Ordinanza di Cassazione Civile Sez. 1 Num. 8896 Anno 2024
Civile Ord. Sez. 1 Num. 8896 Anno 2024
Presidente: COGNOME NOME
Relatore: COGNOME NOME
Data pubblicazione: 04/04/2024
ORDINANZA
sul ricorso n. 32974/2019
promosso da
RAGIONE_SOCIALE , in persona del legale rappresentante pro tempore , elettivamente domiciliata in RomaINDIRIZZO INDIRIZZO, presso lo studio dell’AVV_NOTAIO, che la rappresenta e difende unitamente all’AVV_NOTAIO in virtù di procura speciale in calce al ricorso per cassazione;
– ricorrente –
contro
RAGIONE_SOCIALE , in persona del procuratore speciale NOME AVV_NOTAIO, elettivamente domiciliata in Roma, INDIRIZZO, presso lo studio dell’AVV_NOTAIO, rappresentata e difesa dall’AVV_NOTAIO in virtù di procura speciale a margine del controricorso;
– controricorrente –
avverso la sentenza della Corte d’appello di Torino n. 1453/2019, pubblicata il 02/09/2019 e notificata il 06/09/2019;
udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del 18/10/2023 dal Consigliere NOME COGNOME;
letti gli atti del procedimento in epigrafe.
SVOLGIMENTO DEL PROCESSO
Con atto di citazione del 09/07/2014 la RAGIONE_SOCIALE (di seguito anche la RAGIONE_SOCIALE), quale titolare del rapporto di conto corrente di corrispondenza n. 2087 e parte del contratto di finanziamento stipulato il 15/07/2013, conveniva in giudizio davanti al Tribunale di Cuneo la Banca Regionale Europea s.p.a. (poi, RAGIONE_SOCIALE di RAGIONE_SOCIALE RAGIONE_SOCIALE s.p.a., di seguito anche UBI), al fine di sentire accertare: 1) in merito al contratto di conto corrente, l’applicazione da parte della banca di interessi anatocistici e superiori al tasso soglia, la nullità di commissioni di massimo scoperto e l’illegittimità dello ius variandi ; 2) in merito al contratto di finanziamento, l’usurarietà dello stesso, la nullità per mancanza di causa, l’illegittimità per la determinazione del tasso d’interesse in base all’Euribor e l’illegittimità del piano di ammortamento alla francese; 3) l’esatto rapporto dare -avere tra le parti con condanna della banca alla corresponsione di quanto dovuto, a titolo di pagamento del dovuto o di restituzione dell’indebito o di indennizzo per arricchimento senza causa ovvero di risarcimento danni. Chiedeva inoltre il risarcimento del danno patrimoniale e non patrimoniale con condanna della convenuta a rettificare le segnalazioni operate alla RAGIONE_SOCIALE Rischi.
La banca, nel costituirsi, eccepiva la prescrizione dell’azione di ripetizione e chiedeva il rigetto di ogni domanda avversaria.
Acquisiti documenti ed espletata CTU, la causa veniva trattenuta in decisione e il Tribunale – dopo aver fatto proprie le risultanze della CTU, che avevano individuato ‘a credito’ della correntista la somma di € 6.339,84 alla data del 30/09/2013 (in conseguenza dell’espunzione di commissioni di massimo scoperto applicate in conto in quanto non previste) -accertava e dichiarava in dispositivo che alla data del 30/09/2013 il ‘saldo debitore’ del
conto corrente n. 2087 acceso presso l’istituto di credito convenuto era di € 6.339,84, rigettando ogni altra domanda e condannando l’attrice al pagamento delle spese di lite e di CTU.
La RAGIONE_SOCIALE proponeva appello contro la decisione di primo grado, il quale tuttavia, nel contraddittorio delle parti, veniva respinto.
Avverso la decisione della Corte d’appello di Torino, la medesima RAGIONE_SOCIALE ha proposto ricorso per cassazione affidato a quattro motivi di impugnazione.
Si è difesa con controricorso l’intimata.
La ricorrente ha depositato memoria ex art. 380 bis .1 c.p.c.
