Ordinanza di Cassazione Civile Sez. 1 Num. 26375 Anno 2024
Civile Ord. Sez. 1 Num. 26375 Anno 2024
Presidente: COGNOME NOME
Relatore: COGNOME NOME
Data pubblicazione: 10/10/2024
ORDINANZA
sul ricorso iscritto al n. 24561/2023 R.G. proposto da : COGNOME NOME, NOME, elettivamente domiciliati in Bari INDIRIZZO, presso lo studio dell’avvocato COGNOME NOME (CODICE_FISCALE) che li rappresenta e difende unitamente agli avvocati COGNOME NOME (CODICE_FISCALE), COGNOME NOME (CODICE_FISCALE), come da procura speciale in atti.
-ricorrente-
contro
RAGIONE_SOCIALE, in persona del Ministro p.t., PRESIDENZA RAGIONE_SOCIALE in persona del Presidente del Consiglio p.t., domiciliati ex lege in INDIRIZZO, presso l’AVVOCATURA GENERALE RAGIONE_SOCIALEO STATO (P_IVA) che li rappresenta e difende ope legis.
-controricorrenti- avverso il DECRETO della CORTE D’APPELLO di BARI n. 2514/2023 depositata il 31/08/2023.
Udita la relazione svolta nella camera di consiglio del 26/09/2024 dal Consigliere NOME COGNOME.
RILEVATO CHE:
1.- A seguito del provvedimento di scioglimento del consiglio comunale del Comune di Trinitapoli, disposto ai sensi dell’art. 143 del d.lgs. n.267/2000 (TUEL) con d.P.R. 5 aprile 2022 (pubblicato in G.U., serie Generale, n. 103 del 4 maggio 2022), con nota riservata del 27 aprile 2022, il Ministro dell’Interno trasmise al Tribunale di AVV_NOTAIO – per le finalità di cui all’art. 143, comma 11, del TUEL – copia del suddetto decreto del Presidente della Repubblica, unitamente a copia della proposta al Presidente della Repubblica e della relazione del AVV_NOTAIO di AVV_NOTAIO, costituenti parte integrante del provvedimento adottato nei riguardi del Comune di Trinitapoli.
All’esito del relativo giudizio, per quanto interessa, il Tribunale, con decreto n. 6242/2022, accolta la richiesta di incandidabilità del sindaco COGNOME, rigettò la richiesta di incandidabilità avanzata per l’assessore NOME COGNOME, titolare di deleghe al bilancio, finanze, tributi e patrimonio, oltre che, all’ecologia, e la richiesta di incandidabilità avanzata per l’assessore NOME COGNOME, già vice-sindaco della precedente Giunta guidata dal sindaco NOME COGNOME (fratello di NOME COGNOME Feo) con cui il sindaco COGNOME si era posta in linea di continuità, con deleghe alle politiche sociali, alla polizia locale e alla pubblica sicurezza nella Giunta COGNOME.
La Corte di appello di Bari ha accolto il reclamo presentato dall’Amministrazione e ha dichiarato NOME COGNOME e NOME COGNOME non candidabili alle elezioni per la Camera dei Deputati, per il Senato della Repubblica e per il Parlamento europeo, nonché alle elezioni regionali, provinciali, comunali e circoscrizionali, in relazione ai due turni elettorali successivi al d.P.R. del 5.4.2022, ai sensi e per gli effetti di cui all’art. 143, comma 11 del TUEL.
NOME COGNOME e NOME COGNOME hanno proposto ricorso chiedendo la cassazione del decreto in epigrafe, con quattro motivi. Le Amministrazioni intimate hanno replicato con controricorso.
I ricorrenti hanno depositato memoria illustrativa.
È stata disposta la trattazione camerale ai sensi dell’art. 380 -bis.1 cod. proc. civ.
CONSIDERATO CHE:
– Il ricorso è articolato nei seguenti motivi:
Primo motivo error in iudicando ex art. 360, co. 1, n. 5, c.p.c. per violazione e falsa applicazione dell’art.2700 c.c. consistita nella errata attribuzione probatoria data alla richiesta ministeriale ed alla relazione prefettizia e per omesso esame di un fatto decisivo;
II) Secondo motivo error in iudicando de iure procedendo ex art. 360, co. 1, n. 3, c.p.c. per violazione e falsa applicazione del combinato disposto degli artt. 739 e 669-terdecies c.p.c., nonché per violazione del diritto di difesa di cui all’art. 24 Cost.;
III) Terzo motivo Error in iudicando ex art. 360, co. 1, n. 3, c.p.c. per violazione e falsa applicazione dell’art. 143, co. 4 ed 11, D.Lgs. 18/08/2000, n. 267 (c.d. TUEL), nonché degli art. 48 e 147bis TUEL;
IV) Quarto motivo Error in iudicando ex art. 360, co. 1, n. 3, c.p.c. per violazione e falsa applicazione dell’art. 143, commi 4 ed 11, D.Lgs. 18/08/2000, n. 267 (c.d. TUEL) sotto ulteriore profilo della errata individuazione della persona di NOME COGNOME, scambiato per il fratello NOME COGNOME, avvocato penalista.
