Ordinanza di Cassazione Civile Sez. 3 Num. 1038 Anno 2025
Civile Ord. Sez. 3   Num. 1038  Anno 2025
Presidente: COGNOME NOME
Relatore: COGNOME NOME
Data pubblicazione: 16/01/2025
ORDINANZA
sul ricorso iscritto al n. 16952/2022 R.G. proposto da : COGNOME NOME, COGNOME NOME, elettivamente domiciliati  in INDIRIZZO, presso lo studio dell’avvocato COGNOME NOME (CODICE_FISCALE) che li rappresenta e difende unitamente all’avvocato COGNOME NOME (CODICE_FISCALE)
-ricorrente- contro
COGNOME NOME, elettivamente domiciliato in INDIRIZZO, presso lo studio dell’avvocato COGNOME NOME (CODICE_FISCALE) che lo rappresenta e difende unitamente all’avvocato COGNOME NOME (CODICE_FISCALE)
-controricorrente-
nonchè contro
RAGIONE_SOCIALE, elettivamente domiciliato in INDIRIZZO, presso lo studio dell’avvocato COGNOME NOME (CODICE_FISCALE) che lo rappresenta e difende
-controricorrente-
nonchè contro
RAGIONE_SOCIALE, elettivamente domiciliato in INDIRIZZO, presso lo studio dell’avvocato COGNOME NOME (CODICE_FISCALE) che lo rappresenta e difende
-controricorrente-
nonchè contro
RAGIONE_SOCIALE RAGIONE_SOCIALE
-intimato- avverso  SENTENZA  di  CORTE  D’APPELLO  ROMA  n.  2760/2022 depositata il 27/04/2022.
Udita la relazione svolta nella camera di consiglio del 22/11/2024 dal Consigliere NOME COGNOME.
Svolgimento del processo
Con atto notificato Il 27/06/2022 NOME e NOME  ricorrono  per  cassazione  della  sentenza  della Corte d’appello di  Roma  n.  2760  /2022  che  ha  rigettato l’appello, dichiarandolo inammissibile ex art. 342 c.p.c., avverso la sentenza del tribunale di Roma che  aveva ritenuto infondata
l’azione svolta nei confronti del AVV_NOTAIO per ottenere il risarcimento  del  danno  in  relazione  all’attività  professionale prestata  in  occasione  di  un  passaggio  di  azioni  dai  medesimi detenute in favore NOME COGNOME, che all’epoca risultava fallito, e  dunque  incapace  di  negoziare.  Resistono  il  AVV_NOTAIO, RAGIONE_SOCIALE e RAGIONE_SOCIALE con separati controricorsi. Il AVV_NOTAIO ha prodotto memoria illustrativa.
Per quanto ancora di interesse, la Corte d’appello ha ritenuto inammissibile il quinto motivo dell’appello degli odierni ricorrenti per non avere soddisfatto il criterio di specificità dei motivi di cui all’art. 342 c.p.c. , là dove il giudice di prime cure ha ritenuto, con una prima ratio decidendi (oggetto dell’attuale impugnazione), che fosse mancata la prova del danno che dal presunto errore del professionista possa essere derivato alle parti in relazione al comportamento in violazione dell’art. 1227 c.c. da essi assunto nella vicenda fallimentare che ne è seguita, non avendo gli appellanti dimostrato di avere dedotto argomentazioni a sostegno della loro buona fede (difendendosi come avrebbero invece potuto fare nel corso della procedura fallimentare). Per il resto ha ritenuto essere venuto meno l’interesse a valutare le censure mosse, all’interno dello stesso motivo, in relazione alla seconda ratio decidendi impugnata con il medesimo mezzo (circa la non riferibilità del danno patrimoniale al sequestro conservativo apposto sui beni dei ricorrenti per effetto della procedura fallimentare instauratasi nei loro confronti in conseguenza del negozio di cui è causa, ma ai pregressi vincoli esistenti sui beni), in ragione dell’inammissibilità rilevata in ordine alla prima statuizione del Tribunale, in grado di passare in giudicato e di costituire un’autonoma statuizione di rigetto della domanda risarcitoria per mancanza di nesso causale, essendo la condotta riferibile a
comportamento negligente delle parti attrici, valutabile  ex art. 1227 c.c.
