Ordinanza di Cassazione Civile Sez. 3 Num. 10806 Anno 2025
Civile Ord. Sez. 3 Num. 10806 Anno 2025
Presidente: NOME COGNOME NOME
Relatore: NOME COGNOME
Data pubblicazione: 24/04/2025
Locazione -Sfratto per morosità -Mutamento di rito -Domanda nuova
ad. 21.01.2025
ORDINANZA
sul ricorso iscritto al n. 20098/2021R.G., proposto da
NOME COGNOME rappresentata e difesa dall’avv. NOME COGNOME Pietrasanta e dall’avv. NOME COGNOME domiciliata ex lege come da indirizzo pec indicato,
–
ricorrente –
contro
RAGIONE_SOCIALE in liquidazione , in persona del legale rappresentante p.t. NOME COGNOME rappresentata e difesa dall’avv. NOME COGNOME domiciliata ex lege come da indirizzo pec indicato,
–
contro
ricorrente – per la cassazione della sentenza n. 3392/2021 della CORTE d’APPELLO di Roma pubblicata il 18.5.2021;
udita la relazione svolta nella Camera di consiglio del 21.01.2025 dal Consigliere dott. NOME COGNOME
SVOLGIMENTO DEL PROCESSO
Con sentenza pubblicata il 18.5.2021 la Corte d’appello di Roma, pronunciando in sede di rinvio a seguito dell’ordinanza n. 4982/2013 emessa dalla Corte di Cassazione e pubblicata il 28.2.2013, rigettò l’appello proposto da NOME COGNOME nei confronti di RAGIONE_SOCIALE in liquidazione avverso la sentenza del Tribunale di Roma n. 11626/2009. La Corte, inoltre, compensò le spese dei giudizi di appello e di cassazione, ponendo a carico della COGNOME quelle del giudizio di rinvio.
La Corte d’appello, in relazione al primo motivo di impugnazione vertente sull’e rronea interpretazione, da parte del primo giudice, dell’effettivo contenuto della sentenza del Tribunale di Roma n. 19187/08, osservò:
-il Tribunale con la sentenza n. 19187/08, pur riconoscendo la validità del contratto di locazione del 31 dicembre 2003 (recante un canone di Euro 1.500,00 mensili), affermò che, ‘coeva alla stipula di tale contratto’, era stata convenuta anche una ‘integrazione verbale’ del suddetto canone (‘con ulteriori Euro 1.000,00’) ;
-il giudice di prime cure (con la sentenza oggetto della impugnazione) sottolineò che entrambe le domande di risoluzione avanzate dalla sig.ra COGNOMEcon i due distinti atti di intimazione) avevano avuto ad oggetto solo il contratto di locazione sottoscritto in data 30.12.2003 (poi registrato in data 29.11.2004), ma che la sentenza n. 19187/08 aveva accertato non essere più in vigore in ragione dell’accordo novativo intervenuto tra le parti in data 31.12.2003;
-a fronte di tali specifiche statuizioni, il fatto che la società intimata, in occasione del deposito della sua memoria difensiva, avesse ammesso di aver versato, per il periodo marzo 2004-giugno 2005, un canone di soli Euro 1.500,00 (e quindi in violazione dell’accordo integrativo) non valeva comunque ad escludere la circostanza, non contestata dall’appellante, che le domande di risoluzione del rapporto di locazione, nelle due distinte intimazioni, erano state basate unicamente sul contratto del 30.12.2003 e, quindi, su un petitum diverso, ossia la risoluzione di tale contratto, e non del successivo contratto del 31.12.2003, registrato il 13.1.2004;
-lo stesso Tribunale affermò anche che la successiva domanda di risoluzione del contratto del 31.12.2003 doveva reputarsi nuova, perché ‘ formulata dopo la trasformazione del rito ‘ e tale statuizione non aveva formato oggetto di impugnazione.