3.- Per inquadrare le questioni denunciate, è opportuno ricordare che, come hanno osservato le Sezioni Unite di questa Corte, «la misura interdittiva della incandidabilità dell’amministratore responsabile delle condotte che hanno dato causa allo scioglimento del consiglio comunale conseguente a fenomeni di infiltrazione di tipo mafioso o similare nel tessuto istituzionale locale, privando temporaneamente il predetto soggetto della possibilità di candidarsi
nell’ambito di competizioni elettorali destinate a svolgersi nello stesso territorio regionale, rappresenta un rimedio di extrema ratio volto ad evitare il ricrearsi delle situazioni che la misura dissolutoria ha inteso ovviare, e a salvaguardare così beni primari dell’intera collettività nazionale – accanto alla sicurezza pubblica, la trasparenza e il buon andamento delle amministrazioni comunali nonchè il regolare funzionamento dei servizi loro affidati, capaci di alimentare la “credibilità” delle amministrazioni locali presso il pubblico e il rapporto di fiducia dei cittadini verso le istituzioni -, beni compromessi o messi in pericolo, non solo dalla collusione tra amministratori locali e criminalità organizzata, ma anche dal condizionamento comunque subito dai primi, non fronteggiabile, secondo la scelta non irragionevolmente compiuta dal legislatore, con altri apparati preventivi o sanzionatori dell’ordinamento» (Cass. Sez. U. n. 1747/2015; nel medesimo senso Cass. n. 1333/2017) e tale misura non è in contrasto con la Costituzione, attesa la sua temporaneità.
Va osservato che l’accertamento della incandidabilità degli amministratori, ai sensi dell’art. 143, comma 11, del TUEL di cui al d.lgs. n. 267/2000, attiene alle condotte che hanno dato causa allo scioglimento dell’organo consiliare, non alla valutazione del provvedimento amministrativo di scioglimento dell’organo, che quelle hanno pure generato, ed è disposto, ai sensi del precedente comma 3, del menzionato art. 143 TUEL, con d.P.R. (‘su proposta del Ministro dell’interno, previa deliberazione del Consiglio dei ministri entro tre mesi dalla trasmissione della relazione di cui al comma 3, ed è immediatamente trasmesso alle Camere’).
In sostanza, la valutazione della legittimità del provvedimento Presidenziale fuoriesce dal thema decidendum , costituendo l’atto un mero presupposto dell’indagine, svolta in sede amministrativa, che ha ad oggetto, invero, la responsabilità degli amministratori dell’ente locale con riferimento alle loro condotte (omissive o commissive) che
hanno dato causa allo scioglimento dell’organo consiliare o ne siano state una concausa (Cass. n. 3024/2019).
La dichiarazione d’incandidabilità degli amministratori, infatti, non consegue automaticamente al provvedimento di scioglimento dell’amministrazione comunale, ma ha carattere autonomo fondato su presupposti diversi. Del resto, il procedimento giurisdizionale per la dichiarazione di incandidabilità ex art. 143, comma 11, TUEL è autonomo anche rispetto a quello penale, in quanto la misura interdittiva elettorale non richiede che la condotta dell’amministratore dell’ente locale integri gli estremi del reato di partecipazione ad associazione mafiosa o concorso esterno nella stessa, essendo sufficiente che egli sia stato in colpa nella cattiva gestione della cosa pubblica, aperta alle ingerenze e alle pressioni delle associazioni criminali operanti sul territorio (Cass. Sez. U. n. 1747/2015; Cass. n. 19407/2017). È sufficiente, in proposito, accertare la presenza di elementi di collegamento tra l’amministratore locale e l’oggetto dell’addebito, tali da essere ritenuti idonei ad influenzare e condizionare la formazione della volontà dell’ente pubblico, senza che la condotta dell’amministratore debba necessariamente assumere una connotazione penalmente rilevante (cfr. Cass. n. 21976 /2024; Cass. n. 395 /2021, in motivazione; Cass. n. 5941/2020). Vanno pertanto evidenziate collusioni con la criminalità organizzata di tipo mafioso o similare o condizionamenti degli amministratori, che abbiano determinato «una situazione di cattiva gestione della cosa pubblica, aperta alle ingerenze esterne e asservita alle pressioni inquinanti delle associazioni criminali operanti sul territorio» (Cass. Sez. U. n. 1747/2015; Cass. n. 19407/2017; Cass. n. 15038/2018).
