Ordinanza di Cassazione Civile Sez. 1 Num. 7388 Anno 2025
Civile Ord. Sez. 1 Num. 7388 Anno 2025
Presidente: COGNOME
Relatore: NOME COGNOME
Data pubblicazione: 19/03/2025
sul ricorso 4005/2021 proposto da:
COGNOME e COGNOME rappresentati e difesi da ll’avvocato NOME COGNOME
– ricorrenti –
contro
RAGIONE_SOCIALE rappresentata e difesa da ll’avvocato NOME COGNOME
– controricorrente –
nonché contro
SORGENTE SOCIETA’ RAGIONE_SOCIALE IN AMMINISTRAZIONE STRAORDINARIA rappresentata e difesa dall’avvocato NOME COGNOME
– controricorrente –
avverso la sentenza della CORTE D’APPELLO di ROMA n. 5823/2020 depositata il 24/11/2020;
udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del 14/2/2025 dal Cons. Dott. NOME COGNOME
FATTI DI CAUSA
Con sentenza 5823/2020, depositata il 24.11.2020 la Corte di appello di Roma, pronunciando sul gravame degli odierni ricorrenti avverso la decisione che in primo grado ne aveva rigettato l’opposizione al decreto ingiuntivo ottenuto nei loro confronti dalla banca intimata in quanto garanti della RAGIONE_SOCIALE, ha accolto l’appello limitatamente ai primi due motivi di gravame intesi a denunciare l’erronea qualificazione impressa al rapporto dal primo giudice, che vi aveva ravvisato un contratto autonomo di garanzia, quando al contrario il complessivo tenore delle pattuizione che vi erano contenute portava a ritenere che, pur in presenza della clausola a prima richiesta e senza eccezioni, si fosse in presenza di un ordinario contratto di fideiussione; e lo ha invece respinto quanto ai restanti motivi afferenti alla concessione abusiva di credito, risultando la relativa deduzione tardiva e, comunque, non integrante una fonte di nullità del negozio, al difetto di prova del credito, essendo stati prodotti sia la certificazione ex art. 50 TUB che gli estratti conto corrispondenti, e all’usurarietà dei tassi applicati, stante l’inammissibilità ed insieme l’infondatezza dell’allegazione operata in tal senso.
La cassazione di detta sentenza è ora chiesta dai soccombenti con un ricorso affidato a otto mezzi, resistiti avversariamente dalla banca
ingiungente e dal terzo intervenuto nel giudizio di appello ai sensi dell’art. 111 cod. proc. civ. nella sua veste di cessionario del credito ai sensi dell’art. 58 TUB.
RAGIONI DELLA DECISIONE
Il primo motivo di ricorso -con cui si denuncia la violazione degli artt. 2907 e 2679 cod. civ., dell’art. 24 Cost. e dell’art. 81 cod. proc. civ. perché la Corte di appello avrebbe divisato la legittimazione ad intervenire in giudizio del cessionario del credito richiamando il disposto dell’art. 58 TUB e ritenendo, dunque, a tal fine bastevole l’avviso pubblicato sulla G.U., quantunque non fosse accertato, né accertabile in base a detto documento, la successione nella titolarità del rapporto, «sia per difetto di specifica menzione in detto avviso, sia perché risulta che le cinquanta linee di credito cedute (4 secured, 46 unsecured) sono selezionate da parte della Banca cedente sulle base dei criteri menzionati ai punti a) – d)» -è, pur nella sua astratta scrutinabilità trattandosi di accertamento officioso, affetto da una duplice ragione di inammissibilità e si sottrae perciò allo scrutinio qui richiesto.
