Ordinanza di Cassazione Civile Sez. 1 Num. 22158 Anno 2025
Civile Ord. Sez. 1 Num. 22158 Anno 2025
Presidente: COGNOME
Relatore: COGNOME
Data pubblicazione: 31/07/2025
ORDINANZA
Sul ricorso n. 00436/2024 R.G.
proposto da
COGNOME Vincenzo COGNOME rappresentato e difeso dall’avv. NOME COGNOME elettivamente domiciliato in Roma, INDIRIZZO scala INDIRIZZO, presso lo studio dell’avv. NOME COGNOME in virtù di procura speciale in atti;
ricorrente
contro
Comune di Montalbano Elicona , in persona del Sindaco pro tempore , rappresentato e difeso dall’ avv. NOME COGNOME in virtù di procura speciale in atti;
contro
ricorrente
avverso la sentenza n. 439/2023 del la Corte d’appello di Messina, pubblicata il 22/05/2023;
udita la relazione svolta nella camera di consiglio del 06/02/2025 dal Consigliere NOME COGNOME;
SVOLGIMENTO DEL PROCESSO
Con atto di citazione notificato il 25/07/2017 il Comune di Montalbano Elicona impugnava per nullità davanti alla Corte d’appello di Messina il lodo con il quale, pronunciandosi sulla vertenza promossa da NOME
NOME nei confronti del Comune, il Collegio arbitrale aveva: rigettato tutte le eccezioni preliminari sollevate dalle parti e, in particolare, quelle dedotte dal Comune; rigettato la domanda di parte attrice volta ad ottenere la risoluzione in danno del contratto per difetto di competenza del Collegio arbitrale a decidere su di essa; in accoglimento dei relativi ‘quesiti’ formulati da parte attrice, ha riconosciuto in favore dello I acopino il diritto al pagamento di spese e competenze professionali per l ‘attività espletata in relazione all’incarico di completamento della progettazione integrata e direzione dei lavori per il recupero e la valorizzazione del centro storico di Montalbano Elicona, III stralcio, di cui alle fatture prodotte in giudizio; condannato, per l’effetto, il C omune convenuto a corrispondere in favore dell’attore la complessiva somma di € 150.891,42, oltre interessi legali dalla data del deposito del lodo al soddisfo; ritenuto assorbiti i quesiti nn. 8 e 9 formulati da parte attrice, di richiesta di riconoscimento del maggior danno e di ingiustificato arricchimento; rigettato gli altri quesiti formulati dallo NOME; rigettato e/o dichiarato assorbite tutte le altre domande, deduzioni ed eccezioni delle parti; posto interamente a carico del Comune le spese di funzionamento del Collegio e i compensi dovuti agli Arbitri e al Segretario, liquidati con separata ordinanza; compensato per 1/3 tra le parti le spese del giudizio, ponendo i restanti 2/3 a carico del Comune, liquidate come in dispositivo.
Il Comune chiedeva che, in accoglimento dell’impugnazione, previa sospensione dell’efficacia esecutiva del lodo, ne fosse pronunciata la nullità, con conseguente dichiarazione di inammissibilità e infondatezza di tutte le domande avanzate dalla controparte, ovvero, in subordine, con la riduzione della somma oggetto di condanna e, in ogni caso, con attribuzione a carico dello Iacopino delle spese di funzionamento del Collegio arbitrale, dei compensi dello stesso e delle spese di giudizio, anche d’ impugnazione.
Instaurato il contraddittorio, NOME resisteva all’impugnazione mediante contestazione di tutti gli assunti di controparte ed eccependone in via preliminare l’inammissibilità , ai sensi e per gli effetti di cui a ll’art. 829, comma 3, c.p.c., nel testo applicabile ratione temporis, con vittoria di spese.
La Corte d’appello , con la sentenza in questa sede impugnata, accoglieva l’impugnazione, dichiarando la nullità del lodo per violazione delle regole di diritto relative al merito della controversia ex art. 829, comma 3, c.p.c., e, in via rescissoria, rigettava le domande avanzate dallo COGNOME con l’atto di accesso arbitrale , condannando quest’ultimo al rimborso, in favore del Comune, delle spese del giudizio arbitrale e al pagamento delle spese di funzionamento del Collegio arbitrale, fermo restando l’obbligo solidale di entrambe le parti nei confronti degli Arbitri , ai sensi dell’art. 814, comma 1, c. p. c. , oltre che al pagamento delle spese di lite del giudizio davanti alla Corte territoriale.
