Ordinanza di Cassazione Civile Sez. L Num. 32659 Anno 2024
Civile Ord. Sez. L Num. 32659 Anno 2024
Presidente: COGNOME
Relatore: COGNOME
Data pubblicazione: 16/12/2024
Oggetto: incarichi non autorizzati – art. 53, comma 7, d.lgs. n. 165 del 2001
ORDINANZA
sul ricorso iscritto al n. 12695/2019 R.G. proposto da NOME COGNOME rappresentato e difeso dagli Avv.ti NOME COGNOME e NOME COGNOME e domiciliato elettivamente presso il primo in Roma, INDIRIZZO
-ricorrente –
contro
Ministero delle Infrastrutture e dei Trasporti, in persona del legale rappresentante p.t., rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato e domiciliato per legge in Roma, INDIRIZZO
-controricorrente –
avverso la sentenza della Corte d’appello di Roma n. 4946/2018 pubblicata l’ 8 gennaio 2019.
Udita la relazione svolta nella camera di consiglio del 22 novembre 2024 dal Consigliere NOME COGNOME
SVOLGIMENTO DEL PROCESSO
NOME COGNOME già dirigente generale del Ministero delle Infrastrutture e dei Trasporti dal 7 novembre 1991 al 1° ottobre 2008, ha riassunto davanti al Tribunale di Roma il giudizio introdotto davanti al TAR Lazio e volto a ottenere l’annullamento dei provvedimenti del 22 novembre 2011, del 23 gennaio 2012 e del 5 giugno 2012 con i quali il detto Ministero gli aveva chiesto il pagamento della somma di € 693.127,53 a titolo di compensi percepiti per 25 incarichi profes sionali svolti in violazione dell’art. 5 3, comma 7, del d.lgs. n. 165 del 2001.
Il Tribunale di Roma, nel contraddittorio delle parti, con sentenza n. 11580/2015, ha accolto in parte il ricorso, dichiarando infondata la pretesa della P.A. di cui alle note del 22 novembre 2011, del 23 gennaio 2012 e del 5 giugno 2012, oltre che quanto agli incarichi Consorzio RAGIONE_SOCIALE Autorità Portuale Trieste, RAGIONE_SOCIALE e IACP Castelfranco Veneto, con rigetto delle ulteriori richieste.
NOME COGNOME ha proposto appello che la Corte d’appello di Roma, nel contraddittorio delle parti, con sentenza n. 4946/2018, ha rigettato.
NOME COGNOME ha proposto ricorso per cassazione sulla base di nove motivi.
Il Ministero delle Infrastrutture e dei Trasporti si è difeso con controricorso.
Le parti hanno depositato memorie.
MOTIVI DELLA DECISIONE
Con il primo motivo il ricorrente lamenta la violazione e falsa applicazione dell’art. 53, comma 7, d.lgs. n. 165 del 2001, dell’art. 1719 c.c. e dell’art. 816 ter , comma 5, c.p.c. con riferimento all’avvenuto rigetto del suo primo motivo d’appello, concernente gli
incarichi da lui svolti come CTU in vari procedimenti arbitrali aventi ad oggetto appalti pubblici.
Egli afferma che tali incarichi sarebbero stati retribuiti dalla parte processuale onerata in forza di decisione dei Collegi Arbitrali e, quindi, avrebbero dovuto essere qualificati come ‘ attività libera ‘ , che non avrebbe necessitato di autorizzazione, essendo espressione di attività giurisdizionale e di un munus publicum .
A sostegno della sua tesi, richiama una circolare ministeriale del 4 gennaio 1999 e una direttiva del Ministero dei Lavori pubblici del 1° giugno 2001, che non avrebbero richiesto autorizzazione per lo svolgimento di incarichi conferiti da organi giurisdizionali.
Evidenzia, poi, che fra le parti di un arbitrato e il CTU non sorgerebbe un rapporto negoziale di prestazione d’opera , atteso che il ruolo e le funzioni di CTU nell’arbitrato sarebbero analoghi a quelli svolti nel processo ordinario e deriverebbero dalla legge.
La non necessità di autorizzazione sarebbe derivata dalla natura giurisdizionale dell’arbitrato rituale in quanto, se era giurisdizionale l’attività degli arbitri, allo stesso modo lo sarebbe stata quella del CTU da loro nominato.