Inoltre, ai fini della dichiarazione d’incandidabilità, è stata ritenuta insufficiente una valutazione globale delle vicende dell’amministrazione, richiesta invece per il provvedimento di scioglimento, attesa la natura personale della misura prevista a
carico degli amministratori, volta a colpire «esclusivamente coloro che sono responsabili del degrado dell’ente» , con necessità quindi «di una maggiore individualizzazione degli elementi di addebito, attraverso un esame specifico della condotta tenuta da ciascun amministratore» (Cass. n. 8030/2020; v. anche Cass. n. 395/2021).
Come già puntualizzato, l’incandidabilità non è automatica, ma richiede una valutazione delle singole posizioni, in nome del diritto all’elettorato passivo, al fine di verificare che collusioni e condizionamenti abbiano determinato una cattiva gestione della cosa pubblica. Lo scopo del legislatore è, infatti, quello di arginare il pervicace fenomeno dell’infiltrazione della criminalità di stampo mafioso all’interno dell’apparato burocratico degli enti locali attraverso la predisposizione di un peculiare procedimento di verifica dell’esistenza di possibili collegamenti tra i consigli comunali ovvero tra i singoli amministratori o dipendenti dell’Amministrazione e le organizzazioni criminali (Cass. n. 4226/2021, in motivazione).
Da ciò consegue che, ai fini della declaratoria di incandidabilità, deve considerarsi necessaria la sussistenza di risultanze concrete, fattuali, univoche e rilevanti, in quanto significative di forme di condizionamento, al fine di attuare una giusta ponderazione tra valori costituzionali parimenti garantiti, che nel caso specifico sono, da un lato, l’espressione della volontà popolare e, dall’altro, la tutela dei principi di imparzialità, buon andamento e regolare svolgimento dell’attività amministrativa.
In proposito, va rimarcato che l’elemento soggettivo dell’amministratore può consistere anche solo nel non essere riuscito a contrastare efficacemente le ingerenze e pressioni delle organizzazioni criminali operanti nel territorio, mentre l’elemento oggettivo richiede la verifica di una condotta inefficiente, disattenta ed opaca che si sia riflessa sulla cattiva gestione della cosa pubblica e che il mero fatto di aver assunto un ruolo di vertice all’interno dell’amministrazione comunale non esime il giudice dal considerare
se, in concreto, vi sia stata o meno, da parte del sindaco o dell’assessore, una condotta quantomeno agevolativa, anche attraverso un agire omissivo, degli interessi delle cosche locali (cfr. Cass. n. 395/2021, in motivazione).
Inoltre la valutazione della sussistenza di condotte rilevanti ai fini della dichiarazione di incandidabilità di cui all’art. 143, comma 11, del d.lgs. n. 267 del 2000, non deve essere compiuta in modo parcellizzato, isolando ciascun comportamento ed esaminandolo singolarmente, dovendo piuttosto essere effettuata in modo complessivo, tale da non tralasciare ed anzi valorizzare le interconnessioni tra le condotte stesse, dalla cui trama ben può emergere la sussistenza dei presupposti per l’incandidabilità (Cass. n. 21976/2024; Cass. n.25380/2023).
Nel caso in esame, la Corte d’appello ha recepito le valutazioni effettuate dall’autorità amministrativa, procedendo ad un’autonoma disamina delle singole circostanze fattuali, premettendo, in linea con i principi ricordati, proprio l’assenza di ogni automatismo tra scioglimento del singolo consiglio comunale e declaratoria di incandidabilità degli amministratori e la decisione, risulta immune da vizi denunciati, di seguito specificamente esaminati.
4.1.- Il primo motivo, con cui si denuncia error in iudicando ex art. 360, co. 1, n. 5, c.p.c. per violazione e falsa applicazione dell’art.2700 c.c. e per omesso esame di un fatto decisivo, deve essere disatteso.
Sotto un primo profilo, va osservato che la prospettazione della violazione dell’art.2700 c.c. è svolta deducendo che la valutazione relativa all’assolvimento dell’onere probatorio, gravante sulle amministrazioni istanti, svolta dalla Corte di appello, apparirebbe censurabile sotto il profilo dell’erroneo apprezzamento sull’esito della prova ed alla errata attribuzione probatoria data alla richiesta ministeriale ed alla relazione prefettizia.