Più precisamente, con il quinto motivo di appello, veniva impugnata la sentenza di primo grado là dove afferma che le parti venditrici a titolo oneroso -qui ricorrenti – non avevano dimostrato in sede fallimentare, addivenendo a una transazione che riconosceva loro solo la somma di € 15.000, di essersi difesi diligentemente affermando di avere stipulato con lo COGNOME una vendita simulata, pur essendo la scrittura privata in loro possesso (la controdichiarazione sulla gratuità dell’atto intervenuto), in grado di dimostrare il carattere simulato della dichiarazione di avvenuto versamento del prezzo di cessione indicato nella scrittura autenticata dal AVV_NOTAIO, pari a € 103.000, 00 c.a, rivendicata dal fallimento nei loro confronti ex art. 44 L.F.; assumeva il tribunale che gli attori avrebbero mancato di dimostrare la loro buona fede al Curatore del fallimento, non solo per avere accettato la transazione, ma anche perché la sottoposizione a sequestro dei cespiti immobiliari loro sequestrati, non poteva costituire un danno riferibile alla condotta omissiva del AVV_NOTAIO, posto che i cespiti immobiliari dei ricorrenti, al tempo della cessione, erano già gravati da altro pignoramento azionato da RAGIONE_SOCIALE con intervento di altri 19 creditori, e pertanto si erano deprezzati per altra causa, essendo divenuta difficoltosa la loro commerciabilità.
Assumevano  di  contro  gli  appellanti  qui  ricorrenti  di  avere tentato  di  dimostrare  la  gratuità  dell’atto  di  cessione  di  quote sociali e che la difficoltosa commerciabilità del bene oggetto di cessione  era  dipesa  dal  sequestro  conservativo  disposto  dal fallimento  e  non  dal  fatto  che  alcuni  dei  cespiti  fossero  già oggetto di pignoramento immobiliare, posto che il pignoramento non  concerneva  i  beni  della  NOME  sottoposti  a  sequestro
della curatela fallimentare e comunque non sarebbe sufficiente a impedire la circolazione del bene e la concessione di mutui bancari e che il perfezionamento della vendita di detti cespiti nel frattempo stipulata dal COGNOME non si era potuta perfezionare con i promissari acquirenti COGNOME e COGNOME in ragione del sequestro conservativo: talché tutti gli oneri economici sopportati a causa del sequestro conservativo fallimentare dovevano essere causalmente ricondotti alla condotta inadempiente del AVV_NOTAIO che ha consentito ai ricorrenti di stipulare la suddetta cessione di quote sociali, senza verificare la capacità del cessionario, ovvero il suo status di fallito, e senza informarli dei rischi connessi alla stipula di un atto simulato, pur essendo a ciò tenuto ai sensi della legge n. 246/2005 e degli artt. 1175 e 1176 c.c. c.c. La Corte d’appello, nel dichiarare in via pregiudiziale , l’inammissibilità dell’appello, ha ritenuto che, per quanto riguarda la prima ratio decidendi oggetto di censura, gli appellanti si fossero limitati a rappresentare, per dimostrare la loro buona fede e diligenza nel difendere le proprie posizioni innanzi all’organo fallimentare, di essersi costituiti nel procedimento fallimentare per dimostrare la gratuità della cessione, come comprovato dagli atti difensivi prodotti, ma non hanno spiegato se e per quale ragione debbono essere considerate errate in diritto le affermazioni del tribunale in tema di interpretazione dell’art. 44 della legge fallimentare e di individuazione delle azioni recuperatorie in astratto dai medesimi esperibili, né hanno allegato alcunché in relazione alla constatata assenza di buona fede nella stipulazione dell’atto di cessione e alle conseguenze tratte dal giudice ai fini del rigetto della loro domanda risarcitoria, evidentemente in applicazione dell’art. 1227 c.c.; ha rilevato altresì che la censura fosse generica anche nella parte in cui si sostiene che essi si
sarebbero  difesi adeguatamente  nel  giudizio  intrapreso dal fallimento, non avendo indicato quali atti difensivi avvalorerebbero le tale affermazione, pur avendo detto onere ex art. 342 c.p.c. , così come interpretato dalla giurisprudenza della Corte Suprema.
Il ricorso è affidato a  tre motivi.
