Ordinanza di Cassazione Civile Sez. 2 Num. 364 Anno 2024
Civile Ord. Sez. 2 Num. 364 Anno 2024
Presidente: COGNOME
Relatore: COGNOME
Data pubblicazione: 05/01/2024
ORDINANZA
sul ricorso iscritto al n. 20923/2019 R.G. proposto da:
COGNOME NOME, elett.te domiciliata in BOLOGNA, INDIRIZZO presso lo studio dell’avvocato NOME COGNOME (CODICE_FISCALE che la rappresenta e difende per procura in calce al ricorso,
-ricorrente-
contro
NOMECOGNOME
-intimata- avverso la SENTENZA della CORTE D’APPELLO di BOLOGNA n.1506/2018 depositata il 4.6.2018.
Udita la relazione svolta nella camera di consiglio del 6.12.2023 dal Consigliere NOME COGNOME
FATTI DI CAUSA E RAGIONI DELLA DECISIONE
Con sentenza n. 1461/2013 il Tribunale di Parma, riconosciuta l’autenticità delle sottoscrizioni di COGNOME NOME sul contratto di collaborazione professionale dell’1.9.2005 e sul riconoscimento di debito del 23.3.2006, accogliendo parzialmente la domanda avanzata nel 2007 dall’avv. NOME COGNOME nei confronti di COGNOME NOMECOGNOME condannava quest’ultima al pagamento in favore dell’attrice di € 52.960,00 (di cui € 17.000,00 per la collaborazione professionale prestata a favore dell’allora avvocato NOME Contini in base al contratto dell’1.9.2005, ed € 35.960,00 per la restituzione delle somme corrispostele a titolo di prestito e per l’acquisto di un’autorimessa in Parma poi non perfezionatosi), oltre interessi, spese di lite e della CTU grafologica.
Avverso tale sentenza proponeva appello COGNOME NOME, mentre la COGNOME restava contumace nel giudizio di secondo grado, e la Corte d’Appello di Bologna, con la sentenza n. 1506/2018 del 22.5/4.6.2018, accoglieva parzialmente l’appello, riducendo la condanna della COGNOME ad € 35.960,00 oltre interessi legali dal 22.5.2007 al saldo, dichiarando compensate per 1/3 le spese processuali di primo grado e condannando la COGNOME al pagamento in favore della COGNOME dei 2/3 residui, determinati in € 5.200,00 per compensi oltre accessori, mentre nulla veniva disposto per le spese processuali di secondo grado in ragione della contumacia della COGNOME.
A tale determinazione riduttiva del credito della COGNOME verso la COGNOME la Corte d’Appello perveniva, in quanto riteneva che il credito per compenso di collaborazione professionale di €
17.000,00, autonomamente riconosciuto in primo grado alla COGNOME, fosse in realtà già ricompreso nell’importo di €29.760,00 degli assegni a firma della COGNOME, valevoli, come il riconoscimento di debito del 23.3.2006, a determinare l’inversione dell’onere probatorio, e sosteneva che la COGNOME non aveva dimostrato l’inesistenza del suo debito verso la COGNOME risultante dalla differenza tra l’importo degli assegni a firma COGNOME ed il compenso professionale (€ 29.760,00 -€ 17.000,00), pari ad €12.760,00, sommata al riconoscimento di debito di € 6.200,00.
Avverso tale sentenza, non notificata, ha proposto ricorso alla Suprema Corte, notificato a COGNOME Chiara il 28.6.2019, COGNOME NOME ammessa al patrocinio a spese dello Stato, affidandosi a sei motivi, mentre la COGNOME é rimasta intimata.
La causa é stata trattenuta in decisione nell’adunanza camerale del 6.12.2023.
Col primo motivo la ricorrente lamenta, in relazione all’art. 360 comma primo n. 4) c.p.c., la nullità della sentenza impugnata per violazione o falsa applicazione dell’art. 112 c.p.c. per omissione di pronuncia sull’eccezione di abuso di biancosegno.
