Ordinanza di Cassazione Civile Sez. 3 Num. 241 Anno 2025
Civile Ord. Sez. 3 Num. 241 Anno 2025
Presidente: COGNOME NOME
Relatore: COGNOME
Data pubblicazione: 07/01/2025
ORDINANZA
sul ricorso iscritto al n. 15973/2020 R.G. proposto da : RAGIONE_SOCIALEgià RAGIONE_SOCIALE, domiciliata ex lege in ROMA, INDIRIZZO presso la CANCELLERIA della CORTE di CASSAZIONE, rappresentata e difesa dall’avvocato NOME COGNOME;
-ricorrente-
contro
RAGIONE_SOCIALE elettivamente domiciliata in ROMA INDIRIZZO presso lo studio dell’avvocato COGNOME NOME che l a rappresenta e difende unitamente agli avvocati COGNOME e COGNOME;
-controricorrente-
avverso la SENTENZA della CORTE D’APPELLO di FIRENZE n. 250/2020 depositata il 29/01/2020. Udita la relazione svolta nella camera di consiglio del 17/12/2024
dalla Consigliera NOME COGNOME:
Rilevato che:
Nel 2006, RAGIONE_SOCIALE conveniva in giudizio RAGIONE_SOCIALE chiedendo: a) accertarsi la rinnovazione del contratto di affiliazione concluso tra le parti in data 30 settembre 2000 per altri due anni; b) accertarsi l’illegittimità del recesso di RAGIONE_SOCIALE; c) condannare quest’ultima al risarcimento del danno in euro 180.000.
Safe resisteva, eccependo l’inadempimento di controparte, e chiedeva in via riconvenzionale il risarcimento di danno quantificato in euro 500.000.
Il Tribunale di Firenze, con sentenza n. 763/2013, respinta ogni altra domanda di Came, accoglieva in parte la sua domanda di condanna di Safe al risarcimento del danno; accoglieva in parte pure la domanda riconvenzionale di Safe di condanna al risarcimento del danno.
Il Tribunale evidenziava che si trattava di un contratto di affiliazione che prevedeva che RAGIONE_SOCIALE -affiliata – potesse vendere in Lombardia i prodotti commercializzati da RAGIONE_SOCIALE -affiliante – per la durata di cinque anni e con tacito rinnovo per due in caso di mancata tempestiva disdetta.
Successivamente l a Corte d’appello di Firenze, con sentenza n. 250/2021, in riforma della sentenza impugnata, liquidava in € 20.000 il danno per violazione da parte di Safe dell’esclusiva dal 2000 al 2003, e in 30.000 per danno all’immagine commerciale.
Avverso tale sentenza propone ricorso, sulla base di sei motivi, RAGIONE_SOCIALE già RAGIONE_SOCIALE che ha pure depositato memoria. Resiste Safe con controricorso, illustrato anche con memoria.
Ritenuto che:
4.1. Con il primo motivo parte ricorrente lamenta violazione e/o falsa applicazione degli artt. 1175, 1366, 1375 c.c. e 116 c.p.c., in relazione all’art. 360, 1 comma, n. 3, c.p.c.
La Corte territoriale, nonostante le contestazioni sollevate dall’affiliata, non avrebbe adeguatamente considerato la condotta scorretta dell’affiliante nel periodo dal 2000 al 2003, né valutato adeguatamente tale inadempimento e la sua incidenza sulla capacità di CAME PIU’ di conseguire il budget annuale. Da ciò deriverebbe l’erroneità della decisione, non essendo stato riconosciuto che le domande avanzate da Safe erano infondate, per avere proprio quest ‘ultima cagionato l’ inadempimento altrui (cfr. p. 82 del ricorso).
4.2. Con il secondo motivo di ricorso, RAGIONE_SOCIALE denuncia violazione e falsa applicazione degli artt. 1362, 1363, 1366, 1175, 1375 c.c. e 116 c.p.c. in riferimento all’art. 360, comma 1, n. 3, c.p.c.
Si s ostiene che la Corte d’appello avrebbe err ato condividendo l’interpretazione del Tribunale su una lettera del 2003 ; inoltre, la statuizione sulla legittimità della risoluzione del contratto, da parte dell’affiliante, per inadempimento dell’affiliata, risulterebbe anch’essa erronea, poiché Safe, prima dell’invio della lettera di risoluzione del 23.01.06, e precisamente il 23.12.2005, avrebbe espresso soddisfazione per i risultati conseguiti e manifestato piena fiducia in una futura collaborazione.
4.3. Con il terzo motivo, parte ricorrente lamenta violazione e falsa applicazione degli artt. 1362, 1366, 1115, 1375 c.c. ex art. 360, comma 1, nn. 3 e 5, c.p.c.