Da tanto discendeva che le uniche richieste ammissibili di risoluzione del rapporto locatizio afferivano al contratto sottoscritto in data 30.12.2003 e, quindi, il motivo di censura andava disatteso.
La Corte d’appello rigettò , altresì, il secondo motivo relativo alla pretesa mancata pronuncia sulla domanda di risoluzione relativa al mancato pagamento del canone di maggio 2008. Notò la Corte d’appello che la domanda era stata espressamente presa in considerazione dal primo giudice e delibata, in un unico contesto, con l’altra domanda di risoluzione contrattuale per l’autoriduzione dei canoni.
La Corte d’appello disattese anche il terzo motivo d’appello , con il quale la sig.ra COGNOME in riferimento al ‘reale importo dei canoni di locazione’, aveva nuovamente sostenuto che il contratto da ritenersi valido tra le parti era quello sottoscritto in data 30.12.2003, recante la previsione dell’importo mensile di Euro 3.000,00. Il giudice di seconde cure rilevò che la Corte di Cassazione con la sentenza n. 10379/2017, resa a definizione dell’impugnazione avverso la sentenza n. 529/2013 (sempre della Corte di Appello di Roma ed originata dall’impugnazione della sentenza n. 19187/2008 del Tribunale di Roma), aveva espressamente affermato che ‘l’accertamento dell’efficacia novativa del secondo contratto è stato oggetto di pronuncia del Tribunale non impugnata da RAGIONE_SOCIALE e dunque coperta da giudicato interno, non essendo consentito l’accesso in sede di legittimità alla relativa censura’. Ne conseguiva che, avendo il Tribunale di Roma – con la sentenza n. 19187/2008 – ritenuto valido il contratto del 31.12.2003, che fissava il canone locatizio nella misura di Euro 1.500,00 (valutazione successivamente ripresa nella sentenza n. 11626/2009 oggetto del gravame), alla luce del predetto giudicato doveva oramai ritenersi preclusa per l’appellante la possibilità di ottenere una riforma dello specifico profilo.
Per la cassazione della sentenza della Corte ricorre NOME COGNOME sulla base di tre motivi. Risponde con controricorso RAGIONE_SOCIALE in liquidazione.
La trattazione del ricorso è stata fissata in camera di consiglio, ai sensi dell’art.380bis .1. cod. proc. civ..
Il Pubblico Ministero presso la Corte non ha presentato conclusioni scritte.
La controricorrente ha depositato memoria illustrativa.
RAGIONI DELLA DECISIONE
Preliminarmente, deve essere disattesa l’eccezione di inammissibilità del ricorso per l’inesistenza della notifica effettuata a mezzo pec da un avvocato non iscritto all’albo speciale dei cassazionisti .
Il ricorso per cassazione è stato presentato dall’avv. NOME COGNOME e dall’avv. NOME COGNOME in forza di procura speciale alle liti apposta su foglio separato e allegato al ricorso, dalla quale si evince l’attribuzione ai predetti difensori da parte di NOME COGNOME della delega a rappresentarla e difenderla ‘unitamente e disgiuntamente’.
La controricorrente rileva che da una verifica effettuata presso il sito del Consiglio Nazionale Forense risulta che il solo avvocato Cosi è iscritto all’albo speciale dei cassazionisti, ma non l’avv. COGNOME il quale, tuttavia, ha provveduto, ai sensi della legge 53/1994 e successive modifiche, alla notifica a mezzo pec del ricorso ad RAGIONE_SOCIALE in liquidazione e all’avv. NOME COGNOME quale procuratore costituito nel giudizio R.G. 249/2014 dinanzi alla Corte d’appello di Roma.