Il primo motivo, col quale si sostiene che il contratto di collaborazione professionale dell’1.9.2005 sarebbe derivato dall’abusivo riempimento di un foglio firmato in bianco dalla COGNOME e riempito in assenza di accordo tra le parti (ossia absque pactis e non come erroneamente indicato contra pacta non essendovi stato alcuno specifico accordo di riempimento violato) é inammissibile, in quanto la ricorrente, avendo lamentato la violazione dell’art. 112 c.p.c., aveva l’onere di riportare la comparsa di costituzione del giudizio di primo grado e l’atto di appello nelle parti in cui avrebbe sollevato l’eccezione di abuso di biancosegno, ed a ciò va aggiunto che per lamentare un riempimento absque pactis sarebbe stata necessaria la proposizione di querela di falso, che la ricorrente non ha dedotto di avere proposto.
Col secondo motivo la ricorrente lamenta, in relazione all’art. 360 comma primo n. 3) e 4) c.p.c., la violazione e falsa applicazione degli articoli 2721, 2722 e 2723 cod. civ. e degli articoli 115 e 116 c.p.c., il travisamento delle prove orali e la violazione delle regole in tema di capacità dei testimoni ex art. 246 c.p.c. e di attendibilità dei testimoni, ed in relazione all’art. 360 comma primo n. 5) c.p.c. l’omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio che é stato oggetto di discussione tra le parti.
Si duole la ricorrente che la Corte d’Appello, seguendo il giudice di primo grado, abbia ritenuto in base al contratto di collaborazione professionale prodotto, ai documenti depositati ed alle prove testimoniali acquisite, che sia stata considerata dimostrata la collaborazione professionale dell’avv. NOME COGNOME con l’avv. NOME COGNOME per dieci mesi, e contrappone una propria diversa interpretazione delle risultanze istruttorie, ma il ricorso é inammissibile in quanto non individua il fatto storico decisivo che non sarebbe stato considerato, mira ad ottenere una diversa ricostruzione dei fatti da parte della Suprema Corte, che é giudice di legittimità, e non considera che la valutazione dell’attendibilità dei testimoni e del peso da attribuire all’una, o all’altra prova, sono riservate ai giudici di merito nell’esercizio del loro libero convincimento, a meno che non siano state commesse violazioni sull’onere della prova, o siano state utilizzate prove non dedotte, o inesistenti negli atti processuali, o sul valore delle prove legali, ipotesi nella specie neppure avanzate.
Col terzo motivo la ricorrente lamenta, in relazione all’art. 360 comma primo n. 4) c.p.c., la violazione dell’art. 1988 cod. civ., in relazione all’art. 360 comma primo n. 3) c.p.c. la violazione degli articoli 2730 cod. civ. e 115 c.p.c., e l’omesso esame di un fatto decisivo oggetto di discussione tra le parti.
Sostiene la ricorrente che avendo la controparte confessato nella memoria depositata nel procedimento esecutivo del Tribunale
di Parma n. 101/2007 RGE il 23.7.2009 che gli assegni bancari in forza dei quali aveva ottenuto l’ordinanza ex art. 186 ter c.p.c., costituente il titolo esecutivo, le erano stati consegnati in pagamento delle sue competenze professionali quale collaboratrice dell’avv. NOME COGNOME gli assegni stessi non potevano essere considerati dalla Corte d’Appello come promesse di pagamento.
Tale motivo é inammissibile, perché cela dietro alle invocate violazioni di legge, la pretesa di ottenere dalla Suprema Corte una diversa ricostruzione dei fatti, che non é consentita perché riservata ai giudici di merito.
La Corte d’Appello, peraltro, tenendo conto del fatto che nell’ambito del procedimento esecutivo la COGNOME aveva riconosciuto che gli assegni bancari per complessivi € 29.760,00 le erano stati rilasciati per il credito professionale derivante dal contratto di collaborazione con la COGNOME, di € 17.000,00, ha plausibilmente concluso che tale ultimo importo non poteva essere sommato all’importo integrale degli assegni, come avvenuto nella sentenza di primo grado, mantenendo comunque l’effetto dell’inversione dell’onere probatorio per la differenza di €12.760,00 e per il riconoscimento di debito di € 6.200,00 del 23.3.2006, e considerando non assolto l’onere di fornire la prova dell’estinzione del debito da parte della COGNOME.
Col quarto motivo la ricorrente lamenta, in relazione all’art. 360 comma primo n. 3) c.p.c., la violazione o falsa applicazione dell’art. 1988 cod. civ. e/o dell’art. 1813 cod. civ..