La Corte d’appello, in relazione al recesso unilaterale di RAGIONE_SOCIALE avrebbe erroneamente ritenu to l’affiliata inadempiente anche con riferimento al budget annuale e, per converso, ritenuti giustificati sia il recesso sia la risoluzione del contratto; e questo nonostante
l’affiliante, fino al dicembre 2005, non avesse sollevato alcuna contestazione relativa a colpe, tanto meno gravi, all’affiliata.
4.4. Con il quarto motivo, parte ricorrente si duole della violazione e falsa applicazione degli artt. 1218, 2697 c.c., 115 e 116 c.p.c., in relazione all’art. 360, comma 1, nn. 3 e 5 c.p.c.
La decisione impugnata, con riferimento ai danni lamentati dall’affiliante e oggetto di domanda riconvenzionale, sarebbe illogica e contraddittoria. La Corte territoriale avrebbe convalidato la violazione del principio dell’onere della prova già consumata dal Tribunale, senza considerare l’assenza di elementi probatori, documentali e testimoniali, acquisiti in primo grado e relativi sia all’ an che al quantum del danno. In particolare, il primo giudice avrebbe ‘apoditticamente ritenuto provato il mancato raggiungimento da parte dell’attrice degli obiettivi di vendita dei prodotti con marchio RAGIONE_SOCIALE nonostante tali obiettivi non fossero stati accertati nemmeno mediante la Consulenza Tecnica d’Ufficio.
4.5. Con il quinto motivo di ricorso, RAGIONE_SOCIALE prospetta violazione e falsa applicazione degli artt. 1218, 2697 c.c., 115 e 116 c.p.c. (art. 360, comma 1, nn. 3 e 5, c.p.c.).
La sentenza impugnata sarebbe ingiusta, in quanto frutto di un omesso esame, da parte della Corte territoriale, di un fatto decisivo per il giudizio, costituito dall’inadempimento dell’affiliante, nei riguardi dell’affiliata, ai propri obblighi di esclusiva e non concorrenza nel periodo dal 2000 al 2003. Il giudice d’appello non ne avrebbe tenuto conto nella valutazione dell’inadempienza di RAGIONE_SOCIALE‘ al patto di budget e di esclusiva, mancando, infatti, ogni riferimento a ciò nella motivazione della sentenza impugnata.
4.6. Con il sesto motivo, parte ricorrente lamenta la violazione degli artt. 2697 c.c., 198, 115 e 116 c.p.c. ex art. 360, comma 1, n. 5, c.p.c.
La Corte d’appello, così come il Tribunale in primo grado, non avrebbe tenuto conto delle censure sollevate dall’affiliata nei confronti della indagine eseguita dall’affiliante in seguito all’ordine di esibizione del libro giornale di vendita e delle fatture dello stesso affiliante, disposto dal primo giudice con ordinanza del 3.6.2009. Tale indagine avrebbe avuto carattere esplorativo e pertanto sarebbe stata inammissibile.
Va osservato che il ricorso -di 102 pagine, di cui ben 77 dedicate solo alla ricostruzione dei fatti e dei due gradi di giudizio è oggetto del c.d. ‘assemblaggio’ in elevatissima misura, essendo contenente della riproduzione grafica di una estesa serie di atti: nelle pagine 16-20 si attinge dalla nota di replica attorea; nelle pagine 23-31 si trascrive tutta la sentenza di primo grado; nelle pagine 31-56 si trascrive tutto l’atto d’appello; a pagina 57 si trascrive parte d’ordinanza del giudice d’appello; nelle pagine 5760 si trascrive parte della consulenza tecnica d’ufficio; nelle pagine 62-66 si trascrivono le precisate conclusioni; nelle pagine 66- 77 si trascrive l’intera sentenza d’appello.
Pregiudiziale ad ogni ulteriore profilo è il rilievo che l’articolo 366, primo comma, c.p.c. nel testo qui applicabile ratione temporis , prevede al n.3 ‘ l’esposizione sommaria dei fatti della causa ‘. La natura sommaria della esposizione, naturalmente, confligge con una trascrizione totale degli atti processuali (ed eventualmente pure dei documenti), ovvero -appunto – con l’assemblaggio. E nel caso in esame la esposizione dei fatti di causa non rispetta tale regola, il giudicante non potendo fruire del riassunto sommario che esige l’articolo 366, primo comma, n.3 c.p.c., il cui rispetto è presidiato da inammissibilità.
In ordine a un siffatto sistema di redazione del ricorso si sono pronunciate le Sezioni Unite con la sentenza 11 aprile 2012 n. 5698, dichiarando che per il requisito di cui all’articolo 366, primo comma, n.3 c.p.c. ” la pedissequa riproduzione dell’intero, letterale
contenuto degli atti processuali è, per un verso, del tutto superflua, non essendo affatto richiesto che si dia meticoloso conto di tutti i momenti nei quali la vicenda processuale si è articolata; per altro verso, è inidonea a soddisfare la necessità della sintetica esposizione dei fatti, in quanto equivale ad affidare alla Corte, dopo averla costretta a leggere tutto (anche quello di cui non occorre sia informata), la scelta di quanto effettivamente rileva in ordine ai motivi di ricorso “.