Avverso tale statuizione ha proposto ricorso per cassazione NOME COGNOME affidato a tre motivi di doglianza.
L’intimat o si è difeso con controricorso.
RAGIONI DELLA DECISIONE
Con il primo motivo di ricorso è dedotta la violazione dell’art. 360, comma 1, nn. 3 e 4, c.p.c., con riferimento all’art. 829, comma 3, c.p.c., non avendo la Corte accolto la preliminare eccezione di inammissibilità dell’impugnazione proposta dal Comune, i cui motivi di doglianza dovevano ritenersi inammissibili, in quanto finalizzati ad un riesame nel merito della causa e non riconducibili ad alcuno degli specifici vizi tipizzati dall’art. 829 c.p.c. nel testo applicabile alla fattispecie.
Con il secondo motivo di ricorso è dedotta la nullità della sentenza impugnata per la violazione dell’art. 360, comma 1, n n. 3, 4 e 5, c.p.c., per violazione e/o falsa applicazione delle norme di diritto vigenti in materia di affidamento di incarichi professionali e, in particolare:
i) violazione e falsa applicazione degli art. 1321 e seguenti del c.c., capi I e II, del Libro IV delle Obbligazioni, e dell’art. 1418 e ss. c.c., in relazione all’art. 360, primo comma, n. 3, c.p.c. avendo il Sindaco del Comune di Montalbano Elicona legit timamente conferito l’incarico all’ ing. COGNOME in forza dei poteri ad esso riconosciuti dagli originari atti deliberativi adottati dalla Giunta Municipale.
ii) violazione e falsa applicazione degli artt. 284 e 288 r.d. n. 383 del 1934 e degli artt. 1418 e ss. c.c., in relazione all’art. 360, comma 1, n. 3, c.p.c., considerato che gli atti originari di approvazione del progetto generale, suddiviso in tre Lotti, riportavano l’ammontare del costo della progettazione, risultante dall ‘ applicazione della l. n. 143 del 1949 e s.m.i., di approvazione delle tabelle professionali degli ingegneri, e che nulla doveva disporsi in ordine al mezzo con cui fare fronte a dette spese, per essere il progetto interamente finanziato dall’Amministrazione regionale e, quindi, senza alcun impegno di spesa per il Comune.
Il ricorrente precisava che, con la deliberazione della Giunta Municipale n. 524 del 20/06/1990 di approvazione del progetto di che trattasi, era stata individuata la somma complessiva del progetto, pari a lire 31.000.000.000, di cui lire 2.523.675.620 per le spese tecniche (pari a € 1.303.369,68 a fronte di € 1.134.009,06 calcolati dall’ ing. COGNOME nella propria parcella), aggiungendo, in ogni caso, che vi era l’attestazione da parte del responsabile del servizio finanziario, resa ai sensi dell’art. 55, comma 5, l. n. 142 del 1990, sulla copertura finanziaria delle spese tecniche.
iii) violazione e falsa applicazione della l.r. n. 25 del 1962 (istitutiva delle Commissione Provinciali di Controllo) e della l. n. 62 del 1953 (istitutiva del Comitato Regionale di Controllo), in relazione all’art. 360, primo comma, n. 3, c.p.c., in quanto al momento della adozione della nota sindacale prot. n. 10791 del 16/12/2002 il CORAGIONE_SOCIALE era stato abolito e le delibere con cui la Giunta Comunale avevano approvato gli atti riguardanti il progetto integrato di recupero e valorizzazione del centro storico
di Montalbano Elicona erano state inviate alla Commissione Provinciale di Controllo, che le aveva approvate.
Con il terzo motivo di ricorso è censurato il capo della sentenza impugnata per la violazione o falsa applicazione degli artt. 112, 115 e 116 c.p.c. in relazione all’art. 360, comma 1, n. 5, c.p.c. nonché dell’art. 360, 1 comma, n. 4 c.p.c. per nullità della sentenza per violazione dell’art. 112 c.p.c. in relazione alla domanda ex art. 2041 c.c. Manifesta illogicità e contraddittorietà. Mancata e omesso esame della domanda di ingiustificato a rricchimento e/o di danno, poiché la Corte d’appello aveva omesso di esaminare, in via rescissoria, la domanda di ingiustificato arricchimento ex art. 2041 c.c., proposta dall’ ing. COGNOME in sede arbitrale e riproposta alla Corte d’appello .