La ricorrente ipotizza che gli assegni consegnati alla Ventura fossero assegni di comodo, e sottolinea che, essendo privi di data di emissione, non potevano essere considerati dalla Corte d’Appello come promesse di pagamento, ancora una volta inammissibilmente richiedendo alla Suprema Corte di valutare diversamente in punto di fatto il rapporto intercorso tra le parti.
Col quinto motivo la ricorrente lamenta, in relazione all’art. 360 comma primo n. 3) c.p.c., la violazione degli articoli 246, 244 e 115 c.p.c..
Si duole la ricorrente che la Corte d’Appello abbia ritenuto provata tramite tutte le testimonianze acquisite la circostanza che l’avv. COGNOME abbia lavorato per dieci mesi presso lo studio dell’avv. NOME COGNOME utilizzando una stanza e le dotazioni tecniche necessarie, senza minimamente vagliare i profili d’incapacità dei testimoni COGNOME NOME ed COGNOME NOME, che insieme alla COGNOME ed al COGNOME, e contro la COGNOME, avevano chiesto ante causam sequestro conservativo, eseguendolo su un immobile della COGNOME, agendo poi nel merito separatamente allo scopo di spalleggiarsi con le proprie deposizioni, avendo quindi un interesse personale che ne avrebbe legittimata la partecipazione al processo, profili d’incapacità, prima ancora che di inattendibilità, che erano stati tempestivamente eccepiti dalla COGNOME e riproposti in appello.
Aggiunge la ricorrente che le deposizioni de relato actoris, essendo basate su fatti riferiti dalla parte medesima, sono sostanzialmente nulle e prive di qualunque efficacia probatoria (Cass. n. 313/2011), e che invece la Corte d’Appello dopo avere ammesso le testimonianze su capitoli inammissibili, aveva enfatizzato la portata probatoria delle deposizioni dagli stessi rese.
Sottolinea poi la ricorrente che la teste COGNOME mostrando uno zelo sospetto, aveva risposto anche a capitoli di prova testimoniale non ammessi (l’unico ammesso era per lei il capitolo 9), riferendo fatti che le erano stati riferiti dalla COGNOME e confermati dalla COGNOME, e che il teste COGNOME che al pari della COGNOME, con la quale era all’epoca fidanzato, aveva dichiarato di avere versato € 10.000,00 alla COGNOME per l’acquisto di un’autorimessa in Parma, INDIRIZZO nel marzo 2006, poi sfumato per indisponibilità del locale, e di avere ricevuto dopo
pochi giorni la promessa di restituzione dell’acconto prezzo versato dalla COGNOME senza mai ottenerla, aveva reso dichiarazioni su fatti riferiti dalla COGNOME, o dalla COGNOME, privi di valore probatorio, con una deposizione, anche in questo caso, viziata da nullità per incapacità a deporre.
Anzitutto, sotto il profilo dell’inammissibilità del motivo, occorre sottolineare che la ricorrente non ha provveduto ad indicare puntualmente nel ricorso ed a riprodurre il contenuto delle sue difese, con le quali avrebbe eccepito preventivamente rispetto all’escussione l’incapacità a deporre dei testimoni COGNOME e COGNOME e poi ribadito tale incapacità, e la conseguente nullità delle deposizioni, derivante dalla violazione dell’art. 246 c.p.c., fino alla precisazione delle conclusioni del giudizio di primo grado, verificandosi così la sanatoria dell’invocata nullità ex art. 156 c.p.c. prima ancora della proposizione del terzo motivo di appello.
La ricorrente, inoltre, non ha argomentato in ordine alla decisività delle deposizioni dei testi COGNOME e COGNOME nell’impianto motivazionale della sentenza impugnata, che non si é neppure espressa specificamente, quanto al terzo motivo di appello, sulla lamentata incapacità a deporre dei testi COGNOME e COGNOME, in quanto ha ritenuto comunque comprovati, a prescindere da tali deposizioni, i crediti della COGNOME verso la COGNOME sulla base del coacervo di prove testimoniali e documentali (in particolare il contratto di collaborazione professionale) acquisite, e soprattutto in virtù dell’inversione dell’onere probatorio discendente dalle promesse di pagamento insite negli assegni bancari e dal riconoscimento di debito del 23.3.2006 a firma della COGNOME, seguita dalla mancata prova dell’estinzione del debito da parte della stessa.