Su questa linea si è poi consolidata una folta giurisprudenza delle sezioni semplici nel senso della inammissibilità quale conseguenza dell’assemblaggio, inteso questo come plurime trascrizioni di atti interi nel ricorso, che così non adempie al proprio onere espositivo in modo corretto, sciorinando invece atti precedenti al giudice di legittimità come se quest’ultimo fosse tenuto a leggerli completamente (v. Cass. sez. L, 9 ottobre 2012 n. 17168; Cass. sez. 6-3, ord. 11 gennaio 2013 n. 593; Cass. sez. 65, ord. 2 maggio 2013 n. 10244; Cass. sez. 6-5, ord. 9 luglio 2013 n. 17002; Cass. sez. 6-5, ord. 22 novembre 2013 n. 26277; Cass. sez. 6-3, 22 febbraio 2016 n. 3385 – la quale correttamente precisa che il difetto del requisito dell’esposizione sommaria consistente nell’assemblaggio non può essere recuperato estrapolando dai motivi stessi quel che avrebbe dovuto essere il contenuto della esposizione sommaria -, Cass. sez. L, ord. 25 novembre 2020 n. 26837).
È insorto, tuttavia, pure un minoritario orientamento solo parzialmente conforme, che entro certi limiti applica un principio conservativo, tra l’altro valorizzando in senso sanatorio l’illustrazione dei motivi stessi (v. Cass. sez. 3, 28 giugno 2018 n. 17036, per cui per integrare il requisito dell’esposizione sommaria dei fatti di causa non occorre che tale esposizione sia una parte a sé stante del ricorso, essendo sufficiente che emerga ‘in maniera chiara dal contesto dell’atto, attraverso lo svolgimento dei motivi’):
interpretazione, quest’ultima, che trova peraltro barriera in S.U. 22 maggio 2014 n. 11308 -‘ Il ricorso per cassazione in cui manchi completamente l’esposizione dei fatti di causa e del contenuto del provvedimento impugnato è inammissibile; tale mancanza non può essere superata attraverso l’esame delle censure in cui si articola il ricorso, non essendone garantita l’esatta comprensione in assenza di riferimenti alla motivazione del provvedimento censurato, né attraverso l’esame di altri atti processuali, ostandovi il principio di autonomia del ricorso per cassazione .’ – e nei seguenti conformi arresti – tra i massimati: Cass. sez. 2, 24 aprile 2018 n. 10072, Cass. sez. 6-2, ord. 12 marzo 2020 n. 7025, Cass. sez. 1, ord. 1 marzo 2022 n. 6611 e Cass. sez. 1, ord. 30 novembre 2023 n. 33353 -.
Invero, la lettura maggioritaria – che, si ripete, trova sostegno nell’interpretazione delle Sezioni Unite – è pienamente condivisibile, in quanto non è compito del giudice “correggere” la conformazione inammissibile degli atti – ovvero, nella fattispecie, ricondurre ad un artificioso e non reale tamquam non essent le trascrizioni integrali dandole per espunte -, per cui le trascrizioni devono essere tenute in conto come presenti nel ricorso e non possono pertanto renderlo compatibile con la concisione che esige il requisito di cui all’articolo 366, primo comma, n.3 c.p.c.
Assorbito perciò ogni altro profilo, questa modalità di redazione conduce all’inammissibilità il ricorso.
Le spese seguono la soccombenza, liquidate come da dispositivo.
La species di inammissibilità, da tempo evidenziata dalla giurisprudenza di questa Suprema Corte, giustifica, integrando a ben guardare un abuso del diritto processuale da parte della ricorrente, la condanna di quest’ultima al pagamento, in favore della controparte, di una somma equitativamente determinata, ai sensi dell’art.96, comma 3, c.p.c., in euro 8.000,00,
quantificazione compiuta tenendo in conto il valore complessivo della causa.
Ai sensi dell’art. 13, comma 1 -quater, del d.P.R. n. 115 del 2002, inserito dall’art. 1, comma 17 della l. n. 228 del 2012, deve darsi atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello, ove dovuto, di cui al comma 1-bis del citato art. 13.
P.Q.M.
Dichiara inammissibile il ricorso e condanna la ricorrente a rifondere a controparte le spese del giudizio di legittimità, che liquida in € 10.000,00 per compensi e € 200 per esborsi, oltre agli accessori di legge; condanna altresì la ricorrente, ex art. 96, comma 3, c.p.c., a corrispondere alla controricorrente la somma di € 8.000,00.
Ai sensi dell’art. 13, comma 1 -quater, del d.P.R. n. 115 del 2002, inserito dall’art. 1, comma 17 della l. n. 228 del 2012, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello, ove dovuto, a norma del comma 1-bis del citato art. 13.
Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della Sezione Terza