1.1. Osserva la Corte che secondo un indirizzo consolidato, al quale deve essere data continuità in questa sede, il requisito dell’iscrizione nell’albo speciale previsto dall’art. 365 cod. proc. civ. riguarda l’attività difensiva e non già quella puramente procuratoria, che può non coesistere nello stesso soggetto, sì che è stato reiteratamente affermato che è ‘ ammissibile il ricorso per cassazione che, sottoscritto da un avvocato iscritto nell’apposito albo, sia notificato a richiesta di altro avvocato, nominato unitamente al primo difensore e procuratore del ricorrente per il giudizio di legittimità ma non
abilitato all’esercizio davanti alle magistrature superiori, perché il particolare requisito dell’iscrizione nell’albo speciale riguarda l’attività difensiva e non già quella puramente procuratoria, che può non coesistere nello stesso soggetto, e la notificazione è un atto dell’ufficiale giudiziario che può essere eseguito ad istanza del procuratore ‘ (v. Cass., sez. II, 20 ottobre 1976, n. 3645; sez. lav., 20 aprile 1995, n. 4438; sez. V, 23 novembre 2012, n. 20790; Cass. 27 aprile 2017, n. 10403; sez. I, 5 luglio 2019, n. 18183; sez. V, 24 ottobre 2019, n. 27269).
Costituisce, inoltre, principio pacifico e risalente, quello secondo cui l’attività di impulso del procedimento notificatorio – ovvero la consegna dell’atto da notificare all’ufficiale giudiziario – può, dal soggetto legittimato a compierla, essere delegata ad altra persona, anche verbalmente, e, in tal caso, l’omessa menzione, nella relazione di notifica, della persona che materialmente ha eseguito l ‘ attività suddetta, ovvero della sua qualità di incaricato del legittimato, è irrilevante ai fini della validità della notificazione se, alla stregua dell’atto da notificare, risulta egualmente certa la parte ad istanza della quale essa deve ritenersi effettuata (v., Cass., sez. I, 8 marzo 2016, n. 4520; nello stesso senso, Cass., sez. I, 6 maggio 2011, n. 10004; sez. III, 22 giugno 2006, n. 14449). Si è, pertanto, affermato che ‘ Il principio secondo cui l’attività di impulso del procedimento notificatorio – consistente essenzialmente nella consegna dell’atto da notificare all’ufficiale giudiziario può essere delegata, anche verbalmente, dal soggetto legittimato, e cioè dalla parte o dal suo procuratore in giudizio, ad altra persona, opera anche quando la notifica sia eseguita, ai sensi degli art. 1 e ss. l. n. 53 del 1994, dall’avvocato domiciliatario su delega del difensore munito di procura alle liti, in quanto la legge citata non esclude espressamente la delegabilità di tale atto ad altro professionista, ove il delegante sia munito di procura, e tanto lui quanto il delegato siano autorizzati dai rispettivi ordini di appartenenza ‘ (v. Cass., sez. III, 29 settembre 2016, n, 19294; sez. II, 12 settembre 2023, n. 26356).
1.2. Per converso, da parte di questa Corte le ipotesi di inesistenza della notificazione sono state significativamente circoscritte per essere stato
affermato che ‘ l’inesistenza della notificazione del ricorso per cassazione è configurabile, in base ai principi di strumentalità delle forme degli atti processuali e del giusto processo, oltre che in caso di totale mancanza materiale dell’atto, nelle sole ipotesi in cui venga posta in essere un’attività priva degli elementi costitutivi essenziali idonei a rendere riconoscibile un atto qualificabile come notificazione, ricadendo ogni altra ipotesi di difformità dal modello legale nella categoria della nullità. Tali elementi consistono: a) nell’attività di trasmissione, svolta da un soggetto qualificato, dotato, in base alla legge, della possibilità giuridica di compiere detta attività, in modo da poter ritenere esistente e individuabile il potere esercitato; b) nella fase di consegna, intesa in senso lato come raggiungimento di uno qualsiasi degli esiti positivi della notificazione previsti dall’ordinamento (in virtù dei quali, cioè, la stessa debba comunque considerarsi, “ex lege”, eseguita), restando, pertanto, esclusi soltanto i casi in cui l’atto venga restituito puramente e semplicemente al mittente, così da dover reputare la notificazione meramente tentata ma non compiuta, cioè, in definitiva, omessa ‘ (v. Cass., sez. un., 20 luglio 2016, n. 14916; sez. lav., 7 giugno 2008, n. 14840; sez. III, 8 settembre 2022, n. 26511).