Il ricorrente ha rilevato che la Corte di merito nulla ha statuito sul punto, per cui, sotto tale profilo, è evidente l ‘ erroneità e illegittimità della sentenza, per violazione del principio di corrispondenza fra chiesto e pronunciato ex art. 112 c.p.c.
2. Il primo motivo di ricorso è inammissibile.
Il ricorrente non ha messo in discussione il principio secondo il quale il nuovo disposto dell’art. 829 c.p.c., introdotto dal d.lgs. n. 40 del 2006, si applica, in conformità alle disposizioni transitorie, a tutti i giudizi arbitrali promossi dopo l’entrata in vigore della novella, con la precisazione che, per stabilire se sia ammissibile l’impugnazione per violazione delle regole di diritto sul merito della controversia, la legge – cui l’art. 829, comma 3, c.p.c., rinvia – va identificata in quella vigente al momento della stipulazione della convenzione di arbitrato, sicché, in caso di convenzione di arbitrato stipulata anteriormente all’entrata in vigore della nuova disciplina, nel silenzio delle parti deve intendersi ammissibile l’impugnazione del lodo, così disponendo l’art. 829, comma 2, c.p.c., nel testo previgente, salvo che le parti stesse avessero autorizzato gli arbitri a giudicare secondo equità o avessero dichiarato il lodo non impugnabile (così Cass., Sez. U, Sentenza n. 9284 del 09/05/2016; Cass., Sez. 1,
Sentenza n. 17339 del 13/07/2017 e Cass., Sez. 6-1, Ordinanza n. 14352 del 05/06/2018).
L’ing. COGNOME a, piuttosto, affermato che la Corte territoriale ha erroneamente interpretato l ‘ eccezione da lui sollevata, con la quale aveva voluto evidenziare che l’impugnativa del lodo per nullità costituisce un gravame rigorosamente limitato e vincolato nell’effetto devolutivo al Giudice che ne è investito, sicché, trattandosi di giudizio a critica limitata, proponibile soltanto per determinati vizi, vige la regola della specificità della formulazione dei motivi, nella specie ritenuta non rispettata, poiché, da una parte, i motivi dedotti dal Comune appellante tendevano ad un impossibile riesame nel merito della vicenda affrontata dal Collegio arbitrale e, dall’altra, riportavano doglianze che non si presentavano riconducibili ad alcuno degli specifici vizi tipizzati dall’art. 829 c.p.c.
Il ricorrente non ha, però, specificato quali ragioni di doglianza dovessero essere considerate censure di merito (e non critiche per violazione di regole di diritto relative al merito della vertenza) e quali non dovessero, comunque, essere ricondotte al disposto dell’art. 829 c.p.c., imponendo al giudice di legittimità di ricercare nel l’atto d’impugnazione alla Corte d’appello le specifiche censure e valutarne l ‘ammissibilità, così sostituendosi alla parte ricorrente che, invece, è tenuta ad operare una «chiara e sintetica esposizione dei motivi per i quali richiede la cassazione» , a pena d’inammissibilità del ricorso, ai sensi del l’art. 366 , comma 1, n. 4, c.p.c.
Anche il secondo motivo di ricorso è inammissibile.
3.1. Com’è noto, qualora la statuizione impugnata si fondi su di una pluralità di ragioni, tra loro distinte ed autonome, ciascuna delle quali logicamente e giuridicamente sufficiente a sorreggere la decisione, a prescindere dalla fondatezza o meno delle stesse, è inammissibile il ricorso per cassazione che non formuli specifiche doglianze avverso una di tali rationes decidendi (cfr. Cass. Sez. U., Sentenza n. 7931 del 29/03/2013;
Cass., Sez. L, Sentenza n. 4293 del 04/03/2016; Cass., Sez. 6-3, Ordinanza n. 16314 del 18/06/2019).
La resistenza di una di tali statuizioni all’impugnazione rende del tutto ultronea la verifica di ogni ulteriore censura, perché l’eventuale accoglimento d ell’altra o delle altre rationes mai condurrebbe alla cassazione della pronuncia suddetta (Cass., Sez. L, Sentenza n. 36 33 del 10/02/ 2017).