MOTIVI DELLA DECISIONE
1. Con il primo motivo di ricorso è dedotta la violazione e falsa applicazione degli artt. 99 e 112 c.p.c. (art. 360, comma 1, n. 4, c.p.c.) e falsa applicazione degli artt. 156, comma 2, 161 e 287 c.p.c. (art. 360, comma 1, n. 3, c.p.c.), nonché degli artt. 3 e 24 Cost., per avere la Corte d’appello escluso che il giudice di primo grado avesse pronunciato una sentenza viziata da insanabile contrasto tra dispositivo e motivazione, rinvenendo soltanto un errore materiale, che procedeva a correggere d’ufficio, nella parte in cui era stato indicato, in dispositivo e a pagina 11 della sentenza, un saldo a debito della RAGIONE_SOCIALE in riferimento al conto corrente n. 2087, mentre invece si trattava di saldo a credito della correntista, come si evinceva dagli argomenti spesi a pagina 5 della motivazione.
Con il secondo motivo di ricorso è dedotta la violazione e falsa applicazione dell’art. 2697 c.c. e dell’art. 194 c.p.c. (art. 360, comma 1, n. 3, c.p.c.) e la violazione dell’art. 115, comma 2, c.p.c. (art. 360, comma 1, n. 3, c.p.c.), per avere la Corte d’appello ritenuto che la RAGIONE_SOCIALE non avesse adempiuto all’onere della prova su di lei gravante, in ordine alla domanda di accertamento del carattere usurario del tasso d’interesse applicato, mentre
invece il contratto di conto corrente era stato acquisito al processo, perché prodotto dalla banca, e il d.m. di rilevazione del tassi effettivi globali medi alla data di stipula del contratto di conto corrente (secondo trimestre 2001) effettivamente non era stato prodotto, ma il Tribunale, nel formulare il quesito al CTU, aveva espressamente stabilito che quest’ultimo dovesse tenere conto dei valori di soglia indicati nella relazione di parte, prodotta dalla correntista, ove era indicato il tasso soglia nella misura del 14,26%, e comunque la produzione del menzionato d.m. non era onere gravante sulla parte, trattandosi di atto che andava ad integrare il precetto penale dell’art. 644 c.p. (norma penale in bianco) e comunque essendo qualificabile il tasso-soglia come fatto notorio, la cui entità peraltro, come indicata dal consulente di parte della RAGIONE_SOCIALE, non era mai stata contestata.
Con il terzo motivo di ricorso è dedotta la violazione e falsa applicazione degli artt. 112 e 113 c.p.c. (art. 360, comma 1, n. 3, c.p.c.), dell’art. 2 bis l. n. 2 del 2009, nonché dell’art. 6 bis, comma 1, d.l. n. 201 del 2011 e dell’art. 117 bis d.lgs. n. 385 del 1993, unitamente all’art. 5 del decreto d’urgenza del Ministro dell’economia e delle finanze n. 644 del 30/06/2012 (art. 360, comma 1, n. 3, c.p.c.), per avere la Corte d’appello fatto propria la CTU nella parte in cui aveva espunto dal conteggio le commissioni di massimo scoperto solo fino al 30/09/2009, perché da tale data aveva ritenuto che fosse in vigore la nuova commissione onnicomprensiva, così non rispettando il quesito (che richiedeva di espungere ogni importo contabilizzato a debito a titolo di commissioni di massimo scoperto) e quanto statuito nell’ordinanza istruttoria del 08/02/2016 (che rilevava la mancata previsione in contratto di commissioni di massimo scoperto), senza neppure verificare le condizioni per la valida applicazione delle commissioni per il tempo successivo alla menzionata entrata in vigore, pure previste prima dall’art. 2 bis l. n. 2 del 2009 e poi dal novellato art.
117 bis d.lgs. n. 385 del 1993, introdotto dall’art. 6 bis d.l. n. 201 del 2011.
Con il quarto motivo è dedotta la violazione e la falsa applicazione degli artt. 91 e 336 c.p.c., per avere la Corte d’appello posto a carico della RAGIONE_SOCIALE le spese del secondo grado di giudizio, come quelle del primo grado e di CTU, mentre avrebbe dovuto considerare che la domanda attorea era stata accolta, con accertamento di un determinato credito nei confronti della banca, evidenziando che, in ogni caso, anche la sola correzione della sentenza di primo grado avrebbe dovuto comportare la riforma della statuizione sulle spese.
Il primo motivo di ricorso è inammissibile.