Pertanto, il ricorrente contesta le conclusioni raggiunte dalla sentenza della Corte di cassazione n. 6736 del 2014.
La doglianza è infondata.
Come già ritenuto dalla giurisprudenza di legittimità, in materia di arbitrato rituale, il consulente tecnico d’ufficio ha titolo per chiedere il pagamento del proprio compenso esclusivamente agli arbitri – a cui spetta, ex art. 814 c.p.c., il diritto ad ottenere il rimborso dalle parti – dovendosi escludere una responsabilità solidale di queste ultime poiché, a differenza di quanto avviene nel giudizio ordinario, la figura del consulente nell’arbitrato rituale, che pure ha natura giurisdizionale, non ha carattere pubblicistico, quale ausiliario del giudice, con qualifica di pubblico ufficiale, che esegue la sua prestazione per un superiore interesse di giustizia, ma una matrice
privatistica, essendo le parti legate agli arbitri da un rapporto di mandato, in cui, ai sensi dell’art. 1719 c.c., il mandante ha l’obbligo di somministrare al mandatario i mezzi necessari per l’esecuzione del mandato e per l’adempimento delle obbligazioni contratte in proprio nome, tra le quali anche quella nei confronti del consulente (Cass., Sez. 1, n. 6736 del 21 marzo 2014).
Invece, il principio della solidarietà nei rapporti fra il consulente tecnico d’ufficio e le parti del giudizio ordinario, in relazione all’obbligazione inerente al compenso dovuto al primo per l’attività svolta, si fonda sulla natura della prestazione, effettuata in funzione di un interesse comune di tutte le parti del giudizio nel quale è stata resa, interesse che assorbe e trascende quello proprio e particolare delle singole parti, venendosi a creare un rapporto diretto fra le parti e il consulente tecnico d’ufficio, anche nell’interferenza degli elementi normativi inerenti alla sua nomina e all’incarico allo stesso affidato, tali da fare ritenere che detta attività, sebbene intesa ad integrare, ove non percettiva, le cognizioni del giudice, in quanto assistita dalle garanzie inerenti a un munus di rilevanza pubblicistica, debba presumersi finalizzata al conseguimento di un superiore interesse di giustizia.
Tali elementi, al contrario, non sono rinvenibili nel rapporto che connota la presenza dei consulenti tecnici d’ufficio nel giudizio arbitrale, che, indipendentemente dalla natura giurisdizionale da riconoscersi all’arbitrato rituale, nasce di base da un incarico conferito dagli arbitri, a loro volta legati alle parti da un negozio giuridico di natura privatistica. In effetti da tale rapporto di mandato scaturisce, ai sensi dell’art. 1719 c.c., l’obbligo del mandante di somministrare al mandatario i mezzi necessari per l’esecuzione del mandato e per l’adempimento delle obbligazioni che, a tale fine, il mandatario ha contratte in proprio nome.
Il ricorrente erra nell’ipotizzare che, al riconoscimento della natura giurisdizionale dell’arbitrato rituale, consegua la sua totale equiparazione alla giurisdizione pubblica.
Diversamente, occorre precisare che con lo sviluppo dell’istituto arbitrale (rituale) si è avuto un passaggio dalla funzione pubblica a quella privata, ossia a una giustizia che, però, è affidata a privati che esercitano potestà giurisdizionale.
Non è, quindi, una privatizzazione del servizio giustizia, ma, come osservato in dottrina, piuttosto l’esercizio di una ‘giurisdizione senza Stato’.
L’esercizio della funzione giurisdizionale non è più riservato al monopolio dello Stato, poiché alla giurisdizione ‘pubblica’ si affianca una giurisdizione ‘privata’, che sostituisce quella del giudice ordinario, a essa equivalente, dal punto di vista funzionale, e che trova la sua fonte di legittimazione non più nella sovranità e nella giurisdizione statale, ma nell’autonomia dei privati. In coerenza con ciò, l’art. 813, comma 2, c.p.c. dispone che agli arbitri non compete la qualifica di pubblico ufficiale o di incaricato di pubblico servizio.
