il 27/03/2018 R.G.N. 1488/2014; udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del 20/12/2023 dal AVV_NOTAIO.
Rilevato che:
NOME COGNOME, dipendente della Regione Calabria, si è avvalso della facoltà di risolvere il rapporto di lavoro usufruendo del cosiddetto esodo anticipato, previsto e disciplinato dall’art. 7, della L. Regione Calabria 2 marzo 2005, n. 8, con diritto a percepire le indennità previste dalla medesima legge. La Regione Calabria non ha corrisposto al COGNOME le indennità nella misura richiesta, sostenendo la violazione da parte del dipendente dell’obbligo assunto con la sottoscrizione del contratto di risoluzione consensuale di non instaurare rapporti di lavoro con la Regione o con enti strumentali da essa dipendenti nei cinque anni successivi, in forza del comma 8 dell’art. 7 legge reg. cit.;
il dipendente aveva quindi adito, una prima volta, in INDIRIZZO, il Tribunale di Lamezia Terme rivendicando varie somme a titolo di incentivo all’esodo ex legge reg. n. 8/2005, cit., e il suo ricorso era stato ritenuto infondato con pronuncia della Corte d’appello di Catanzaro n. 1254/2010 confermata in cassazione con sentenza n. 14322/2016;
il dipendente aveva poi agito, una seconda volta, dinanzi al Tribunale di Catanzaro, formulando una richiesta di pagamento dell’indennità di esodo ex lege reg. n. 8/2005 nella misura risultante
dall’inserimento nella base di calcolo anche della 13^ mensilità; costituendosi in resistenza, la Regione aveva presentato una domanda riconvenzionale per la pronuncia di decadenza dai benefici di cui alla legge reg. n. 8/2005 e per la restituzione dell’indebito, oltre accessori;
il Tribunale di Catanzaro rigettava la riconvenzionale e accoglieva il ricorso del COGNOME, condannando la Regione al pagamento in suo favore della somma di €. 5.136,24 , ma la Corte di appello riformava tale statuizione, rigettando, da un lato, l’originaria domanda del lavoratore e, dall’altro, accogliendo la riconvenzionale della Regione ed ordinando la restituzione della somma di €. 86.004,59 indebitamente percepita;
la Corte territoriale premetteva che la domanda proposta dal COGNOME ‘in questo giudizio’ era ‘su una questione diversa’ rispetto a quella oggetto del giudizio precedente, ma affermava che il tema della violazione del divieto di cui al comma 8 dell’art. 7 della legge reg. n. 5/2005, costituente l’oggetto principale del precedente giudizio chiusosi con la sentenza di legittimità n. 14322/2016, cit., era stato legittimamente riproposto con la riconvenzionale della Regione;
la Corte di merito riteneva che il divieto assoluto di instaurare rapporti «con la Regione e con gli enti strumentali da essa dipendenti», previsto dall’art. 7, comma 8, legge reg. n. 8/2005 riguardava entrambi gli incentivi, e quindi sia l’indennità suppl ementare pari a 8 mensilità della retribuzione di cui al comma 1, sia il beneficio pari a 4 mensilità per ogni anno mancante per maturare il diritto alla pensione di cui al comma 4, stesso articolo;
ferma la natura di ente strumentale della RAGIONE_SOCIALE come riconosciuta nel primo giudizio fra le parti, la violazione, da parte del COGNOME, dell’obbligo sopra richiamato aveva impedito il sorgere del
diritto all’indennità e reso fondata la pretesa della Regione di ripetere le somme de quibus ;
contro
la sentenza NOME COGNOME propone ricorso per cassazione fondato su tre motivi, ai quali resiste con controricorso la Regione Calabria.