Inoltre, è dedotto l’omesso esame di determinati fatti reputati decisivi dai ricorrenti.
Con riferimento alla posizione di COGNOME, si lamenta che gli addebiti che in secondo grado di giudizio avevano condotto alla sua incandidabilità risultavano frutto di una omessa o errata valutazione di fatti decisivi e precisamente che: 1) alla data di erogazione del contributo (determina 21/9/2021) alla convivente di COGNOME, ella non era più assessore delegato alla polizia municipale e pertanto non poteva esserle addebitata neanche una responsabilità da ‘posizione’; 2) quanto alla disponibilità di mezzi di locomozione di proprietà del Comune da parte di personale di un Consorzio cui era affidata la guardiania lungo le strade di interesse comunale, era stata omessa la valutazione di alcune circostanza e cioè che l’affidamento della guardiania risaliva al 2004, che nel 2014 l’Amministrazione comunale aveva deliberato di entrare a far parte del Consorzio, che nel 2017 era stato autorizzato la concessione in comodato di mezzi dismessi della Polizia locale; 3) con riferimento agli alloggi popolari, illegittimamente occupati da esponenti della criminalità locale, i fatti risalivano agli anni 2014/2015 e la responsabilità della odierna ricorrente discendeva esclusivamente dalla ‘carica’ rivestita, dal momento che nessuna analisi della condotta del singolo amministratore era stata in concreto effettuata.
Quindi, con riferimento alla posizione di COGNOME, si lamenta che gli addebiti che in secondo grado di giudizio avevano condotto alla sua incandidabilità risultavano frutto di una omessa o errata valutazione di fatti decisivi e precisamente che: 1) gli affidamenti diretti alla RAGIONE_SOCIALE, non potevano essere imputati all’odierno ricorrente nemmeno a titolo di responsabilità da ‘posizione’ perché gli affidamenti antecedenti al 10/09/2021 (data in cui il ricorrente venne estromesso dalla Giunta) erano stati disposti dal Responsabile dell’UTC, unico soggetto competente a provvedere, e dunque nessuna responsabilità può essere addebitata a COGNOME. Neppure gli
affidamenti successivi al 10/09/2021 possono essere ascritti al ricorrente, atteso che il medesimo non era più assessore; 2) i fatti riguardanti la gestione degli alloggi popolari risalivano agli anni 2014/2015, data in cui il ricorrente non ricopriva alcuna carica; egli non aveva alcuna competenza rispetto a tale settore, e che dunque nessuna responsabilità gli poteva essere imputata, nemmeno in ragione della sua ‘posizione’.
4.2.- In relazione all’asserita violazione di legge, la doglianza risulta inammissibile perché oblitera totalmente il pacifico principio secondo cui il vizio di un provvedimento decisorio previsto dall’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3 deve essere dedotto, a pena di inammissibilità del motivo, in osservanza dell’onere di specificità sancito dall’art. 366, comma 1, n. 4), c.p.c., non solo con la indicazione delle norme assuntivamente violate, ma anche, e soprattutto, mediante specifiche argomentazioni intelligibili ed esaurienti intese a motivatamente dimostrare in quale modo determinate affermazioni in diritto contenute nella decisione gravata debbano ritenersi in contrasto con le indicate norme regolatrici della fattispecie o con l’interpretazione delle stesse fornita dalla giurisprudenza di legittimità, diversamente impedendosi alla Corte regolatrice di adempiere al suo istituzionale compito di verificare il fondamento della lamentata violazione (cfr., tra le più recenti, Cass. n. 16700/2020), non potendosi demandare alla Corte il compito di individuare – con una ricerca esplorativa ufficiosa, che trascende le sue funzioni – la norma violata o i punti della sentenza che si pongono in contrasto con essa (Cass. Sez. U. n. 23745/2020).
Nel caso in esame la censura riferita alla violazione dell’art.2700 c.c. (efficacia dell’atto pubblico) si sostanzia in una articolata esposizione della giurisprudenza di legittimità (fol.7/9) senza che siano espresse specifiche argomentazioni intelligibili ed esaurienti riferite al decreto impugnato, intese a motivatamente dimostrare in quale modo determinate affermazioni in diritto contenute nella
decisione con riferimento agli atti redatti da pubblici ufficiali e confluiti nel giudizio debbano ritenersi in contrasto con la norma in esame e con l’interpretazione della stessa desumibile dai precedenti di legittimità riportati.