Nel caso in esame non ricorre alcuna delle ipotesi indicate, né per poter affermare l’inesistenza della notifica è dirimente, come sostenuto dalla controricorrente, il fatto che essa sia stata fatta a mezzo pec e non dall’ufficiale giudiziario , posto che il requisito dell’iscrizione nell’albo speciale dei cassazionisti, come già detto, riguarda l’attività difensiva e non quella procuratoria relativa al procedimento notificatorio, il cui svolgimento è stato curato da un procuratore incaricato dalla parte ‘unitamente e disgiuntamente ‘ insieme all’altro difensore (quello abilitato a svolgere attività difensiva) .
Con il primo motivo viene denunciata, ai sensi dell’art. 360, comma primo n. 3 e n. 4, cod. proc. civ., la violazione o falsa applicazione degli artt. 132, n. 4, e 342 cod. proc. civ.
Lamenta la ricorrente che la Corte d’appello erroneamente avrebbe ritenuto che la domanda risolutoria fosse fondata sul contratto registrato il
29.11.2004 e che non avrebbe impugnato il capo della sentenza di primo grado relativo alla dedotta inammissibilità della domanda di risoluzione, formulata dopo la trasformazione del rito, del contratto registrato il 13.1.2004. Per contro, la domanda risolutoria formulata in primo grado da NOME COGNOME successivamente al mutamento del rito, era legittimamente fondata sulla disciplina negoziale accertata dalla sentenza n. 19187/2008 del Tribunale di Roma.
La Corte d’appello , invece, ha colto la fondatezza delle doglianze dell’appellante, là dove ha affermato che in occasione della pronuncia della sentenza n. 19187/2008, pur riconoscendo la validità del contratto di locazione del 31.12.2003 (recante il canone di euro 1.500 mensili), fu ritenuto che in modo coevo era stata concordata verbalmente una integrazione di ulteriori euro 1.000 al mese, ‘ma piuttosto che interrogarsi se NOME COGNOME avesse o meno impugnato l’inammissibilità (invece censurata), dedotta dal Tribunale, il Giudice di secondo grado avrebbe dovuto verificare, come compulsato dal primo motivo d’appello, se il Tribunale avesse fatto o meno corretta applicazione della sentenza n. 19187/2008, utilizzata ai fini della decisione, e se proprio l’uso di tale statuizione da parte del Giudicante avesse o meno legittimato, a sua volta, la domanda risolutoria formulata da NOME COGNOME successivamente al mutamento del rito’.
2.1. Il motivo è inammissibile in quanto privo di specificità ai sensi dell’art. 366, comma primo, n. 4, cod. proc. civ..
La ricorrente , nell’intestazione del motivo prospetta un vizio motivazionale, che, in disparte i ben noti limiti indotti da lla modifica dell’art. 360, comma primo n. 5, cod. proc. civ. a proposito della riduzione del sindacato di legittimità entro la soglia del c.d. ‘minimo costituzionale’ (è denunciabile in Cassazione solo l’anomalia motivazionale che si tramuta in violazione di legge costituzionalmente rilevante, in quanto attinente all’esistenza della motivazione in sé, purché il vizio risulti dal testo della sentenza impugnata, a prescindere dal confronto con le risultanze processuali; tale anomalia si esaurisce nella «mancanza assoluta di motivi
sotto l’aspetto materiale e grafico», nella «motivazione apparente», nel «contrasto irriducibile tra affermazioni inconciliabili» e nella «motivazione perplessa ed obiettivamente incomprensibile», esclusa qualunque rilevanza del semplice difetto di «suffic ienza» della motivazione»’ , v. Cass., sez. un., 7 aprile 2014, nn. 8053 e 8054; Cass., sez. III, 12 ottobre 2017, n. 23940; Sez. VI-3, 25 settembre 2018, n. 22598; sez. I, 3 marzo 2022, n. 7090), non ha in alcun modo esplicato. L’esposizione del motivo non contiene l’illustrazione del modo in cui il giudice di merito avrebbe violato l’obbligo di esposizione del percorso argomentativo in ordine al rigetto del primo motivo di appello.