Considerato che:
con il primo motivo il ricorrente denuncia ex art. 360 n. 3 cod. proc. civ. la violazione e falsa applicazione dell’art. 7 legge reg. n. 8/2005 e dei criteri applicativi dettati dalla delibera della G.R. n. 532/2005, nonché violazione dei canoni di ermeneutica degli artt. 1362 e 1363 cod. civ., assumendosi l’insussistenza di una ipotesi di eccezione di inadempimento di cui all’art. 1460 cod. civ., in mancanza di un’espressa previsione contrattuale ed alla luce del tenore letterale della clausola; il comma 8 dell’art. 7, nel prevedere il divieto di instaurare rapporti professionali e non di lavoro subordinato, lo circoscriveva «ai soggetti che si sono avvalsi del beneficio di cui al presente articolo», non estendendolo anche a coloro che avevano percepito l’i ndennità di cui al comma 1, ed escludeva sanzioni specifiche, salvo che per il dirigente regionale che avesse cagionato danno erariale con «la sottoscrizione del nuovo accordo, contratto o convenzione»;
il motivo è infondato;
l’art. 7 della L. Reg. Calabria 2 marzo 2005, n. 8, ha previsto (comma 1) che «ai dirigenti titolari di rapporto di impiego a tempo indeterminato che prestino la loro attività per l’amministrazione regionale da almeno due anni e che, entro novanta giorni dalla data di entrata in vigore della presente legge, presentino alla Regione proposta per la risoluzione del rapporto di lavoro viene erogata,
subordinatamente all’accettazione della proposta medesima da parte dell’Ente, una indennità supplementare pari a otto mensilità della retribuzione lorda spettante alla data della predetta risoluzione, per ogni anno derivante dalla differenza fra 65 anni e l’età anagrafica individuale, espressa in anni, posseduta alla data di cessazione del rapporto di lavoro, calcolati per un massimo di sei anni». Tale facoltà è stata estesa anche agli altri dipendenti dal comma 6 dell’art. 7. Nello stesso art. 7 si dà atto, al comma 1, che l’esodo anticipato è stato previsto «al fine di realizzare il necessario contenimento della spesa corrente e per accelerare il processo di riorganizzazione dell’Amministrazione regionale, anche a seguito del trasferimento di funzioni e compiti in attuazione delle leggi 15 marzo 1997, n. 59 e 15 maggio 1997, n. 127». Il comma 8 ha altresì stabilito che i posti resisi vacanti a seguito dell’applicazione della medesima legge, dovessero essere «portati in diminuzione della dotazione organica in misura non inferiore al 50 per cento»;
è stato poi previsto, per i soggetti che si sono avvalsi del ‘beneficio di cui al presente articolo’ (comma 8), e dunque sia di quello di cui al comma 1 sia di quello di cui al comma 4, il «divieto assoluto di instaurare rapporti professionali, a qualunque titolo, con la Regione e con gli Enti strumentali da essa dipendenti per i cinque anni successivi alla cessazione del servizio»;
al riguardo, un’esegesi della norma che miri – come propugna la difesa del ricorrente – a circoscrivere il divieto del comma 8, articolo 7, legge reg. cit., ponendolo in correlazione al solo beneficio di cui al comma 4, si appalesa in contrasto con la formulazione letterale del comma 3, che parla di ‘beneficio’ anche per l’ indennità supplementare del comma 1 (« che intendono avvalersi del beneficio di cui al comma 1 nella proposta di risoluzione del rapporto di lavoro prevista dal medesimo
comma»), nonché dall’inequivoco tenore letterale del comma 8, articolo 7, cit., che, nello stabilire il divieto assoluto di instaurare rapporti professionali, fa (appunto) rinvio, indistintamente, «Ai soggetti che si sono avvalsi del beneficio di cui al presente articolo»;
né varrebbe rilevare che, nel contratto di risoluzione consensuale del rapporto di lavoro, il divieto di instaurare rapporti con la Regione o con i suoi enti strumentali è stato formulato nei termini di una mera presa d’atto e non di una volontà di assumere un’obbligazione («… dichiara altresì di essere a conoscenza che non potrà instaurare con l’Amministrazione Regionale e con gli Enti strumentali da essa dipendenti, incarichi professionali a qualunque titolo …»). Tale formula, lungi dall’escludere una str etta relazione tra il diritto all’indennità aggiuntiva e il divieto di instaurare rapporti, sottolinea solo che quest’ultimo origina dalla stessa legge, prima ancora di essere sancito e ribadito nel contratto. In altri termini, al divieto posto a carico del lavoratore corrisponde, in capo alla Regione, tanto il diritto contrattuale di rifiutare il pagamento dell’indennità, opponendo l’eccezione di inadempimento, quanto un obbligo legale di non versare al lavoratore un incentivo che verrebbe percepito in violazione di legge;