Inoltre, la denuncia di violazione di legge ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, ivi formalmente proposta, non può essere mediata dalla riconsiderazione delle risultanze istruttorie (cfr. Cass. n. 195/2016; Cass. n. 26110/2015), posto che non è consentita in sede di legittimità una valutazione delle prove ulteriore e diversa rispetto a quella compiuta dal giudice di merito, a nulla rilevando che quelle prove potessero essere valutate anche in modo differente rispetto a quanto ritenuto dal giudice di merito (cfr., ex multis, Cass. n. 1636/2020; Cass. n. 7394/ 2010).
4.3.- Quanto alla censura svolta come vizio motivazionale, va ricordato che il motivo p roposto ex art.360, comma 1, n.5, c.p.c. presuppone l’omesso esame di un fatto controverso e decisivo per il giudizio, da intendersi riferito ad un preciso accadimento o una precisa circostanza in senso storico-naturalistico, come tale non ricomprendente questioni o argomentazioni (cfr., anche nelle rispettive motivazioni, Cass. n. 2195/2022; Cass. n. 595/2022; Cass. n. 395 del 2021; Cass. Sez. U. n. 16303/2018), sicché sono inammissibili le censure che irritualmente, estendano il paradigma normativo a quest’ultimo profilo.
Inoltre, non costituiscono ‘fatti’, il cui omesso esame possa cagionare il vizio ex art. 360, comma 1, n. 5, cod. proc. civ., gli elementi istruttori in quanto tali, quando il fatto storico da essi rappresentato sia stato comunque preso in considerazione dal giudice, come nel caso in esame, ancorché questo non abbia dato conto di tutte le risultanze probatorie astrattamente rilevanti (cfr. Cass. Sez. U. n. 8053/ 2014).
Nel caso in esame i ricorrenti non indicano fatti storici non esaminati dal giudice del merito, che risulta avere specificamente
preso in considerazione i fatti indicati, ma criticano la valutazione dei fatti e delle prove che è stata compiuta, che risulta svolta in maniera ampia ed argomentata (fol.28/35 del decr. imp.), e ne sollecitano un diverso apprezzamento, non consentito in sede di legittimità.
5.1.Il secondo motivo denuncia error in iudicando e in procedendo ex art. 360, co. 1, n. 3, c.p.c. per violazione e falsa applicazione del combinato disposto degli artt.739 e 669-terdecies c.p.c., nonché per violazione del diritto di difesa di cui all’art.24 Cost.
Si deduce che l’Avvocatura in sede di reclamo, avrebbe introdotto per la prima volta nuove contestazioni: a) la contestazione con cui erano state addebitate a COGNOME, quale Assessore delegato all’ecologia, alcune delibere dirigenziali di affidamento diretto ‘nel periodo intercorrente da marzo a giugno 2021’ ; b) la contestazione con cui era stata addebitata a COGNOME la vicenda relativa alla gestione degli alloggi popolari sul rilievo che ella era l’assessore competente con deleghe proprio alle Politiche Sociali, Polizia RAGIONE_SOCIALE e Pubblica RAGIONE_SOCIALE da cui era dedotta ‘la conseguente evidente responsabilità di quest’ultima sulle vicende occorse nell’ambito del settore.’.
Si sostiene che tali contestazioni hanno comportato una mutatio libelli ed erano da ritenere inammissibili perché svolte in violazione del divieto di ‘nova’ sancito dall’art.345 c.p.c. per il giudizio di appello, ritenuto applicabile.
5.2.- Il motivo è infondato.
5.3.In materia di incandidabilità alle elezioni degli amministratori responsabili delle condotte che abbiano dato causa allo scioglimento dei consigli provinciali o comunali, in conseguenza di infiltrazioni di stampo mafioso, la speciale modalità di introduzione del giudizio prevista dall’art. 143, comma 11, del d.lgs. n. 267/2000, mediante l’atto di trasmissione ministeriale, rappresenta una deroga alle regole comuni; tale atto di impulso non è perciò tenuto a soddisfare i requisiti ordinari, in particolare le previsioni di cui all’art.
125 c.p.c., e non risulta nullo qualora ometta di indicare nominativamente gli amministratori coinvolti nella procedura, o comunque non provveda ad esplicita menzione delle specifiche condotte che agli amministratori sono attribuite, in quanto rivelatrici della permeabilità dell’amministrazione locale alle influenze inquinanti delle consorterie criminali ( Cass. n. 10780 /2019).
Inoltre, le contestazioni possono emergere, oltre che dalla Relazione del Ministero e da quella prefettizia, anche da altri documenti acquisiti al processo (Cass. Sez. U. n. 1747/2015; Cass. 8056/2022).
Ai sensi dell’art.143, comma 11, ultima alinea, al procedimento si applicano, in quanto compatibili, le procedure di cui al libro IV, titolo II, capo VI, del c.p.c.