La giurisprudenza di questa Corte comunque, per quanto riguarda il giudizio sulla capacità del teste citato dalla parte, ha ritenuto insindacabile il giudizio espresso dal giudice del merito
sulla capacità dei testi (Cass. 15.5.2023 n. 13169; Cass. n. 1188/2007). Infatti, si è detto che ” la valutazione della sussistenza o meno dell’interesse che dà luogo ad incapacità a testimoniare, ai sensi dell’art. 246 c.p.c., è rimessa -così come quella inerente all’attendibilità dei testi e alla rilevanza delle deposizioni -al giudice del merito, ed è insindacabile in sede di legittimità se congruamente motivata “.
Il giudizio di legittimità sulla capacità dei testi escussi, pertanto, è ristretto alle ipotesi di errata applicazione della norma che regola l’incapacità a testimoniare, dovendosi il giudizio concentrare sull’interesse del teste che la norma di cui all’art. 246 c.p.c. intende escludere dal processo instaurato da una parte, e dunque sulla situazione di conflitto di interessi tra testi e parti che determina la sua incapacità a testimoniare.
In proposito, si osserva che l’art. 100 c.p.c. rappresenta la norma cardine del sistema processuale con riguardo alla valutazione dell’interesse nel processo sia delle parti che dei testimoni, questi ultimi da ritenersi incapaci se portatori di ” un interesse che potrebbe legittimarli a partecipare al giudizio ” ex art. 246 c.p.c.
Sotto il profilo della rilevanza dell’art. 100 c.p.c., si rammenta quanto riferito da questa Corte allorché si è pronunciata riguardo a contesti in cui le parti chiamate a testimoniare dimostrino sul piano giuridico interessi comuni a quelli delle parti processuali, ove l’elemento di discrimine per poter considerare la loro capacità a testimoniare è dato dall’interesse concreto e attuale, e non ipotetico, che potrebbe avere un teste all’esito del giudizio in cui viene chiamato a rendere la propria testimonianza.
In ipotesi di potenziale conflitto di interessi tra parti e testimoni citati, dunque, è necessario comparare l’interesse della parte che agisce rispetto a quello del teste citato, e misurare quest’ultimo sulla base del suo interesse particolare all’esito della controversia
instaurata dalla parte ed alle circostanze per cui è chiamato a rendere la sua deposizione.
Tornando al caso in esame, l’interesse che avrebbe potuto rendere incapaci di deporre i testi COGNOME ed COGNOME andava valutato in relazione al giudizio di merito promosso dalla sola COGNOME nel quale sono stati escussi, concernente unicamente i crediti professionali e restitutori dalla stessa vantati nei confronti della COGNOME, non potendosi invece rapportare al sequestro conservativo ante causam che il COGNOME e la COGNOME avevano chiesto insieme alla COGNOME nei confronti della COGNOME, dal momento che i tre hanno poi agito separatamente per far valere i rispettivi ed autonomi crediti nei giudizi di merito. I testi COGNOME ed COGNOME, infatti, essendo estranei ai crediti professionali e restitutori azionati nel giudizio di merito dalla COGNOME nei confronti della COGNOME, non avrebbero mai potuto spiegare neppure un intervento ad adiuvandum in tale giudizio, non avendo alcun interesse personale concreto ed attuale, e non meramente ipotetico, che li legittimasse a partecipare a tale giudizio, sicché per loro si poneva semmai una questione di attendibilità, la cui valutazione é riservata al giudice di merito, e non di capacità a deporre.
Del resto, l’incapacità a testimoniare prevista dall’art. 246 c.p.c. ricorre quando la persona chiamata a deporre abbia nella causa un interesse che sia tale da coinvolgerla nel rapporto controverso e da legittimare una sua assunzione della qualità di parte in senso sostanziale e processuale nel giudizio (Cass. 15.5.2023 n. 13169; Cass. n. 11314/2010; Cass. n. 3846/1995; Cass. n. 5919/1993).