correttamente, pertanto, la sentenza impugnata ha ritenuto coessenziale alla causa del negozio risolutivo del rapporto di lavoro e dell’erogazione del trattamento incentivante, il divieto, posto dall’art. 7, comma 8, legge reg. n. 8/2005, di instaurare rapporti professionali tra l’ex dipendente che si fosse avvalso dell’incentivazione all’esodo e la Regione o enti strumentali dalla stessa dipendenti, ed ha in tal guisa ritenuto legittimo il rifiuto della Regione di erogare l’incentivo in parola. In particolare, ha precisato che l’incentivo trova la sua
giustificazione causale nella definitiva cessazione del rapporto, sicché la violazione del divieto in questione renderebbe priva di causa l’erogazione del beneficio;
l’approdo cui perviene i l giudice d’appello si rivela in sintonia con i precedenti di questa Corte (Cass., Sez. L, 4 giugno 2018, n. 14147 e Cass., Sez. L, 13 luglio 2016, n. 14322) che hanno affrontato questione sostanzialmente analoga ed alle cui argomentazioni in questa sede si rinvia, anche ex art. 118 att. cod. proc. civ.;
si è sottolineata in tali precedenti la ratio della norma di cui all’art. 7 legge reg. n. 8/2005 che, nell’ottica del contenimento della spesa pubblica relativa al costo del personale perseguita dall’esodo anticipato, è volta a impedire che i vantaggi finanziari collegati all’esodo anticipato siano frustrati da una successiva riassunzione dei dipendenti o dall’instaurazione di rapporti professionali presso la stessa Regione o suoi enti strumentali, così convalidando il legame di interdipendenza tra le due prestazioni-indennità di incentivazione all’esodo, da un lato, l’obbligo di non instaurare rapporti professionali, dall’altro;
nella specie la Corte territoriale, nell’evidenziare il nesso di interdipendenza tra l’indennità incentivante e la cessazione definitiva del rapporto di lavoro, assicurata dal divieto di instaurarne uno nuovo con la stessa regione o con altro ente dalla stessa dipendente, ha ritenuto, in conclusione, priva di giustificazione causale l’erogazione dell’incentivo in mancanza di cessazione del rapporto di lavoro, essendo il COGNOME (invero) transitato, senza apprezzabile soluzione di continuità, alle dipendenze della RAGIONE_SOCIALE;
con il secondo mezzo si denuncia la violazione e falsa applicazione dell’art. 2033 cod. civ. e dell’art. 38 d.P.R. n. 602/1973 (art. 360 n. 3 cod. proc. civ.), per avere la Corte distrettuale condannato il ricorrente a
restituire non le somme ‘nette’ effettivamente percepite ma anche quelle versate all’Erario dalla Regione Calabria quale sostituto di imposta (a titolo di ritenute Irpef sulle stesse); in tali sensi la pronuncia andrebbe, a suo dire, quanto meno cassata, con decisione nel merito, limitando il dictum restitutorio alle sole somme (€. 65.363,49) al netto delle ritenute Irpef operate dal datore di lavoro;
12. il motivo è inammissibile;
13. con esso si introduce, infatti, una questione giuridica (che peraltro richiederebbe accertamenti di fatto preclusi in sede di legittimità) non oggetto di disamina da parte del giudice d’appello; e in tema di ricorso per cassazione, qualora siano prospettate questioni di cui non vi sia cenno nella sentenza impugnata, il ricorrente deve, a pena di inammissibilità della censura, non solo allegarne l’avvenuta loro deduzione dinanzi al giudice di merito ma, in virtù del principio di autosufficienza, anche indicare in quale specifico atto del giudizio precedente ciò sia avvenuto, giacché i motivi di ricorso devono investire questioni già comprese nel thema decidendum del giudizio di appello, essendo preclusa alle parti, in sede di legittimità, la prospettazione di questioni o temi di contestazione nuovi, non trattati nella fase di merito né rilevabili di ufficio (Cass. SU 06/07/2018, n. 19874; Cass. 09/08/2018, n. 20694; Cass. 24/01/2019, n. 2038); in quest’ottica, il ricorrente ha l’onere di riportare, a pena d’inammissibilità, dettagliatamente in ricorso gli esatti termini della questione posta in primo e secondo grado (Cass. n. 9765/05; Cass. n. 12025/00). Nel giudizio di cassazione, infatti, è preclusa alle parti la prospettazione di nuovi questioni di diritto o nuovi temi di contestazione che postulino indagini e accertamenti di fatto non