Nella indiscussa premessa che i fatti relativi alle delibere dirigenziali di affidamento di lavori alla società RAGIONE_SOCIALE ed alla gestione degli alloggi popolari non erano nuovi perché erano stati ampiamente esposti nella memoria di costituzione dell’Amministrazione sin dal primo grado – come la Corte di appello ha più volte affermato, senza essere censurata sul punto – e che in sede di reclamo vennero evidenziati alcuni collegamenti con le funzioni svolte dagli odierni ricorrenti per i quali la misura dell’incandidabilità era stata già richiesta, risulta decisivo sottolineare che, nel presente caso, trovano applicazione gli artt.737 e ss. c.p.c.
Invero, il rito adottato dal legislatore per i procedimenti ex art. 143, comma 11, del d.lgs. n. 267/2000, risulta regolato, in via generale, dagli artt. 737 e ss. del cod. proc. civ., e, quanto alle forme, in parte risulta disciplinato espressamente da tale normativa, mentre, nella parte non regolata, risulta rimesso nel suo svolgimento – che è attuato con impulso di ufficio – alla disciplina concretamente dettata dal giudice la quale dovrà garantire il rispetto del principio del contraddittorio e di quello del diritto di difesa.
Da ciò deriva, quanto al procedimento di primo grado, che in esso non vigano le preclusioni previste per il giudizio di cognizione ordinario, con la conseguenza che in esso: 1) potranno essere proposte per tutto il corso di esso domande nuove, 2) potranno essere ammesse altresì prove nuove, anche in correlazione con i fatti sopravvenuti dedotti nel corso del processo; fatti che – peraltro anche in questo caso il giudice dovrà e potrà prendere in esame se ed ove dedotti e sempre nei limiti delle domande proposte.
Quanto poi al giudizio di secondo grado nascente dal “reclamo”, fermo che quest’ultimo costituisce un mezzo di impugnazione avente carattere “devolutivo” e come tale ha per oggetto la revisione della decisione di primo grado nei limiti del “devolutum” e delle censure formulate ed in correlazione alle domande formulate in quella sede, in esso giudizio, mentre possono essere allegati – stante la libertà di forme proprie del procedimento – fatti nuovi, non possono essere proposte domande nuove, in quanto queste ultime snaturerebbero la natura del reclamo quale mezzo di impugnazione e, come tale, avente la funzione di rimuovere vizi del precedente provvedimento (Cass. n. 22716/2024; Cass. n.14022/2000).
Per tale ragione, talune norme del giudizio di cognizione ordinaria non sono applicabili, tra cui l’art. 190 c.p.c. (Cass. n.838/2023; Cass. n. 29865/2022), con riferimento al dovere di concedere termine per la redazione delle comparse conclusionali, oppure l’art. 352 c.p.c. (Cass. n. 1867/2016), mentre è consentita la produzione di nuovi documenti in sede di reclamo (Cass. n. 27234/2020) al di fuori degli stretti limiti dettati dall’art. 345 c.p.c., alla sola condizione che sia assicurato, come in tutte le procedure soggette al rito camerale – un pieno e completo contraddittorio tra le parti (Cass. n. 17931/2022; Cass. n. 8547/2003; Cass. n. 1656/2007).
Pertanto, il rito camerale previsto per il reclamo, essendo caratterizzato dalla sommarietà della cognizione e dalla semplicità delle forme, esclude la piena applicabilità delle norme che regolano
il processo ordinario (Cass. n. 22716/2024; Cass. n. 1179/2006 e Cass. n. 6094/2018).
Inoltre, come si desume da Cass. n. 3924/2012, citata dagli stessi ricorrenti, il reclamo «costituisce un mezzo di impugnazione, ancorché devolutivo, e come tale ha per oggetto la revisione della decisione di primo grado nei limiti del “devolutum” e delle censure formulate ed in correlazione alle domande proposte in quella sede con la conseguenza che in sede di reclamo, mentre possono essere allegati, stante la libertà di forme proprie del procedimento, fatti nuovi, non possono essere proposte nuove eccezioni in senso stretto, che snaturerebbero il reclamo stesso quale mezzo di impugnazione e, come tale, avente la funzione di rimuovere vizi del precedente provvedimento.» : ciò esclude che in sede di reclamo possano essere proposte domande o eccezioni nuove, ma non che possano essere allegati fatti nuovi (in questi sensi, in materia fallimentare, anche Cass. n.1169/2017; Cass. n. 11216/2021; Cass. n.35423 /2023) alla sola condizione che sia assicurato, come in tutte le procedure soggette al rito camerale – un pieno e completo contraddittorio tra le parti, come, nel caso di specie, è avvenuto.