Esso è intanto infirmato da un palese vizio di autosufficienza. Pure, infatti ricordando -secondo il chiaro e più recente avviso di questa Corte, ascrivibile, tra le altre pronunce sul medesimo tema, a Cass. 5478/24 -che anche nella fattispecie regolata dall’art. 58 TUB occorre distinguere tra prova della notificazione della cessione, che si reputa assolta per mezzo della pubblicazione da parte della società cessionaria della notizia dell’avvenuta cessione nella Gazzetta Ufficiale, prova della cessione, che impone alla cessionaria di fornirne adeguata dimostrazione, e prova della riconducibilità dello specifico credito controverso a quelli individuabili in blocco oggetto di cessione, per la dimostrazione della quale devono essere prese in considerazione le indicazioni sulle caratteristiche dei rapporti ceduti
onde verificare se effettivamente sussista o meno la legittimazione sostanziale della società cessionaria, va pur sempre osservato che l’onere probatorio che si richiede al cessionario di assolvere nel secondo e nel terzo caso postula in ogni caso la previa contestazione da parte del debitore ceduto o che la cessione abbia avuto effettivamente luogo o che il credito controverso sia ricompreso tra quelli oggetto di trasferimento. Di conseguenza, allorché della questione si faccia materia di ricorso per cassazione il principio di autosufficienza, di fronte alla riconosciuta legittimazione sostanziale del cessionario a cui ha proceduto, come qui, la sentenza impugnata, onera il ricorrente di documentare non solo che la cessione è stata contestata, ma, vieppiù, se questo ne è l’oggetto, che il credito controverso ha caratteristiche tali da essere escluso da quelli che sono stati ceduti, diversamente assumendo la formulata censura un contenuto meramente esplorativo che osta alla sua disamina.
Poiché nella specie il motivo si limita a dedurre che l’avviso sulla G.U. non farebbe menzione del credito e che i crediti oggetto di cessione sarebbero stati selezionati dalla cedente secondo non meglio preordinati parametri, senza segnatamente dedurre quali fossero le caratteristiche del rapporto in contestazione che ne comportava l’estraneità all’operata cessione, ne è evidente la mancanza di autosufficienza e, dunque, l’impossibilità per questa Corte di procedere al suo vaglio.
Nella medesima direzione va poi ancora considerato che l’allegazione di che trattasi non è suffragata da un idoneo interesse ad agire, giacché, fermo che a mente dell’art. 111 cod. proc. civ., in caso di successione a titolo particolare nel processo, questo prosegue tra le parti originarie se l’alienante con l’accordo di tutte le parti non ne sia estromesso, quand’anche fosse dichiarato, come si richiede, il difetto di legittimazione del cessionario intervenuto ciò
non renderebbe comunque irrita l’impugnata pronuncia atteso che, anche a seguito dell’intervento in appello del successore a titolo particolare, la banca cedente non è stata estromessa dal giudizio e la sentenza è stata perciò pronunciata tra gli iniziali contradditori. E, dunque, nessuna utilità concreta ritrarrebbero i ricorrenti da una pronuncia sul punto pur a loro favore.
5. Il secondo motivo di ricorso -con cui si denuncia la violazione degli artt. 1175, 1375, 1418 e 1956 cod. civ., e dell’art. 2 l. 10 ottobre 1990, n. 287 perché la Corte di appello, pur qualificando la specie in discorso quale fideiussione, avrebbe tuttavia «omesso di pronunciarsi sulle dedotte questioni che hanno formato oggetto di contestazione tra le parti, concernenti la violazione della normativa pubblicistica a tutela del mercato di cui agli articoli 1175, 1375 e 1956 cod. civ.» e si sarebbe in tal modo astenuta dal dichiarare l’invalidità del negozio pur a fronte dell’abnorme condotta della banca che aveva accordato alla debitrice un fido di 1.000.000,00 di euro senza acquisire il consenso dei garanti -; il quarto motivo di ricorso -con cui si denuncia la violazione dell’art. 101 cod. proc. civ., degli artt. 1325 e 1418 cod. civ. perché la Corte di appello, dichiarando inammissibile, per essere stata declinata solo con la seconda memoria dell’art. 183, comma 6, cod. proc. civ., la corrispondente ragione di gravame, malgrado essa fonte di nullità dell’impegno fideiussorio, avrebbe dovuto procedere d’ufficio al suo esame, ed «avrebbe, pertanto dovuto dichiarare la nullità/inefficacia dell’obbligazione fideiussoria successivamente unilateralmente rinnovata dalla Banca nel 2012 in difetto di consenso degli opponenti»; ed il quinto motivo di ricorso -con cui si denuncia la violazione dell’art. 115 cod. proc. civ. e dell’art. 1956 cod. civ. perché la Corte di appello, dichiarando inammissibile la vista ragione di gravame, avrebbe comunque violato la richiamata norma
sostanziale, posto che a fronte della disposta concessione di fido, «era onere della banca creditrice la prova di aver adempiuto al rispetto degli obblighi di comunicazione e buona fede e correttezza nel caso di mutamento delle condizioni del debitore» -, esaminabili congiuntamente, in quanto tutti involgenti la medesima censura, si prestano ad un cumulativo giudizio di inammissibilità, in particolare in quanto non si confrontano con la totalità delle ragioni enunciate dal decidente a fondamento del pronunciato rigetto della doglianza sul punto.