Quest’ultima circostanza è proprio quella che, a prescindere dalla natura giurisdizione dell’arbitrato rituale e dell’avvicinamento normativo dello stesso al processo ordinario, impedisce di equiparare il CTU nominato dagli arbitri (rituali) a quello scelto dal giudice statale e, soprattutto, preclude di ritenere la natura pubblica dell’incarico del primo.
Il consulente tecnico rimane, allora, un ausiliario privato del collegio arbitrale e non acquista, come avviene nel processo ordinario, la qualifica di ausiliario pubblico.
Per le stesse ragioni, eventuali responsabilità del consulente dovrebbero essere non già riconducibili alle fattispecie penali (artt. 64 c.p.c. e 366 e 373 c.p.), ma regolamentate sulla base della sola disciplina civilistica. In particolare, autorevole dottrina sostiene che non possono trovare applicazione né l’art. 366 c.p., per il rifiuto di uffici legalmente dovuti, né l’art. 373 c.p. per la falsa perizia, trattandosi, in entrambi i casi, di fattispecie che richiedono che si sia in presenza di un’«autorità giudiziaria» e non di un collegio arbitrale.
Nella stessa ottica, la giurisprudenza ha affermato che il CTU nominato in un giudizio arbitrale non ha la qualità né di pubblico ufficiale né di incaricato di pubblico servizio, dal momento che ha una funzione ausiliaria in un procedimento di natura privatistica, con la conseguenza che non è configurabile il reato di corruzione (Corte di cassazione, sez. VI penale, sentenza n. 5901 del 22 gennaio 2013, depositata il 6 febbraio 2013).
Il consulente tecnico non ha, poi, diversamente da quanto sostenuto dal ricorrente, l’obbligo di giurare e gli è consentito di rifiutare l’incarico senza che ricorrano i presupposti del Codice di procedura civile. Ad esempio, non trova applicazione l’art. 193 c.p.c., posto che, davanti agli arbitri, il consulente tecnico non può giurare, potendosi solo impegnare a adempiere in modo preciso e coscienzioso all’incarico affidatogli, al fine di consentire agli arbitri di conoscere la verità. Allo stesso modo, non sembrano poter trovare applicazione le disposizioni di cui agli artt. da 61 a 64 c.p.c. nonché da 13 a 24 disp. att. c.p.c., in quanto inscindibilmente legate all’inserimento dei consulenti tecnici negli albi predisposti dai tribunali e dalla loro soggezione, ove nominati dal giudice ordinario, al potere disciplinare del presidente del tribunale presso il quale il consulente è stato chiamato a svolgere la propria attività.
Con il secondo motivo il ricorrente contesta l’omessa pronuncia, da parte della corte territoriale, in ordine al motivo concernente la sua assenza di colpa, in quanto egli avrebbe rappresentato che la Direttiva del Ministro dei Lavori Pubblici del 1° giugno 2001 avrebbe ingenerato un suo legittimo affidamento circa la legittimità degli incarichi, il che avrebbe comportato l’esclusione di una sua colpa.
La doglianza è inammissibile, non risultando che la questione dell’affidamento del ricorrente sia stata prospettata in primo grado, atteso che il lavoratore non ha riportato il contenuto del ricorso originario, almeno per la parte rilevante, nell’atto di impugnazione.
In aggiunta a ciò, si evidenzia che, comunque, l’obbligo di pagamento de quo ha natura legislativa e, dunque, non si presta, in linea di principio, a consentire valutazioni dello stato soggettivo dell’interessato.
Con il terzo motivo il ricorrente contesta la violazione e falsa applicazione dell’art. 53, comma 10, del d.lgs. n. 165 del 2001 e dell’art. 3, comma 26, del d.lgs. n. 163 del 2006 quanto alla qualifica degli enti pubblici e dell’art. 1375 c.c. atteso che, con riferimento agli incarichi di RAGIONE_SOCIALE e RAGIONE_SOCIALE, l’incarico espletato avrebbe dovuto essere considerato come svolto ai sensi dell’art. 53, comma 10, del d.lgs. n. 165 del 2001, trattandosi di società a prevalente partecipazione pubblica e alla luce della nozione di organismo di diritto pubblico.
La doglianza è infondata.
L’art. 53, comma 10, ultima parte, del d.lgs. n. 165 del 2001, stabilisce che ‘
‘.