compiuti dal giudice di merito (Cass. 13.9.2007, n. 19164; Cass. 9.7.2013, n. 17041);
14. con il terzo, ed ultimo, motivo si deduce la violazione dell’art. 2909 cod. civ. e del principio del ne bis in idem nonché dell’art. 324 cod. proc. civ. (art. 360 n. 3 cod. proc. civ.), per avere la Corte di merito condannato il COGNOME a restituire l’importo di €. 86.004,59 che comprendeva anche la somma di €. 5.700,59 già oggetto di restituzione con precedente sente nza della Corte d’appello di Catanzaro n. 1254/2010 confermata in cassazione (sent. n. 14322/2016, cit.), passata in giudicato; il ricorrente assume, in sostanza, che il dictum di condanna contenuto nella sentenza impugnata comprenderebbe anche «le somme di cui al precedente giudicato formatosi fra le parti» e che ciò si desumerebbe «dall’esame della comparsa di risposta con domanda riconvenzionale della Regione Calabria» e, per di più, dallo stesso «allegato n. 9 prodotto nel fascicolo di primo grado della Regione»;
il motivo è anch’esso inammissibile attesa la non deducibilità di questioni nuove in sede di giudizio di legittimità oltre che per le ulteriori ragioni indicate, in fattispecie analoga, da Cass., Sez. 3, n. 26812 del 12.9.2022;
è assorbente, infatti, l’applicazione del principio di diritto, enunciato dalle Sezioni Unite di questa Corte e ribadito da successive pronunce conformi, secondo cui, qualora il giudicato esterno si sia formato antecedentemente o nel corso del giudizio di appello e non sia stato eccepito in quella sede dalla parte interessata, la sentenza che abbia pronunciato in difformità rispetto a quel giudicato è impugnabile ai sensi dell’ art. 395, comma 1 n. 5, cod. proc. civ., secondo cui «le sentenze pronunciate in grado di appello o in unico grado possono essere impugnate per revocazione (…) se la sentenza è contraria ad altra
precedente avente fra le parti autorità di cosa giudicata, purché non abbia pronunciato sulla relativa eccezione», e non è dunque esperibile, rispetto ad essa, il ricorso per cassazione, consentito invece solo qualora il giudice del merito abbia pronunciato sull’eccezione di giudicato oppure nei casi in cui quest’ultimo si sia formato dopo la decisione (Cass., S.U., n. 21493 del 20/10/2010, in particolare al punto 2.1; Cass., Sez. 2, n. 155 dell’8 /01/2014; Cass., Sez. 5, n. 22506 del 04/11/2015; Cass., Sez. 5, n. 22177 del 03/11/2016; Cass., Sez. 5, n. 13987 del 23/05/2019; Cass., Sez. 5, n. 28733 del 04/10/2022);
16. nella specie, il giudicato sul quale il ricorrente fa leva risale ad epoca (i.e., data di pubblicazione di Cass., Sez. L, n. 14322 del 13/07/2016, cit., prodotta dalla Regione nel corso del giudizio d’appello all’udienza del 20/03/2017) antecedente alla definizione, in data 9.5.2017/27.3.2018, della fase di gravame e la relativa eccezione di giudicato esterno non era stata formulata -come si evince dalla lettura della sentenza impugnata in quella sede dalla difesa del COGNOME;
sicché il motivo di ricorso deve essere dichiarato inammissibile (v., in una fattispecie sostanzialmente analoga, da ultimo, Cass., Sez. L, n. 9561 del 07/04/2023, al punto 10 della motivazione, nonché Cass., Sez. U, n. 19129 del 06/07/2023, in particolare al punto 19 della motivazione) e ciò a parte ogni altra considerazione sul rispetto degli oneri formali imposti, a pena di inammissibilità, per la valida proposizione nel giudizio di cassazione della censura di violazione del giudicato esterno, oneri pure qui non compiutamente assolti;
17. conclusivamente, il ricorso deve essere rigettato, con condanna del ricorrente alla rifusione delle spese di legittimità, liquidate con il dispositivo che segue;
18. ricorrono i presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello, ove dovuto, previsto per il ricorso principale.
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso e condanna il ricorrente alla rifusione delle spese di legittimità sostenute ex adverso che liquida in €. 6.000,00 per compensi professionali ed €. 200,00 per esborsi, oltre rimborso spese generali al 15% ed accessori d legge.
Ai sensi dell’art. 13 comma 1 quater del d.P.R. n. 115 del 2002, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso principale, a norma del comma 1 bis dello stesso art. 13, se dovuto.
Così deciso in Roma nella camera di consiglio del 20/12/2023.