Infatti, il motivo d’impugnazione è costituito dall’enunciazione delle ragioni per le quali la decisione è erronea e si traduce in una critica della decisione impugnata, non potendosi, a tal fine, prescindere dalle motivazioni poste a base del provvedimento stesso, la mancata considerazione delle quali comporta la nullità del motivo per inidoneità al raggiungimento dello scopo; tale nullità si risolve in un “non motivo” del ricorso per cassazione ed è conseguentemente sanzionata con l’inammissibilità, ai sensi dell’art. 366, n. 4, cod. proc. civ. (principio costante: si veda Cass. 11 novembre 2005, n. 359; ed in motivazione espressa, sebbene non massimata sul punto, Cass., sez. un., 20 marzo 2017, n. 7074; nonché Cass., sez. un., 24 luglio 2013, n. 17931 riguardo alla prevalenza della sostanza rispetto alla formale enunciazione del motivo; più di recente Cass. 24 settembre 2018, n. 22478; 12 gennaio 2024, n. 1341).
Il vizio di motivazione, al di là della formale evocazione dell’art. 132, secondo comma, n. 4 cod. proc. civ., risulta mal dedotto, là dove viene fondato su elementi aliunde rispetto la motivazione della sentenza (contro i principi fissati dalle Sezioni Unite nelle sentenze 7 aprile 2014, nn. 8054 e 8053).
Osserva, altresì, la Corte che anche la violazione dell’art. 342 cod. proc. civ. non è argomentata e, peraltro, se la si volesse intendere nel senso che l’appello comprendeva la denuncia dell’affermazione della novità della domanda, in quanto si riporta in questa sede non vi è traccia della censura
dell’affermazione di novità. Tanto nemmeno implicitamente, non senza doversi osservare che proprio l’art. 342 cod. proc. civ., là dove esige la specificità contraddice l’idea di un motivo di appello, per così dire, implicito.
Con il secondo motivo è denunciata, ai sensi dell’art. 360, comma primo n. 3 e n. 4, cod. proc. civ., la violazione dell’art. 324 cod. proc. civ. e dell’ art. 2909 cod. civ.; omessa valutazione del giudicato formatosi in sede di giudizio di rinvio sulla disciplina contrattuale effettivamente applicabile al rapporto locatizio oggetto della domanda di risoluzione.
La ricorrente si duole per non aver la Corte d’appello considerato il giudicato costituito dalla sentenza n. 19187/2008 del Tribunale di Roma formatosi solo a seguito del deposito, avvenuto il 27.4.2017, della sentenza n. 10379/2017 della Corte di Cassazione , ‘che ha mutato, solo in sede di riassunzione del giudizio di rinvio, il quadro di riferimento della risoluzione contrattuale ab origine azionata’.
La Corte d’appello, pur cogliendo ‘ il fatto che la società intimata, in occasione del deposito della sua memoria difensiva, abbia ammesso di aver versato, per il periodo marzo 2004-giugno 2005, un canone di soli euro 1.500 (e quindi in violazione dell’accordo integrativo)’ , non avrebbe considerato il passaggio in giudicato della sentenza n. 19187/2008, invocata dalla locatrice a fondamento della domanda risolutoria, e, quindi, ‘ben avrebbe potuto valutare nel merito tale domanda, risultando fondata, proprio perché sussistente la confessione dell’RAGIONE_SOCIALE circa il proprio inadempimento’.
3.1. Il motivo è inammissibile ai sensi dell’art. art. 366, comma primo, n. 4, cod. proc. civ. per difetto di una denuncia pertinente rispetto alla ratio decidendi enunciata dalla Corte d’appello.