Nella specie, come esattamente rilevato dal giudice di appello, gli enti coinvolti erano due società per azioni con la conseguenza che deve escludersi in radice la possibilità di una loro qualificazione come pubblica amministrazione.
D’altronde, la nozione di ‘amministrazioni pubbliche’ rilevante ai fini di cui al d.lgs. n. 165 del 2001 va mutuata da quella indicata dall’art. 1, comma 2, del medesimo d.lgs., che contiene un elenco nel quale non figurano le società per azioni a prevalente partecipazione pubblica.
Priva di rilievo è la parte della censura che richiama il principio di buona fede, venendo in rilievo l’oggettiva applicazione di una norma avente forza di legge.
Con il quarto motivo il ricorrente lamenta la violazione e falsa applicazione dell’art. 53, comma 7, d.lgs. n. 165 del 2001 in relazione agli artt. 2946 e 2947 c.c. e 28 della legge n. 689 del 1981.
Egli sostiene che la prescrizione applicabile nella specie sarebbe stata quella quinquennale, dovendosi qualificare l’illecito in questione come extracontrattuale o amministrativo.
Ciò perché il comma 7 del citato art. 53 avrebbe fatto riferimento a una sanzione e, comunque, la sanzione in esame sarebbe stata posta a carico non solo del percettore, ma anche dell’erogante, il che si sarebbe posto in contrasto con la ritenuta natura contrattuale della vicenda.
Neppure sarebbe venuto in rilievo il dovere di fedeltà gravante sul dipendente pubblico, ma, al contrario, la tematica delle incompatibilità nel relativo rapporto di impiego.
La natura contrattuale della sanzione in questione sarebbe stata esclusa pure dalla decisione delle Sezioni Unite della Corte di cassazione n. 1415 del 2018 e dalla giurisprudenza della Corte dei conti.
La non contrattualità dell’azione si sarebbe dovuta evincere, altresì, dal fatto che sarebbe stata prevista una sanzione predeterminata e priva di riferimenti alla componente psicologica del responsabile.
La censura è infondata.
Come di recente chiarito da questa sezione con l’ordinanza n. 24377 del 5 agosto 2022, l’azione proposta dalla P.A. per la ripetizione delle somme indebitamente percepite dal dipendente pubblico per lo svolgimento di attività extraistituzionale non autorizzata dall’amministrazione di appartenenza, ai sensi dell’art. 53, comma 7, del d.lgs. n. 165 del 2001, rientra nell’alveo della responsabilità contrattuale da inadempimento agli obblighi di fedeltà e ha una funzione riparatoria; ne consegue che il recupero, pur assumendo tratti sanzionatori, regolando gli effetti della duplice violazione dell’avere accettato un incarico senza autorizzazione e di averne introitato le remunerazioni, non costituisce sanzione amministrativa e non è, pertanto, assoggettato alle regole di cui alla legge n. 689 del 1981.
La natura contrattuale impone l’applicazione del relativo regime della prescrizione, che resta decennale, in quanto quella in esame è obbligazione derivante dalla legge, conseguente alla duplice violazione dell’avere accettato un incarico senza autorizzazione e di averne introitato le remunerazioni, integrando gli estremi della responsabilità contrattuale da inadempimento agli obblighi di fedeltà ed alle relative conseguenze.
Indubbiamente, il recupero delle somme, ai sensi dell’art. 53, comma 7, citato, assume tratti sanzionatori, ma questo non nel senso che viene in questione una sanzione amministrativa o disciplinare. Semplicemente sono tipizzati normativamente gli effetti della violazione dell’obbligo di preventiva autorizzazione rispetto all’attività svolta al di fuori della P .A. di appartenenza, che sono imperativamente correlati alla circostanza che il lavoratore ha introitato gli importi spettanti ex lege , in tal caso, al datore di lavoro pubblico.