2.1. Nella sentenza impugnata, la Corte di merito, dopo avere evidenziato le ipotesi in cui può ritenersi sussistente un insanabile contrasto tra motivazione e dispositivo, ha ritenuto quanto segue: «Nel caso di specie non ricorre alcuna ipotesi di nullità della sentenza, dovendosi invece ritenere che la pronuncia del Giudice di prime cure sia affetta da mero errore materiale: dal contenuto della sentenza impugnata, infatti, non risulta alcun contrasto tra motivazione e dispositivo della sentenza, essendo al contrario ben evidente la reale portata del provvedimento (condivisione delle risultanze della CTU e conseguente rideterminazione del saldo del credito). Come detto, deve quindi più correttamente parlarsi di errore materiale, ovvero di fortuita divergenza tra il giudizio e la sua espressione letterale, cagionata da mera svista o disattenzione, immediatamente evidente e senza necessità di indagine ricostruttiva del pensiero del giudice, il cui contenuto resta individuabile ed individuato senza incertezza. Infatti, raffrontando il dispositivo con la motivazione (che ha condiviso le risultanze della CTU) è immediatamente evidente la fortuita divergenza fra il giudizio e la sua espressione letterale, laddove il saldo a credito (come individuato dal c.t.u.) è divenuto, a seguito di mera svista o
disattenzione, saldo debitore. Pertanto, l’errore materiale della sentenza andrà corretto come segue: l’espressione ‘saldo debitore’ contenuta a pag. 11, paragrafo 5.5 ed al punto 1 del dispositivo della sentenza impugnata dee intendersi come ‘saldo creditore’.» (p. 12-13 della sentenza impugnata)
Nell’illustrare il motivo di ricorso per cassazione, parte ricorrente ha dedotto quanto segue:
contrariamente a quanto ritenuto dalla Corte d’appello, nella specie non si è trattato di un contrasto solo apparente tra motivazione e dispositivo della pronuncia di primo grado, perché il Tribunale ha anche condannato l’attuale ricorrente anche alle spese del primo giudizio;
il processo logico della decisione di appello è stato irretrattabilmente contraddittorio, perché, se fosse stato vero che come ha affermato il giudice del gravame – in pendenza dei termini per proporre appello gli errori materiali sono emendabili unicamente con il procedimento ex art. 287 c.p.c., allora alla correzione avrebbe dovuto provvedere il Tribunale;
La Corte d’Appello ha errato nel ritenere la censura un mero errore materiale e contraddittoriamente l’ha corretto, di fatto dando atto della concorrenza del proprio potere di riforma con quello di cassazione;
a ben vedere la contraddittorietà è anche all’interno della stessa motivazione, laddove al capo 5.5.2, pag. 5, il saldo risulta ‘positivo’, mentre al capo 5.5, pag. 11, diviene negativo, per poi essere rimosso nel dispositivo (p. 6-7 del ricorso per cassazione).
2.2. Si deve subito rilevare l’inammissibilità delle censure ai punti b) e c) sopra riportati, che non risultano avere alcuna attinenza con il tenore della statuizione impugnata, la quale non ha affrontato il tema della competenza a provvedere sulla correzione dell’errore materiale.
2.3. Per quanto riguarda le censure ai punti b) e d), invece, le critiche mosse si sostanziano nella non condivisione della statuizione adottata nella parte in cui ha ritenuto trattarsi, nella specie, di un errore materiale, per l’assenza di contrasto tra motivazione e dispositivo, ritenendo chiara la decisione assunta, che ha accertato un credito della correntista di € 6.339,84, cui è seguita la sostituzione della dicitura ‘saldo debitore’ alla espressione ‘saldo creditore’ nella parte della motivazione che ha riassunto le statuizioni finali e nel dispositivo per una mera svista o disattenzione.
Si tratta dunque di una critica al merito della valutazione operata, come tale inammissibile in sede di legittimità.
Il secondo motivo di ricorso è inammissibile.
3.1. Com’è noto, in tema di ricorso per cassazione, è necessario che venga contestata specificamente la ratio decidendi posta a fondamento della pronuncia impugnata (Cass., Sez. 6-3, Ordinanza n. 19989 del 10/08/2017).
3.2. Nella specie, parte ricorrente ha illustrato il motivo in esame, affermando che il contratto di conto corrente era stato prodotto in giudizio dalla banca e che il d.m. di rilevamento pertinente non era stato inspiegabilmente allegato alle produzioni a corredo della consulenza tecnica di parte, ma il CTU avrebbe dovuto tenere conto di quello indicato dal suo consulente, nella relazione peritale prodotta, richiamata nel mandato peritale, e comunque acquisirlo autonomamente, in quanto elemento integrante una norma penale in bianco e comunque espressione di un fatto notorio.