Col sesto ed ultimo motivo la ricorrente si duole, in relazione all’art. 360 comma primo n. 3), 4) e 5) c.p.c., della violazione e falsa applicazione degli articoli 91 e 92 c.p.c., per non avere accolto la Corte d’Appello il motivo d’impugnazione relativo alle spese del giudizio di primo grado, compensate solo per 1/3 con condanna
della Contini ai residui 2/3, e non integralmente, e per avere applicato il criterio della soccombenza anche per le spese processuali di secondo grado.
Va premesso che nella specie erano applicabili gli articoli 91 e 92 c.p.c. nella formulazione anteriore alla riforma apportata dalla L. n. 263/2005, entrata in vigore il 4.7.2009 solo per i giudizi introdotti in data successiva, per cui la compensazione delle spese processuali poteva essere disposta nel caso in esame per soccombenza reciproca, o per altri giusti motivi.
Il motivo é inammissibile, in quanto non e’ possibile sindacare in sede di legittimità la decisione del giudice di merito di compensare in parte le spese processuali, posto che ” La valutazione delle proporzioni della soccombenza reciproca e la determinazione delle quote in cui le spese processuali debbono ripartirsi o compensarsi tra le parti, ai sensi dell’art. 92 c.p.c., comma 2, rientrano nel potere discrezionale del giudice di merito, che resta sottratto al sindacato di legittimità, non essendo egli tenuto a rispettare un’esatta proporzionalità fra la domanda accolta e la misura delle spese poste a carico del soccombente ” (Cass. n. 30592 del 20.12.2017; Cass. ord. n. 8421 del 31.3.201; Cass. n. 2149 del 31.1.2014; Cass. n. 1703 del 24.1.2013).
In ogni caso il motivo é anche infondato, in quanto il governo delle spese del giudizio, quando il giudice di seconde cure riforma in tutto o in parte la sentenza di primo grado, va operato tenendo conto dell’esito complessivo del giudizio, anche a prescindere dall’esistenza di uno specifico motivo di impugnazione (Cass. ord. n. 9064 del 12.4.2018). Non si configura alcuna violazione di legge nella decisione di adottare una compensazione parziale delle spese del primo grado del giudizio di merito, poiché ” In tema di spese processuali, l’accoglimento in misura ridotta, anche sensibile, di una domanda articolata in un unico capo non dà luogo a reciproca soccombenza, configurabile esclusivamente in presenza di una
pluralità di domande contrapposte formulate nel medesimo processo tra le stesse parti o in caso di parziale accoglimento di un’unica domanda articolata in più capi, e non consente quindi la condanna della parte vittoriosa al pagamento delle spese processuali in favore della parte soccombente, ma può giustificarne soltanto la compensazione totale o parziale, in presenza degli altri presupposti previsti dall’art. 92 c.p.c., comma 2 ” (Cass. sez. un. n. 32061 del 31.10.2022).
Relativamente al giudizio di secondo grado, poi, la Corte d’Appello, essendo rimasta contumace in appello la COGNOME, ha tenuto conto dell’esito finale della lite e non ha condannato la COGNOME, prevalentemente soccombente secondo l’esito finale, al pagamento di parte delle spese processuali di secondo grado, in ragione della contumacia della COGNOME, ma certo non avrebbe potuto condannare quest’ultima, prevalentemente vittoriosa secondo l’esito finale complessivo della lite, al pagamento in tutto o in parte delle spese processuali di secondo grado a favore della controparte, perché così facendo avrebbe violato il principio della soccombenza e l’orientamento consolidato della Suprema Corte, che impone, quando il giudizio si articoli in più gradi, di tener conto dell’esito finale della lite, senza differenziazioni legate ai diversi esiti dei gradi di giudizio.
Nulla va disposto per le spese processuali di questo grado, in quanto la COGNOME é rimasta intimata.
Essendovi stata ammissione della ricorrente al patrocinio a spese dello Stato, il rigetto dell’impugnazione preclude l’applicazione del disposto di cui al D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater (Cass. 11.9.2019 n. 22646; Cass. sez. lav. 5.6.2017 n. 13935; Cass. 22.3.2017 n. 7368; Cass. sez. lav. 2.4.2014 n. 18523).
P.Q.M.
La Corte di Cassazione, sezione seconda civile, respinge il ricorso.
Così deciso in Roma nella camera di consiglio del 6.12.2023