Ciò deriva dal fatto che, come più volte affermato da questa Corte Suprema, l’anzidetta normativa è volta a garantire l’obbligo di esclusività che ha primario rilievo nel rapporto di impiego pubblico in quanto trova il proprio fondamento costituzionale nell’art. 98 Cost., con il quale, nel prevedere che ‘i pubblici impiegati sono al servizio esclusivo della Nazione’, si è voluto rafforzare il principio di imparzialità di cui all’art. 97 Cost., sottraendo tutti coloro che svolgono un’attività lavorativa ‘alle dipendenze’ – in senso lato delle Pubbliche Amministrazioni dai condizionamenti che potrebbero derivare dall’esercizio di altre attività (Cass., SU, n. 25369 dell’11 novembre 2020; Cass., Sez. L, n. 12626 del 25 giugno 2020).
Il ricorrente, nel sottolineare che l’importo da rendere non viene adeguato alle circostanze del caso concreto, non considera che, in realtà, l’importo in questione è richiesto proprio perché è conseguenza diretta e immediata dell’infedeltà del suo dipendente.
Nessuna similitudine vi è, allora, con le sanzioni amministrative di cui alla legge n. 689 del 1981, richiamate dalle difese del ricorrente, atteso che queste ultime sono munite di carattere punitivo puro e lo sono formalmente e sostanzialmente, mentre la misura in esame è del tutto interna ad un rapporto contrattuale e costituisce conseguenza legale della violazione di obblighi di primario rilievo ad esso inerenti, finalizzati al contempo a dissuadere dalla violazione del precetto e a regolare, anche sul piano negoziale, le conseguenze dell’inadempimento, senza necessità di prova concreta di un danno, ma con un obbligo di acquisire quanto percepito all’esterno a favore del «fondo di produttività o di fondi equivalenti» e quindi a sostegno dell’indirizzo verso l’efficienza del datore di lavoro pubblico.
Inoltre, deve essere ribadito come nulla impedirebbe al legislatore di attribuire, con una disposizione ad hoc , una funzione sanzionatoria al risarcimento del danno e di predeterminarne la portata, prescindendo, ai fini della quantificazione, dall’elemento soggettivo dell’autore.
Le considerazioni appena esposte, oltre a negare la natura aquiliana e amministrativa dalla violazione, chiariscono il perché l’ammontare de quo possa essere richiesto anche all’erogatore. Ciò non contrasta con la natura contrattuale della vicenda, ma, al contrario, palesa come tale ammontare sia attribuito alla P.A. proprio in quanto il dipendente avrebbe dovuto agire su incarico e per conto di essa quale datrice di lavoro. Inoltre, il coinvolgimento dell’erogatore si spiega con la circostanza che, per lo stesso, opera il meccanismo di cui ai commi 8 e 9 dell’art. 53.
Infine, nessun pregio ha il riferimento alla sentenza delle Sezioni Unite n. 1415 del 19 gennaio 2018, non essendovi alcun contrasto fra essa e la giurisprudenza di questa sezione.
Le Sezioni Unite molto semplicemente, al fine di escludere la ricorrenza di una fattispecie di danno erariale e della giurisdizione della Corte dei conti, hanno esattamente valorizzato la pure sopra menzionata natura sanzionatoria del versamento de quo , il cui obbligo ha un carattere disincentivante, desumibile dalla coincidenza dell’entità del versamento con quella delle somme indebitamente percepite dal pubblico dipendente, affinché questi sappia in partenza di non potere trattenere vantaggio alcuno da prestazioni che si appresti a svolgere in violazione del dovere di fedeltà.
5) Con il quinto motivo il ricorrente contesta la violazione e falsa applicazione dell’art. 53, comma 7, del d.lgs. n. 165 del 2001 in relazione all’art. 2935 perché il termine di prescrizione sarebbe dovuto decorrere, nella specie, dal momento del conferimento dell’incarico o non da quello della percezione della somma.
Egli sostiene che detta prescrizione avrebbe dovuto essere calcolata a partire dal tempo dell’incarico e non da quello dell’incasso dei corrispettivi da parte sua.
Innanzitutto, si osserva che la doglianza è inammissibile, non avendo il ricorrente indicato nel testo della censura con riferimento a quali incarichi la questione dell’individuazione del dies a quo della
prescrizione avrebbe ancora rilievo, essendo stata riconosciuta la natura decennale della prescrizione in esame.
Peraltro, la censura è infondata, in quanto la fattispecie considerata ha natura complessa.