Motivi della decisione
In via pregiudiziale, il controricorrente, nella memoria ,deduce l’improcedibilità del ricorso ai sensi dell’art 369 c.p.c. in quanto non risulta dall’indice degli atti indicati ed allegati al gravame che è stata presentata istanza alla Cancelleria della Corte di appello territoriale per la trasmissione del fascicolo alla cancelleria di codesta Suprema Corte. L’eccezione è infondata. La omessa menzione, nel ricorso per cassazione, del deposito degli atti e dei documenti di cui all’art. 369, comma 1, nn. 2 e 3, c.p.c., ovvero della avvenuta richiesta di trasmissione del fascicolo di ufficio alla Corte d’appello non determina l’improcedibilità del ricorso stesso, potendo questa conseguire soltanto ad una deficienza di carattere sostanziale consistente nella effettiva mancanza degli atti indispensabili ai fini della decisione nell’incarto processuale e nell’indispensabilità del loro esame ai fini della decisione. ( Cass. Sez. 3 – , Ordinanza n. 16605 del 11/06/2021; Cass. Sez. 3, Sentenza n. 12753 del 17/11/1999).
Con il primo motivo ex articolo 360 1 comma , n. 4 cod. proc. civ. i ricorrenti deducono la violazione dell’art. 342 c.p.c. per avere il giudice dichiarato l’ inammissibilità del quinto motivo di appello in relazione alla prima delle due rationes decidendi della sentenza di primo grado, essendo nei fatti il giudice ricorso a una motivazione apparente nel provvedere e dichiarare l’inammissibilità, in violazione degli artt. 156, co. 32, e 132, co. 2 n. 4 c.p.c.; nonché denunciano la nullità della sentenza per
inosservanza  dell’art.  99  c.p.c.,  avendo  il  giudice  di  merito dichiarato la sopraggiunta carenza di interesse ad impugnare la seconda ratio decidendi impugnata con lo stesso mezzo.
Il primo motivo va considerato in via autonoma  avendo carattere pregiudiziale.
Il motivo è inammissibile.
Il criterio di valutazione dell’inammissibilità dell’appello cui è ricorso il giudice di seconde cure si rifà al principio fatto proprio dalla Corte di cassazione in numerose pronunce in merito al contenuto minimo di un atto di appello. La questione è stata definita dalle Sezioni Unite di questa Corte, con sentenza n. 27199 del 16/11/2017, mediante la quale si è sancito che gli artt. 342 e 434 cod.proc. civ., nel testo formulato dal d.l. n. 83 del 2012, conv. con modif. dalla l. n. 134 del 2012, vanno interpretati nel senso che l’impugnazione deve contenere, a pena di inammissibilità, una chiara individuazione delle questioni e dei punti contestati della sentenza impugnata e, con essi, delle relative doglianze, affiancando alla parte volitiva una parte argomentativa che confuti e contrasti le ragioni addotte dal primo giudice, senza che occorra l’utilizzo di particolari forme sacramentali o la redazione di un progetto alternativo di decisione da contrapporre a quella di primo grado, ovvero la trascrizione totale o parziale della sentenza appellata, tenuto conto della permanente natura di ” revisio prioris instantiae ” del giudizio di appello, il quale mantiene la sua diversità rispetto alle impugnazioni a critica vincolata.
Sulla  base  di  quanto  stabilito  dalle    S.  U.  con  Sentenza  n. 27199 del 16/11/2017,  deve ritenersi  pertanto che l’art. 342 cod.proc.  civ.,  nella  sua  attuale  formulazione:  1.  non  esige dall’appellante alcun “progetto alternativo di sentenza”; 2. non esige dall’appellante alcun vacuo formalismo fine a se stesso; 3. non esige dall’appellante alcuna trascrizione integrale o parziale
della sentenza appellata o di parti di essa. Una tesi di tal fatta sarebbe infatti  insostenibile per tre ragioni di fondo (cfr. anche Sez. 6 – 3, Ordinanza n. 13535 del 30/05/2018).
La prima ragione è che il processo civile è caratterizzato da un “assetto teleologico delle norme”, di cui è traccia evidente nell’art. 156, comma terzo, cod.proc. civ., secondo il quale la nullità d’un atto processuale non può mai essere pronunciata, se l’atto ha raggiunto lo scopo a cui è destinato. Vero è che tale norma disciplina le ipotesi di nullità, mentre i requisiti dell’atto d’appello elencati dall’art. 342 cod.proc. civ. sono richiesti a pena di inammissibilità. Tuttavia si ritiene che sia comunque espressione di un principio generale sotteso dall’ordinamento processuale da cui discende che, anche quando si debba giudicare dell’ammissibilità d’una impugnazione, il giudicante deve badare alla sostanza ed al contenuto effettivo dell’atto.