La ricorrente nel dedurre la violazione del giudicato rappresentato dalla sentenza n. 19187/2008 del Tribunale di Roma non ha aggredito la sentenza della Corte d’appello nella parte in cu i, nel disattendere il primo motivo di appello, è stato ritenuto, al pari di quanto affermato dal Tribunale con la sentenza n. 11626/2009 (oggetto di impugnazione nel procedimento n. 249/2014 RG Corte d’appello di Roma), che le uniche richieste ammissibili di
risoluzione del rapporto locatizio afferivano al contratto sottoscritto in data 30.12.2003, mentre la domanda introdotta dopo il mutamento del rito, in quanto basata sul contratto del 31.12.2003, oggetto di scrutinio da parte della sentenza n. 19187/2008, era inammissibile.
La Corte d’appello a pagina sette (penultimo capoverso) ha scritto: ‘ A ciò, poi, aggiungasi che lo stesso Tribunale affermò anche che la successiva domanda di risoluzione del contratto del 31/12/2003 doveva reputarsi inammissibile per il suo carattere di novità, perché ‘ formulata dopo la trasformazione del rito ‘. Tale statuizione non ha formato oggetto di impugnazione con il presente gravame. Ne consegue che, avendo la sig.ra COGNOME basato le uniche richieste (ammissibili) di risoluzione del rapporto locatizio soltanto sul contratto sottoscritto in data 30/12/2003, il motivo di censura non può che essere disatteso ‘.
La ricorrente non si è confrontata con la ratio decidendi enunciata dalla Corte d’appello, di qui l’inammissibilità del motivo svolto, giusta il principio di diritto consolidato affermato da Cass. n. 359 del 2005 (Il motivo d’impugnazione è rappresentato dall’enunciazione, secondo lo schema normativo con cui il mezzo è regolato dal legislatore, della o delle ragioni per le quali, secondo chi esercita il diritto d’impugnazione, la decisione è erronea, con la conseguenza che, in quanto per denunciare un errore bisogna identificarlo e, quindi, fornirne la rappresentazione, l’esercizio del diritto d’impugnazione di una decisione giudiziale può considerarsi avvenuto in modo idoneo soltanto qualora i motivi con i quali è esplicato si concretino in una critica della decisione impugnata e, quindi, nell’esplicita e specifica indicazione delle ragioni per cui essa è errata, le quali, per essere enunciate come tali, debbono concretamente considerare le ragioni che la sorreggono e da esse non possono prescindere, dovendosi, dunque, il motivo che non rispetti tale requisito considerarsi nullo per inidoneità al raggiungimento dello scopo. In riferimento al ricorso per Cassazione tale nullità, risolvendosi nella proposizione di un “non motivo”, è espressamente sanzionata con
l’inammissibilità ai sensi dell’art. 366 n. 4 cod. proc. civ.), ribadito, ex multis , da Cass., Sez. Un., n. 7074 del 2017; da ultimo da Cass. n. 1341 del 2024.
Con il terzo motivo , ai sensi dell’art. 360, comma primo n. 4, cod. proc. civ., si denuncia la violazione dell’art. 92 cod. proc. civ.; erronea mancata compensazione delle spese di lite del giudizio di rinvio riassunto dalla locatrice.
La ricorrente censura la sentenza nella parte in cui, pur compensate le spese del giudizio di appello e di quello di legittimità, è stata condannata alla rifusione delle spese del giudizio di rinvio. Viceversa, la Corte d’appello avrebbe dovuto cogliere in sede di rinvio una reciproca soccombenza o quantomeno gravi ed eccezionali ragioni legittimanti la compensazione: la sentenza n. 19187/2008 aveva rigettato la ragioni della conduttrice; la tesi della conduttrice (esistenza di una unica fonte di regolamentazione e previsione del canone di euro 1.500) era stata ampiamente disattesa dalla ridetta pronuncia del Tribunale di Roma; la conduttrice aveva ammesso il proprio inadempimento dichiarando di aver versato tra marzo 2004 e giugno 2005 il canone di euro 1.500.