3.3. La censura non coglie la ratio della decisione impugnata, che non si è limitata a dare rilievo all’assenza dei decreti ministeriali o del contratto ma, dopo avere ricordato la documentazione assente (p. 13 e 14 della sentenza impugnata), ha ritenuto che correttamente il Tribunale aveva ritenuto che «la
mancata allegazione dei dati contabili al momento dell’apertura del conto corrente (6.4.2001) quali, tra gli altri, gli estratti di conto corrente, i decreti ministeriali, i tassi d’interesse legale, comportava de plano il rigetto della domanda in merito all’usurarietà originaria degli interessi applicati dalla banca convenuta.»
Il terzo motivo di ricorso è inammissibile.
4.1. Com’è noto, con i motivi di ricorso per cassazione la parte non può limitarsi a riproporre le tesi difensive svolte nelle fasi di merito, disattese dal giudice dell’appello, senza considerare le ragioni offerte da quest’ultimo, poiché in tal modo si determina una mera contrapposizione della propria valutazione al giudizio espresso dalla sentenza impugnata che si risolve, in sostanza, nella proposizione di un “non motivo”, come tale inammissibile ex art. 366, comma 1, n. 4, c.p.c. (Cass., Sez. 1, Ordinanza n. 22478 del 24/09/2018).
Il motivo d’impugnazione è, infatti, costituito dall’enunciazione delle ragioni per le quali la decisione impugnata è ritenuta erronea e si traduce in una critica della stessa, non potendosi, a tal fine, prescindere dalle motivazioni poste a base del provvedimento impugnato, la mancata considerazione delle quali comporta la nullità del motivo per inidoneità al raggiungimento dello scopo, che, nel giudizio di cassazione, risolvendosi in un “non motivo”, è sanzionata con l’inammissibilità ai sensi dell’art. 366, comma 1, n. 4, c.p.c. (Cass., Sez. 3, Sentenza n. 17330 del 31/08/2015).
4.2. Nella specie, la ricorrente ha illustrato il motivo di ricorso per cassazione semplicemente riportando il corrispondente motivo di appello (con cui ha criticato la CTU espletata, per il mancato conteggio delle commissioni di massimo scoperto nel periodo successivo al 30/09/2009) e illustrando i corrispondenti argomenti, ma non ha dedotto nulla sulle ragioni poste a fondamento della
decisione di appello, che ha respinto il gravame, né ha esplicitato i motivi per cui ha ritenuto di non condividerle.
Il quarto motivo di ricorso è inammissibile nella parte in cui censura la statuizione sulle spese in primo grado e infondato per il resto.
Parte ricorrente ha dedotto di avere appellato la statuizione del Tribunale sul punto, ma della formulazione di tale motivo, in sede di appello, non ha una dato specifica indicazione e descrizione, non risultando neppure elencato tra i motivi di gravame descritti nella sentenza impugnata (p. 6 della sentenza impugnata), che, infatti, non ha trattato tale questione (p. 12-20 della sentenza impugnata), la quale non può dunque essere esaminata per la prima volta in sede di legittimità.
Correttamente poi, il giudice di appello non ha dato rilievo alla correzione dell’errore materiale operata d’ufficio, nella statuizione sulle spese di lite, trattandosi di procedura amministrativa, che non richiede la formulazione di un motivo di impugnazione, restando, per il resto, la pronuncia correttamente regolata dalla soccombenza.
In sintesi, il ricorso deve essere respinto.
La statuizione sulle spese, liquidate in dispositivo, segue la soccombenza.
In applicazione dell’art. 13, comma 1 quater , d.P.R. n. 115 del 2002, si deve dare atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento da parte della ricorrente di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello richiesto per l’impugnazione proposta, se dovuto.
P.Q.M. la Corte rigetta il ricorso;
condanna la ricorrente alla rifusione delle spese di lite sostenute dalla controricorrente, che liquida in € 4.000,00 per compenso, oltre € 200,00 per esborsi ed accessori di legge;
dà atto, in applicazione dell’art. 13, comma 1 quater , d.P.R. n. 115 del 2002, della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento da parte della ricorrente di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello richiesto per l’impugnazione proposta, se dovuto.
Così deciso in Roma, nella camera di consiglio della Prima Sezione