Tutti i sopradetti motivo muovono dal comune presupposto che la banca, accordando alla debitrice il menzionato fido senza l’assenso dei soggetti che ne garantivano la solvibilità, sarebbe venuta meno agli obblighi di correttezza e buona fede nell’esecuzione del contratto ed avrebbe, in particolare, violato l’art. 1956 cod. civ., violazione che, essendo fonte di nullità del conseguente impegno negoziale, si sottrarrebbe alle preclusioni dell’art. 183 cod. proc. civ. legittimando perciò la Corte decidente ad indagare ufficiosamente il denunciato profilo.
Così ricucita la doglianza, essa non veda tuttavia che la Corte di appello, nell’atto di rigettare il corrispondente motivo di gravame, si è data cura pure di precisare, insieme ad altri aspetti, «che la suddetta eccezione non integra un profilo di nullità della fideiussione, posto che atterrebbe ad una ipotesi di liberazione del fideiussore e non di nullità della fideiussione».
Ora questa affermazione nella prospettazione censoria dei ricorrenti è rimasta priva di repliche in quanto, atteso che, pur non mancando di far ripetuto richiamo alla categoria della nullità, i motivi in disamina si astengono tuttavia dal dirci perché la denunciata violazione dell’art. 1956 cod. civ. debba essere fonte di nullità del complessivo impegno negoziale piuttosto che della sola liberazione
dei fideiussori da ogni obbligo aggiuntivo. E se non si può perciò dubitare che nel giudizio della Corte di appello la violazione dell’art. 1956 cod. civ. non è fonte di nullità, neppure le si può imputare di non aver indagato il punto ex officio astenendosi con ciò dal rilevare la preclusione invece dichiarata.
6. Il terzo motivo di ricorso -con cui si denuncia la violazione degli artt. 1175, 1375, 1418 e 1957 cod. civ. e dell’art. 2 l. 287/1990 perché la Corte di appello, preso atto che l’impegno fideiussorio assunto dai ricorrenti prevedeva la dispensa dai termini e l’obbligo di restituzione anche in caso di invalidità dell’obbligazione garantita, tenuto altresì conto delle determinazioni assunte dall’Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato e da Banca d’Italia nel senso della contrarietà di dette clausole alla disciplina antitrust, avrebbe dovuto «dichiarare la nullità delle stesse per contrasto con norme imperative e la normativa antitrust» -è inammissibile per difetto di autosufficienza.
Non dubita per vero il collegio che, anche per gli insegnamenti dispensati da SS.UU 26242/2014 e 26243/2014, la nullità del contratto, quantunque parzialmente dedotta, sia pronunciabile d’ufficio anche in sede appello, ma, come ormai comunemente si afferma -da ultimo così in motivazione Cass. 19401/24 -questo principio, però, deve essere applicato tenendo presenti le regole generali del processo civile e la relativa tempistica, onde evitare che l’esercizio di un potere officioso consenta alle parti di rimettersi in pista -per così dire -quando i fatti costitutivi del lamentato vizio negoziale da esaminare ex officio avrebbero potuto e dovuto essere tempestivamente allegati, onde consentire al giudice la necessaria valutazione in diritto. Qualora i fatti costitutivi della dedotta nullità negoziale non risultino già allegati in toto dalla parte che la invoca successivamente, difatti, non è consentito al giudice, in qualsiasi
stato e grado del processo, procedere d’ufficio a tali accertamenti, la rilevabilità officiosa della nullità essendo circoscritta alla sola valutazione in iure dei fatti già allegati.