3.2. Nella specie, la sentenza impugnata si fonda su plurime rationes decidendi illustrate gradualmente, sicché, come appena evidenziato, la mancata impugnazione o l’infondata impugnazione di una sola delle stesse rende inammissibili le ulteriori censure.
In particolare, l a Corte d’appello ha principalmente rilevato che l ‘A mministrazione pubblica, per conferire validamente un incarico professionale, deve necessariamente stipulare un contratto d’opera, da redigere, a pena di nullità, in forma scritta, dovendosi escludere che tale contratto possa essere concluso a distanza, a mezzo di corrispondenza, dato che questa modalità di conclusione, limitata ai contratti con ditte commerciali dall’art. 17 r.d. n. 2240 del 1923, non è estensibile al conferimento di incarichi professionali aventi ad oggetto opere.
In tale prospettiva, la Corte territoriale ha, poi, affermato che è irrilevante la deliberazione dell’organo collegiale dell’ente pubblico che abbia autorizzato il conferimento dell’incarico al professionista, qualora tale deliberazione non si sia tradotta in un atto contrattuale sottoscritto dal rappresentante esterno dell’ente e dal professionista, ma anche che la delibera sia stata comunicata al professionista incaricato, ove questi non abbia accettato contestualmente, o comunque prima di apprestarsi all’esecuzione.
Detti principi , per la Corte d’appello, dovevano ritenersi validi anche all’epoca dei fatti per cui è causa, pure a volerli retrodatare a partire dall a adozione della delibera di G. M. del 29 dicembre 1988, essendo comunque vigenti le disposizioni di cui al r.d. n. 224 del 1923, espressamente
richiamate dalla giurisprudenza di legittimità sopra menzionata (p. 8-9 della sentenza impugnata).
La stessa Corte ha, poi, aggiunto che – anche a voler seguire la tesi secondo la quale, ai fini sopra evidenziati, è sufficiente la manifestazione della volontà negoziale del Sindaco, quale organo rappresentativo abilitato a stipulare in nome e per conto dell’ente territoriale (essendo insufficiente la deliberazione della giunta municipale o del consiglio comunale, che costituiscono meri atti interni e preparatori del negozio), seguita dall’ accettazione, anch’essa scritta, dell’incarico da parte del professionista – è pur sempre necessario che la manifestazione della volontà negoziale, espressa dal Sindaco, nel rispetto dell’art. 1325 c.c., contenga tutti gli elementi costitutivi del contratto perché questo, con l’accettazione del professionista, portata a conoscenza della controparte proponente, possa ritenersi concluso a mente dell’art. 1326 c.c.
In particolare, la Corte d’appello ha ritenuto che tale manifestazione di volontà debba contenere l’indicazione del compenso da corrispondersi allo stesso professionista o, in ogni caso, il modo per determinarlo.
Per la Corte territoriale, dunque, anche a volere seguire questo orientamento, non poteva comunque dirsi realizzato alcun valido incontro delle volontà tra il Comune e il professionista, posto che la nota sindacale del 16 dicembre 2005 non conteneva tutti gli elementi costitutivi del contratto che si sarebbe inteso concludere, né sotto il profilo normativo-negoziale, né sotto il profilo economico, senza che potesse dirsi rispettato il profilo contenutistico di che trattasi, per il fatto che nella nota si rimanda all’originario incarico di cui alla delibera di G. M. n. 903 dell’1 marzo 1989 (o meglio del 29 dicembre 1988), non solo perché il richiamo anzidetto si appalesa estremamente generico, ed è effettuato solo al fine di giustificare l’eventuale (nuovo) avvalimento della prestazione dell’ingegnere da parte dell’Ente sempre che ‘accettato’ dal professionista -, ma anche per le ragioni attinenti specificamente il predetto originario incarico (p. 9-
10 della sentenza impugnata), poi illustrate (p. 12-16 della sentenza impugnata).
Per tali motivi, la Corte territoriale ha ritenuto che è mancata del tutto, in ordine all’incarico per cui è causa, una pattuizione scritta contenente gli elementi fondamentali e necessari per una valida ed efficace instaurazione di un rapporto d’opera professionale tra le parti, tra cui la misura del compenso a costui spettante o, almeno, l’indicazione del modo per determinarlo, non potendosi perciò considerare concluso alcun accordo tra il Comune e l’ ing. COGNOMEanche ove se ne volesse escludere la necessaria contestualità) proprio per la mancanza, nella proposta del Sindaco, di un requisito indispensabile perché l’accettazione del professionista potesse produrre gli effetti previsti dalla legge (p. 10 della sentenza impugnata).