4.1. Il motivo è inammissibile perché estraneo al paradigma in cui è ammesso il sindacato di legittimità in tema di regolazione delle spese di lite.
La valutazione sulla concessione o meno della compensazione delle spese sul presupposto, eventualmente, della esistenza di una soccombenza reciproca o di altre ragioni rientra nel potere discrezionale del giudice di merito ed esula dalla valutazione di questa Corte (in termini, si veda il consolidato principio di diritto di cui a Cass., Sez. Un., 15 luglio 2005, n. 14989, ribadito da Cass. 31 marzo 2006, n. 7607; 26 aprile 2019, n. 11329). Infatti, il sindacato della Corte di cassazione è limitato ad accertare che non risulti violato il principio secondo il quale le spese non possono essere poste a carico della parte totalmente vittoriosa; pertanto, esula da tale sindacato e rientra nel potere discrezionale del giudice di merito la valutazione dell’opportunità di compensare in tutto o in parte le spese di lite, e ciò sia nell’ipotesi di soccombenza reciproca, sia nell’ipotesi di concorso di altri giusti motivi (v. Cass. 31 agosto 2020, n. 18128; 17 ottobre 2017, n. 24502; 31
marzo 2017, n. 8421; 19 giugno 2013, n. 15317), ferma restando la necessità della verifica che non siano addotte ragioni illogiche o erronee a fondamento della decisione di compensazione, risolvendosi il sindacato di legittimità, come affermato dalla Corte costituzionale (v. sentenza, 4 giugno 2014, n. 157), in una verifica «in negativo» in ragione della «elasticità» costituzionalmente necessaria che caratterizza il potere giudiziale di compensazione delle spese di lite, ‘non essendo indefettibilmente coess enziale alla tutela giurisdizionale la ripetizione delle dette spese in favore della parte vittoriosa’ (v., Corte Cost., 19 aprile 2018, n. 77; Cass. 26 luglio 2021, n. 21400).
La Corte d’appello ha disposto la compensazione delle spese del giudizio di appello e del successivo giudizio di legittimità in quanto afferenti ad un aspetto di mero rito, peraltro originato da una valutazione operata d’ufficio dal giudice di secondo grado. Per contro, le spese del giudizio di rinvio, oggetto del presente motivo, sono state poste a carico di NOME COGNOME in quanto soccombente. E non è dubbio che nei procedimenti, poi riuniti, alla base della sentenza oggi impugnata, la COGNOME sia rimasta totalmente soccombente.
Il ricorso, pertanto, deve essere dichiarato inammissibile.
Le spese del giudizio di cassazione, liquidate come da dispositivo, seguono la soccombenza.
Va dato atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte della ricorrente, ai sensi dell’art. 13, comma 1quater , d.P.R. 30 maggio 2002 n. 115, nel testo introdotto dall’art. 1, comma 17, della legge 24 dicembre 2012, n. 228, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato, se dovuto, pari a quello previsto per il ricorso, a norma del comma 1bis dello stesso art. 13 (Cass., sez. un., 20 febbraio 2020, n. 4315).
P.Q.M.
La Corte dichiara il ricorso inammissibile e condanna la ricorrente alla rifusione delle spese del giudizio di legittimità, in favore della controricorrente, che liquida in euro 200,00 per esborsi ed euro 4.000,00 per competenze professionali, oltre rimborso forfetario del 15%, Iva e cpa come per legge.
Ai sensi dell’art. 13 comma 1 quater del d.P.R. n. 115 del 2002, inserito dall’art. 1, comma 17 della l. n. 228 del 2012, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte della ricorrente, al competente ufficio di merito, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello per il ricorso, a norma del comma 1-bis, dello stesso articolo 13, se dovuto.
Così deciso in Roma nella camera di consiglio della Terza sezione civile della