5.4.- La censura, dunque, non coglie nel segno, in quanto invoca l’applicazione delle disposizioni e dei principi propri del giudizio di appello.
6.1.- Il terzo motivo denuncia error in iudicando ex art. 360, co. 1, n. 3, c.p.c. per violazione e falsa applicazione dell’art. 143, commi 4 ed 11, d.lgs. 18/08/2000, n. 267 (c.d. TUEL), nonché degli art. 48 e 147-bis TUEL
La censura attinge l’accertamento compiuto dalla Corte territoriale in merito alla sussistenza dei due requisiti applicativi dell’art.143, comma 11, TUEL.
In particolare, ci si duole che, sotto il profilo soggettivo, NOME COGNOME, sia stato collegato a tale COGNOME in ragione di ‘ numerosi scatti ‘ fotografici in compagnia di quest’ultimo e che, sotto il profilo
oggettivo, sulla scorta dei ‘nuovi addebiti’ sia stata ritenuta sussistente una presunta ‘ gestione opaca ‘ a lui ascrivibile consistente in comportamenti omissivi e tale addirittura da aver favorito le pressioni delle organizzazioni criminali, avuto riguardo alle anomalie dell’affidamento diretto del servizio di raccolta e smaltimento dei rifiuti solidi urbani ad una società (la RAGIONE_SOCIALE) il cui amministratore aveva frequentazioni abituali con elementi apicali della criminalità organizzata, durante un periodo nel quale COGNOME era assessore con delega al bilancio, alle finanze e all’ecologia, e analogamente per la questione degli alloggi popolari, sostenendo che all’epoca dei fatti COGNOME era assessore con delega al bilancio e alle finanze e nulla risultava fatto dal soggetto in questione per ovviare alla situazione.
Per COGNOME si lamenta che la condotta ritenuta rilevante sia consistita nel non essersi attivata, in relazione alla funzione di vicesindaco ed alle deleghe conferitele, per risolvere il problema dell’occupazione abusiva degli alloggi popolari da parte di esponenti della consorteria RAGIONE_SOCIALE operante nel territorio comunale ben nota e tale da creare rilevanti problemi.
6.2.- Il motivo è inammissibile.
6.3.- L’elemento soggettivo dell’amministratore consiste anche solo nel non essere riuscito a contrastare efficacemente le ingerenze e pressioni delle organizzazioni criminali operanti nel territorio, mentre l’elemento oggettivo richiede la verifica di una condotta inefficiente, disattenta ed opaca che si sia riflessa sulla cattiva gestione della cosa pubblica.
Fermi i principi già ricordati, va rilevato che la censura, pur formulata come violazione di legge, si sostanzia in una critica alla valutazione compiuta dalla Corte di appello delle condotte ascritte ai due amministratori, valorizzate soprattutto sotto il profilo dell’opacità dei comportamenti che – a fronte di perduranti e ripetute irregolarità perpetrate dall’Ufficio tecnico e omissioni destinate a
produrre un grave discredito nell’amministrazione della cosa pubblica, oltre che a mostrare una contiguità perdurante con ambiti criminali – avevano tenuto un comportamento omissivo ed inerte, tale da generare nella pubblica opinione locale la percezione dell’impunità e inattaccabilità delle organizzazioni mafiose e l’impressione nella collettività di coinvolgimenti della criminalità nella gestione della cosa pubblica.
Ciò che la Corte di appello ha, rettamente, ritenuto rilevante ai fini del decidere, sotto il profilo oggettivo, è il collegamento, diretto o indiretto, tra il politico e la famiglia malavitosa che emergeva, per COGNOME, da plurime presenze in sua compagnia di COGNOME, esponente del clan mafioso locale, in occasioni pubbliche, anche funzionali alla campagna elettorale ed allo svolgimento della tornata elettorale, come documentate fotograficamente; sotto il profilo soggettivo, è il comportamento inerte tenuto dallo stesso, nonostante la delega all’ecologia, a fronte di ripetuti provvedimenti di affidamento lavori per lo svolgimento del servizio raccolta/smaltimento dei rifiuti solidi urbani sotto soglia da parte dell’Ufficio tecnico in totale spregio delle regole di buona amministrazione e delle procedure previste con modalità che aveva favorito una ditta successivamente colpita da informativa antimafia interdittiva; ed inoltre, è la condotta di mera tolleranza e/o di inerzia nei confronti della questione dell’occupazione abusiva degli alloggi popolari, collegata alla criminalità di tipo ‘mafioso’, nonostante la delega al bilancio ed alle finanze.