Nel caso in esame, l’accertamento sulla fondatezza, o meno, dell’eccezione di nullità a cui avrebbe dovuto procedere il giudice d’appello -riguardante, secondo quello che ora si deduce, la nullità della prestata fideiussione per violazione della normativa antitrust -poggia su circostanze fattuali (concernenti, tra l’altro: il contenuto delle clausole contrattuali di cui si invoca la nullità; la loro esatta corrispondenza con quelle oggetto di esame da parte della Banca d’Italia nel provvedimento in precedenza richiamato; la concreta riferibilità di quanto sancito in quest’ultimo, frutto di accertamenti che avevano riguardato un intervallo temporale ricompreso tra il 2002 ed il 2005, ad un contratto di fideiussione stipulato, solo successivamente ad esso,; la circostanza che il medesimo ricorrente certamente non avrebbe sottoscritto quella fideiussione in assenza delle clausole contestate) che l’odierno ricorrente avrebbe dovuto ritualmente introdurre e chiedere di provare indicando i mezzi istruttori da utilizzarsi a tale scopo, già in primo grado. La quaestio nullitatis , pur astrattamente proponibile al di là delle preclusioni ormai maturatesi, avrebbe, sì, obbligato il giudice a rilevarne l’eventuale fondatezza, o meno, ma sempre che i fatti costitutivi del vizio denunciato fossero stati già tempestivamente allegati e dimostrati, onde legittimare una decisione fondata su quegli stessi fatti e soltanto su quelli, non essendo più consentito al giudice di appello alcun accertamento fattuale se non in violazione del principio del contraddittorio.
Poiché la prospettazione ricorrente in parte qua non va oltre una generica e sommaria enunciazione e risulta, dunque, al riguardo
manifestamente lacunosa, inevitabile ne è la declaratoria di inammissibilità appunto per difetto di autosufficienza.
7. Il sesto motivo di ricorso -con cui si denuncia la violazione degli artt. 101, 112 e 115 cod. proc. civ. perché la Corte di appello, malgrado se ne fosse fatto motivo di gravame, aveva omesso di pronunciarsi o aveva implicitamente rigettato la richiesta di consulenza tecnica, il cui espletamento «era funzionale all’accertamento del superamento del tasso usurario, questione controversa nel giudizio ed oggetto di discussione tra le parti», che, se esaminata, avrebbe potuto condurre all’accertamento delle illegittimità contabili denunciate e della violazione della normativa antiusura -è inammissibile sotto entrambi i profili che ne suffragano la deducibilità.
Se ad essa, per vero, si guarda quale censura del deliberato di prima istanza per non aver esso dato ingresso alla relativa richiesta, sì che essa deve essere letta nel senso di una revisio prioris istantiae su cui la Corte di appello avrebbe omesso di pronunciarsi, ne andrebbe rilevato il difetto di specificità insieme a quello di autosufficienza, dato che nulla nella sua illustrazione si precisa circa i termini in cui la relativa richiesta era stata sottoposta al primo giudice e circa le ragioni addotte da questo per non farvi luogo, e ciò non senza aggiungere che la definizione del giudizio comunque intervenuta pur in difetto di un formale pronunciamento sul motivo di appello porterebbe a dare accesso alla nota giurisprudenza sul rigetto implicito; se viceversa ad essa si guarda quale censura mossa alla sentenza di appello per non aver questa dato ingresso all’istanza, parimenti ne andrebbe ricusata la scrutinabilità, essendo notoriamente la decisione intorno all’ammissione o meno della CTU manifestazione della discrezionalità che l’ordinamento processuale assegna alla figura del decidente di merito, sì che il relativo
provvedimento, qualunque ne sia il contenuto, si rende insindacabile in questa sede.