L’art. 53, comma 7, citato colpisce, in effetti, la violazione del dovere di fedeltà rappresentata dal fatto di rendere certe prestazioni senza la necessaria autorizzazione, ma solo nella misura in cui il dipendente riceva un corrispettivo. Pertanto, solo nel momento del pagamento della somma al lavoratore può decorrere il termine di prescrizione de quo , ben potendo, sino a tale momento, l’interessato rinunciare al compenso o disporre che sia versato alla sua P.A.
La circostanza che la P.A. possa domandare il versamento all’erogatore non contrasta con la decorrenza della prescrizione dall’epoca della sua percezione per il dipendente, ma semplicemente fornisce un’ulteriore garanzia dell’ottenimento dell’importo de quo da parte della stessa P.A. e si spiega con la circostanza che il detto erogatore è pure responsabile di quanto avvenuto e deve subire le conseguenze menzionate ai commi 8 e 9 del citato art. 53.
Con il sesto motivo il ricorrente lamenta la violazione e falsa applicazione dell’art. 53, commi 7 e 10, del d.lgs. n. 165 del 2001 in quanto l’art. 53, comma 7, del d.lgs. n. 165 del 2001 avrebbe previsto una responsabilità prioritaria dell’erogante.
Infatti, a suo avviso, l’obbligo di chiedere l’autorizzazione sarebbe gravato sull’ente, pubblico o privato, intenzionato a conferire l’incarico extraistituzionale, ben potendo il dipendente restare inerte.
La censura è infondata, emergendo dal chiaro dato formale dell’art. 53, comma 7, del d.lgs. n. 165 del 2001 che la responsabilità del lavoratore è del tutto distinta da quella dell’ente interessato e che, comunque, egli non può ricevere incarichi onerosi non autorizzati, con la conseguenza che, in ogni caso, è tenuto a informarsi presso l’ente conferente o quello di appartenenza, in ordine all’avvenuto ottenimento dell’autorizzazione.
Con il settimo motivo il ricorrente contesta la violazione e falsa applicazione dell’art. 53, comma 7, del d.lgs. n. 165 del 2001 in relazione all’art. 12 delle Preleggi in quanto avrebbe dovuto essere applicato l’art. 16 della legge n. 689 del 1981.
La censura è infondata, dovendosi escludere la natura di illecito amministrativo della fattispecie, come esposto in occasione dell’esame del quarto motivo.
Con l’ottavo motivo il ricorrente lamenta la nullità della sentenza in relazione all’erronea quantificazione della sanzione e all’art. 132, comma 2, n. 4, c.p.c., per motivazione apparente e assente con riferimento all’omessa pronuncia e all’omesso esame di un fatto decisivo.
Egli si duole che la P .A. non abbia scomputato l’IRPEF o che, comunque, abbia posto il relativo onere a suo carico.
La doglianza è inammissibile, avendo la corte territoriale spiegato il suo pensiero sul punto alle pagine sette e otto della motivazione.
Non può porsi, poi, un problema di omesso esame di un fatto, avendo il giudice di appello tenuto conto della circostanza concernente il pagamento dell’imposta.
Con il nono motivo il ricorrente ripropone la già denunciata questione di legittimità costituzionale dell’art. 53, comma 7, del d.lgs. n. 165 del 2001 per violazione degli artt. 3 e 24 Cost.
Egli prospetta che una ricostruzione in termini contrattuali della vicenda lo avrebbe danneggiato perché, rispetto a un ordinario illecito civile, vi sarebbero state una presunzione di dannosità dell’espletamento dell’incarico non autorizzato, una predeterminazione del risarcimento, una penale manifestamente eccessiva e non riducibile che si sarebbe ingiustamente aggiunta alla sanzione disciplinare.
Inoltre, rispetto ad altre categorie, non avrebbe potuto ottenere una riduzione della sanzione ex art. 16 della legge n. 689 del 1981, non avrebbe potuto invocare la prescrizione quinquennale, non avrebbe potuto chiedere una valutazione concreta del danno effettivo anche in ragione del concorso di colpa del danneggiato e non avrebbe potuto beneficiare del regime previsto dalla disciplina dell’illecito amministrativo e del danno erariale.