La Corte ha, poi, affermato che alle stesse conclusioni si doveva pervenire seguendo la ricostruzione in fatto operata dal Collegio arbitrale, secondo il quale la nota sindacale del 16 dicembre 2005, sopra richiamata, doveva considerarsi la continuazione esecutiva d ell’incarico già conferito con la deliberazione del 1988, e non un nuovo incarico, con la conseguenza che la menzionata nota sindacale doveva essere considerata come un atto di mero impulso negoziale. In sintesi, con riferimento a tale ulteriore ragione della decisione, la Corte d’appello ha escluso che l’incarico del 2005 potesse essere giuridicamente e normativamente ricondotto eziologicamente a quello conferito al professionista con la delibera di G. M. del 1988, dato che, se davvero fosse stato così, anche nella prospettiva dell’Ente, non ci sarebbe stato bisogno che il Sindaco chiedesse (ed otteness e) la relativa ‘accettazione’ da parte dello I acopino (p. 12 della sentenza impugnata).
Ciò nonostante, la medesima Corte territoriale ha ulteriormente affermato che, anche a voler ritenere la nota sindacale un atto di mero impulso, collegato al conferimento d’incarico operato nel 1988, tale confe-
rimento dell’incarico doveva ritenersi ugualmente invalido per due ragioni: in primo luogo, perché, anche in questo caso mancava la stipula di un contratto d’opera, e, in secondo luogo, anche a voler dar rilievo al disciplinare d’incarico del 1988, sottoscritto dal sindaco e dal professionista, comunque non conteneva i requisiti essenziali, in particolare, riconducibili alla pattuizione del prezzo e dei mezzi per farvi fronte (p. 12-16 della sentenza impugnata).
3.4. Le censure formulate nel motivo di ricorso si incentrano tutte su questa ulteriore motivazione, che segue l’illustrazione della prima ratio, già fondante la decisione di accoglimento dell’impugnazione , secondo la quale l’incarico in questione , era invalido, in primo luogo, perché non seguito dalla stipula di un contratto scritto d’opera professionale .
3.5. Peraltro, nel primo profilo di censura, il ricorrente ha dedotto che «Il Sindaco con la nota prot n. 10791 del 16.12.2005, e in forza dei poteri ad esso riconosciuti dagli originari atti (legittimi -ndr.) ha dato mandato all’Ing. COGNOME di redigere il progetto relativo al III Stralcio salvo solo a verificare la disponibilità dello stesso in considerazione del lungo lasso di tempo intercorso rispetto alla redazione della progettazione del II Stralcio. La Corte territoriale, invece, ha ritenuto che proprio per questa richiesta di disponibilità da parte del professionista ‘ difficilmente tale incarico potrebbe giuridicamente e normativamente essere ricondotto eziologicamente a quello conferito al professionista con la delibera di G. M. del 1988, dato che, se davvero fosse stato così anche nella prospettiva dell’Ente, non ci s arebbe stato bisogno che il Sindaco chiedesse (ed ottenesse) la relativa accettazione da parte dello RAGIONE_SOCIALE ‘ . Secondo la Corte di merito il fatto che il Sindaco ha chiesto tale ‘accettazione’ al pr ofessionista implicitamente avrebbe riconosciuto l’autonomia dell’incarico de quo rispetto a quello originario, posto che, a opinare al contrario, non sarebbe stata necessaria alcuna formale accettazione da parte dell’Ing. COGNOME Invero, dalla lettura della nota sindacale citata è possibile ricavare l’esatto contrario rispetto a quanto ritenuto dai Giudici di
appello, poiché il Sindaco chiaramente richiama la originaria deliberazione di G.M. del 1988 di affidamento dell’incarico generale a dimostrazione che il III Stralcio rappresentasse il completamento dell’originario incarico. Sotto questo primo profilo è evidente la erroneità della sentenza impugnata.»
La censura attiene ad una valutazione di merito, cui la parte ha contrapposto una sua valutazione, chiedendo una diversa interpretazione che si sostanzia in una valutazione in fatto, inammissibile in sede di legittimità, così rendendo definitiva una delle numerose rationes della decisione e, dunque, superfluo esaminarne le altre.