8. Il settimo motivo di ricorso -con cui si denuncia la violazione degli artt. 112 e 115 cod. proc. civ. e della legge antiusura perché la Corte di appello, rigettando l’eccezione di usurarietà dei tassi sull’asserito rilievo che l’inammissibilità del corrispondente motivo di gravame emerge dal raffronto in concreto con la motivazione della sentenza impugnata, avrebbe violato le norme richiamate in rubrica «non essendo in alcun modo esplicitato il percorso logico-giuridico e la documentazione sulla base della quale la Corte di appello è giunta a tale conclusione» -è inammissibile sotto più angolazioni.
E’ evidente, innanzitutto, la non conducenza della censura giacché, come rappresentano gli stessi ricorrenti, la determinazione confermativa della decisione di primo grado sul punto assunta dal secondo giudice si vale anche di un’ulteriore argomentazione -consistente nel rilevare che la sentenza impugnata esplicitava, tra l’altro, «come autonoma ratio decidendi, l’insussistenza in concreto della usurarietà» -non oggetto di censura, sì che si impone la regolazione del profilo alla stregua dell’insegnamento ex plurimis di Cass. 20118/2006. Nondimeno, la censura, parametrata ai criteri che sovrintendono alla denuncia dell’errore di diritto che con essa si intende rappresentare, è aspecifica in quanto la sua illustrazione si astiene dall’indicare, mediante specifiche argomentazioni intellegibili ed esaurienti, in qual modo le affermazioni in diritto contenute nella sentenza impugnata contrastino con le norme rubricate. Essa è poi ancora indirettamente rivalutativa perché attraverso l’apparente denuncia di un indimostrato errore di diritto, tende a sollecitare una surrettizia rinnovazione del sindacato meritale, che non è nei compiti di questa Corte.
L’ottavo motivo di ricorso -con cui si denuncia la violazione degli artt. 50 e 117 TUB e 115 cod. proc. civ. perché la Corte di appello, rigettando l’eccezione in punto al difetto di prova del credito azionato dalla banca sull’asserito rilievo che la dichiarazione ex art. 50 TUB era stata allegata al ricorso ed era sufficiente per giustificare l’escussione dei fideiussori, avrebbe violato le norme richiamate in rubrica perché la banca «non ha mai prodotto l’estratto conto ex articolo 50 TUB» relativo anche all’altro conto girocontato sul conto generatore del credito -è inammissibile perché palesemente versato in fatto.
Per suo tramite, infatti, si sollecita una rivalutazione delle risultanze istruttorie e si chiede inammissibilmente a questa Corte di sostituire la propria valutazione, si spera più favorevole, a quella operata dal giudice di merito, così aderendo ad un’idea del giudizio di cassazione come un terzo grado del giudizio che ha luogo nelle sedi di merito, in cui sia possibile porre riparo alla pretesa ingiustizia impugnata, che è però, come è noto, finalità del tutto estranea ai compiti istituzionali che l’ordinamento processuale assegna al giudice di legittimità.
Il ricorso va dunque dichiarato inammissibile.
Le spese seguono la soccombenza e si liquidano come da dispositivo.
Ove dovuto sussistono i presupposti per il raddoppio a carico dei ricorrenti del contributo unificato ai sensi del dell’art. 13, comma 1quater, d.P.R. 30 maggio 2002, n. 115.
P.Q.M.
Dichiara il ricorso inammissibile e condanna parte ricorrente al pagamento delle spese di lite che liquida in favore di parte resistente in euro 10400,00, di cui euro 200,00 per esborsi, oltre al 15% per spese generali ed accessori di legge.
Ai sensi del dell’art. 13, comma 1-quater, d.P.R. 30 maggio 2002, n. 115 dichiara la sussistenza dei presupposti per il versamento da parte dei ricorrenti, ove dovuto, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso.
Cosi deciso in Roma nella camera di consiglio della I sezione civile il giorno 14 febbraio 2025.
Il Presidente Dott. NOME COGNOME