Egli sostiene che la disposizione in questione avrebbe configurato, per i pubblici dipendenti, una disciplina ibrida e che la tesi seguita dalla corte territoriale avrebbe comportato una disparità di trattamento in rapporto ai dipendenti pubblici non contrattualizzati, per i quali, nella specie, la giurisprudenza contabile avrebbe ipotizzato la ricorrenza di un illecito amministrativo.
La questione è manifestamente infondata.
A prescindere dalla difficoltà del ricorrente di individuare con precisione la disciplina normativa e la categoria rispetto alle quali sarebbe stato violato l’art. 3 Cost., si osserva che tutte le conseguenze indicate come negative dal medesimo ricorrente sono normali effetti di una responsabilità contrattuale.
D’altronde, non è revocabile in dubbio che la condotta qui contestata integri una violazione del dovere di fedeltà del dipendente e che è del tutto ragionevole che la P.A. datrice di lavoro agisca per ottenere quanto il dipendente scorretto abbia conseguito.
Il fatto che l’importo sia stato predeterminato dipende da una scelta discrezionale del legislatore che non è sindacabile, anche perché del tutto comprensibile, nell’ottica di valorizzazione del disposto degli artt. 97 e 98 Cost.
Come già evidenziato, nessuna disposizione costituzionale vieta al medesimo legislatore di dare una coloritura sanzionatoria al risarcimento del danno, quantomeno ove vengano in rilievo interessi primari, come la correttezza dell’azione dei funzionari pubblici e la garanzia dell’efficienza, trasparenza ed efficacia della P.A.
Non condivisibile è, peraltro, l’accostamento all’istituto della penale.
Quanto al concorso di colpa del danneggiato, la censura è molto generica e, comunque, il sistema prevede adeguate sanzioni per tutti i soggetti coinvolti che abbiano agito senza rispettare i propri obblighi.
Il paragone con i dipendenti pubblici non contrattualizzati è, poi, estremamente generico, venendo in rilievo una categoria a parte che presenta delle diversità.
Infine, si evidenzia che questione similare è stata già reputata manifestamente infondata dall’ordinanza di questa sezione n. 24377 del 5 agosto 2022.
10) Il ricorso è rigettato in applicazione dei seguenti principi di diritto:
‘Il consulente tecnico d’ufficio nominato nell’ambito di un arbitrato rituale, a differenza di quanto avviene nel giudizio ordinario e nonostante la natura giurisdizionale di tale arbitrato, non è un ausiliario del giudice, che esegue la sua prestazione per un superiore interesse di giustizia, ma è un ausiliario privato del collegio arbitrale, tanto che non è tenuto a giurare, che gli è consentito di rifiutare l’incarico senza che ricorrano i presupposti del codice di procedura civile e che la sua responsabilità non è riconducibile a fattispecie penali, non essendo né un pubblico ufficiale né un incaricato di pubblico servizio, ma è regolamentata sulla base della sola disciplina civilistica’;
‘L’art. 53, comma 10, ultima parte, del d.lgs. n. 165 del 2001, il quale stabilisce che,
, non trova applicazione qualora detti incarichi siano attribuiti da società per azioni, ancorché a prevalente partecipazione pubblica’.
‘ L ‘azione proposta dalla P.A. per la ripetizione delle somme indebitamente percepite dal dipendente pubblico per lo svolgimento di attività extraistituzionale non autorizzata dall’amministrazione di appartenenza, ai sensi dell’art. 53, comma 7, del d.lgs. n. 165 del 2001, ha natura contrattuale da inadempimento agli obblighi di fedeltà, con la conseguenza che trova applicazione il termine di prescrizione decennale, decorrente, con riferimento al detto dipendente, dal momento della percezione del compenso da parte sua, e che va esclusa ogni responsabilità prioritaria dell’erogatore di tale compenso per siffatto inadempimento’.
Le spese di lite seguono la soccombenza e sono liquidate come in dispositivo.
Si attesta che sussistono i presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello previsto per il ricorso principale (d.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater ), se dovuto.
P.Q.M.
La Corte,
rigetta il ricorso;
condanna il ricorrente a rifondere le spese di lite, che liquida in complessivi € 11.000,00 per compenso professionale, e a rimborsare le spese prenotate a debito;
-attesta che sussistono i presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello previsto per il ricorso principale, se dovuto.
Così deciso in Roma, nella camera di consiglio della IV Sezione