Quanto alla posizione di COGNOME, la Corte di merito, pur avendo osservato che non si evinceva un chiaro collegamento tra l’operato di COGNOME ed il gruppo RAGIONE_SOCIALE, ha ribadito l’autonomia del procedimento giurisdizionale di incandidabilità ex art.143, comma 11, TUEL, tale da non richiedere l’accertamento di condotte atte ad integrare gli estremi del reato di partecipazione ad associazione mafiosa ed ha rimarcato che, sotto il profilo soggettivo, risultava
decisivo il non essere riuscita a contrastare efficacemente le ingerenze e pressioni delle organizzazioni criminali operanti nel territorio e, sotto quello oggettivo, una condotta inefficiente, disattenta ed opaca che si era riflessa sulla cattiva gestione della cosa pubblica.
La Corte di merito, segnatamente, ha evidenziato la gravità della condotta inerte e omissiva contestata, in ragione delle deleghe alle politiche sociali, polizia locale e pubblica sicurezza di cui COGNOME era titolare e nonostante le quali mantenne una condotta inerte ed opaca nella gestione degli alloggi popolari, per molti anni occupati abusivamente da famiglie riconducibili al RAGIONE_SOCIALE, alloggi che furono liberati solo nel 2021, grazie all’attività della Prefettura e posti a disposizione della popolazione locale avente diritto.
I ricorrenti, inoltre, prospettando la valenza del tutto « neutra » della propria condotta, sollecitano, attraverso l’apparente denuncia della violazione di legge, una nuova valutazione dei fatti, non consentita a questa Corte, alla quale non spetta il compito di riesaminare il merito della controversia, ma solo quello di controllare la correttezza giuridica delle argomentazioni svolte nel provvedimento impugnato, nonché la coerenza logico-formale delle stesse, nei limiti in cui le relative anomalie sono ancora deducibili come motivo di ricorso per cassazione, a seguito della sostituzione delle modifiche apportate all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5.
La Corte di merito si è attenuta ai suesposti principi nell’esame delle vicende sottoposte al suo vaglio e ha accertato, con motivazione idonea, la ricorrenza dei presupposti per la pronuncia di incandidabilità. Per contro le censure, mediante l’apparente denuncia di vizi di violazione di legge e motivazionali, per un verso non si confrontano compiutamente con il percorso argomentativo svolto dai giudici di merito e, per altro verso, in realtà sollecitano impropriamente il riesame del merito.
7.1.- Il quarto motivo denuncia error in iudicando ex art. 360, co. 1, n. 3, c.p.c. per violazione e falsa applicazione dell’art. 143, commi 4 ed 11, d.lgs. 18/08/2000, n. 267 (c.d. tuel). La censura concerne il ricorrente COGNOME e ricorda che nella proposta ministeriale il dott. NOME COGNOME è stato scambiato con il fratello NOME, avvocato penalista, e sostiene che, come già eccepito in fase di merito, ciò comportava anche sotto tale profilo, l’illegittimità della proposta di incandidabilità.
7.2.- Il motivo è infondato.
7.3.- Richiamando quanto già esposto in relazione al secondo motivo, in ordine al procedimento ex art.143 TUEL ed alla funzione propulsiva della proposta ministeriale che, quale atto di impulso, non è perciò tenuta a soddisfare i requisiti ordinari, in particolare le previsioni di cui all’art. 125 c.p.c., va rimarcato che essa non risulta nulla qualora ometta di indicare nominativamente gli amministratori coinvolti nella procedura, o comunque non provveda ad esplicita menzione delle specifiche condotte che agli amministratori sono attribuite, in quanto rivelatrici della permeabilità dell’amministrazione locale alle influenze inquinanti delle consorterie criminali ( Cass. n. 10780 /2019). Tanto premesso, va osservato che la Corte di merito ha accertato, in maniera non efficacemente censurata, che si era trattato di un mero refuso e che l’Avvocatura se ne era avveduta ed aveva correttamente individuato il reclamato quale soggetto destinatario della proposta di incandidabilità essendo NOME COGNOME (e non il fratello avvocato) stato eletto nella campagna elettorale del 2020 e nominato assessore nella giunta guidata da COGNOME, circostanza che escludeva qualsiasi possibile errore di persona.
8.- In conclusione, il ricorso va rigettato.
Le spese seguono la soccombenza nella misura liquidata in dispositivo. Raddoppio del contributo unificato, ove dovuto.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso;
Condanna i ricorrenti in solido alla rifusione delle spese del giudizio di legittimità che liquida in euro 5.000,00=, oltre spese prenotate a debito;
Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte dei ricorrenti, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello relativo al ricorso, se dovuto.
Così deciso in Roma, nella Camera di Consiglio della Prima