Il terzo motivo di ricorso è fondato.
4.1. Come evidenziato da questa Corte, il giudizio di impugnazione arbitrale si compone di due fasi, la prima rescindente, finalizzata all’accertamento di eventuali nullità del lodo e che si conclude con l’annullamento del medesimo, la seconda rescissoria, che fa seguito all’annullamento, nel corso della quale il giudice ordinario procede alla ricostruzione del fatto sulla base delle prove dedotte.
Nella prima fase non è consentito alla Corte d’appello procedere ad accertamenti di fatto, dovendo limitarsi a verificare la sussistenza delle eventuali nullità in cui siano incorsi gli arbitri, pronunciabili soltanto per determinati errori in procedendo , nonché per inosservanza delle regole di diritto nei limiti previsti dal medesimo art. 829 c.p.c.
Solo in sede rescissoria al giudice dell’impugnazione è attribuita la facoltà di riesaminare nel merito le domande, comunque nei limiti del petitum e delle causae petendi dedotte dinanzi agli arbitri, fermo restando che, non solo non sono consentite domande nuove rispetto a quelle proposte agli arbitri, e contenute nei quesiti, ma non è neppure possibile fondare la fase rescissoria sulla base di censure diverse da quelle specificamente individuate dall’art. 829 c.p.c. (Cass., Sez. 1, Sentenza n. 20880 dell’ 08/10/2010).
4.2. Come si evince anche dalla sentenza impugnata, il Collegio arbitrale, accogliendo la domanda principale del professionista, ha ritenuto assorbiti i quesiti nn. 8 e 9 formulati da quest’ultimo, volti al all’ottenimento del maggior danno da ingiustificato arricchimento.
La caducazione del lodo, nella parte riferita all’accoglimento della domanda principale del professionista ha comportato anche la caducazione della statuizione di assorbimento contenuta nella stessa previsione arbitrale, in applicazione al principio sancito dall’art. 336, comma 2, c.p.c., applicabile anche all’i mpugnazione per nullità del lodo arbitrale.
Il professionista ha allegato, e dimostrato, di avere riproposto davanti alla Corte d’appello la domanda volta ad ottenere l’indennizzo da ingiustificato arricchimento (v. p. 30-34 del ricorso per cassazione e p.17-18 della comparsa di costituzione e risposta in appello), sulla quale non vi è stata alcuna pronuncia della Corte territoriale, che è, dunque, incorsa nel vizio debitamente censurato in sede di legittimità.
Il controricorrente ha dedotto che lo COGNOME avrebbe dovuto formulare appello incidentale condizionato per far valere il diritto all’indennizzo da ingiustificato arricchimento, ma tale opinione contrasta con l’orientamento più volte espresso da questa Corte, e condiviso dal Collegio, riferito al giudizio di appello -ovviamente applicabile anche al giudizio di impugnazione del lodo arbitrale, ove si pervenga alla fase rescissoria -secondo il quale la parte vittoriosa nel merito in primo grado, in ipotesi di gravame formulato dal soccombente, non ha l’onere di proporre appello incidentale in relazione alle proprie domande o eccezioni non accolte (perché superate o non esaminate in quanto assorbite), difettando di interesse al riguardo, ma deve solo riproporle espressamente nel giudizio di impugnazione, al fine di evitare la presunzione di rinunzia derivante da un contegno omissivo (Cass., Sez. U, Sentenza n. 13195 del 25/05/2018; v. da ultimo Cass., Sez. 3, Ordinanza n. 33649 del 01/12/2023; Cass., Sez. 1, Ordinanza n. 25840 del 23/09/2021; cfr. già Cass., Sez. 1, Sentenza n. 5721 del 19/04/2002).
In conclusione, deve essere accolto il terzo motivo di ricorso e, dichiarati inammissibili il primo e il secondo motivo, la sentenza impugnata deve essere cassata con rinvio alla Corte d’appello di Messina, chiamata a statuire anche sulle spese del presente procedimento di legittimità.
P.Q.M.
La Corte
accoglie il terzo motivo di ricorso e, dichiarati inammissibili il primo e il secondo motivo, cassa la sentenza impugnata con rinvio alla Corte d’appello di Messina, chiamata a statuire anche sulle spese del presente procedimento di legittimità.
Così deciso in Roma, nella camera di consiglio della Prima Sezione civile