La seconda ragione è che le norme processuali, se ambigue, vanno interpretate in modo da favorire una decisione sul merito, piuttosto che esiti di sostanziale diniego del processo. Le regole processuali infatti costituiscono solo lo strumento per garantire la giustizia della decisione, non il fine stesso del processo ( cfr. Sez. U., Sentenza n. 26242 del 12/12/2014, con cui si è proclamato il superamento “dell’assunto della inossidabile primazia del rito rispetto al merito”, soggiungendo che tra più ragioni di rigetto della domanda, il giudice dovrebbe optare per quella che assicura il risultato più stabile: sicché tra un rigetto per motivi di rito e uno per ragioni afferenti al merito, il giudice dovrebbe scegliere il secondo (cfr. §§ 5.14.6 e 5.14.8 dei “Motivi della decisione”).
La  terza  ragione  è  che  anche  il  diritto  processuale,  come quello sostanziale, deve essere interpretato alla luce delle regole sovranazionali  che  regolano  il giusto  processo,  principio di matrice costituzionale e convenzionale. Tra i principi sanciti dalla
CEDU vi è quello alla effettività, che va inteso quale esigenza che alla domanda di giustizia dei consociati debba, per quanto possibile, essere esaminata sempre e preferibilmente nel merito evitando pertanto <>. In applicazione di questi principi, la sentenza pronunciata da Corte EDU, II sezione, 28.6.2005, COGNOME c. Repubblica Ceca, in causa 74328/01, ha affermato che le cause di nullità o di inammissibilità <>. Ed in questo senso si sono altresì pronunciate la Corte EDU, I sez., 21.2.2008, COGNOME c. Grecia, in causa 2602/06, e la Corte EDU, sez., 24.4.2008. Kern], c. Granducato di Lussemburgo, in causa 17140/05. 1.7.
La pronuncia in esame deve essere vagliata alla luce dei suesposti principi là dove afferma che non sono state adeguatamente indicate le argomentazioni volte a criticare la statuizione in questione. Al riguardo, va rammentato che, in virtù di quanto sinora affermato dalla giurisprudenza, ciò che occorre stabilire è se il motivo di gravame fosse effettivamente specifico, o meglio se contenesse una critica argomentata, e idoneamente supportata da elementi di prova, della sentenza resa dal giudice di prime cure. Sul punto, va rammentato che la “specificità dei motivi di appello presuppone la specificità della motivazione della sentenza impugnata” (così, in motivazione, Cass. Sez. 3, ord. 24 aprile 2019, n. 11197), nel senso che la
prima va sempre “commisurata all’ampiezza e alla portata delle argomentazioni spese dal primo giudice” (Cass. Sez. 3, sent. 29 luglio 2016, n. 15790).
Posto quanto sopra il motivo si palesa prima facie inammissibile ex art. 366 n. 6 c.p.c. per violazione del principio di  autosufficienza  perché  i  ricorrenti  si  limitano  ad  affermare, omettendo  però  di  riportare  il  contenuto  della  censura  svolta nell’atto di appello per la parte che qui rileva, di avere puntualmente argomentato sulla condotta tenuta dagli attori in sede fallimentare (cfr. Sez. U, Sentenza n. 34469 del 27/12/2019).
L’inammissibilità della suddetta censura, determina l’assorbimento degli ulteriori motivi, in quanto attinenti alla seconda ratio decidendi inerente alla mancata riconducibilità del danno per incommerciabilità dei beni alla condotta del AVV_NOTAIO, stante la pregressa sussistenza di atti pregiudizievoli sui beni dei ricorrenti. Occorre al proposito dare seguito al principio in base al quale, qualora il giudice, dopo il rilievo di inammissibilità dell’impugnazione, abbia impropriamente inserito nella decisione anche delle argomentazioni di merito, rese ‘ ad abundantiam ‘, la parte soccombente non ha l’onere, né l’interesse, a richiedere, con il mezzo di impugnazione, un sindacato in ordine a tale parte di motivazione, siccome ininfluente ai fini della decisione (Cass. Sez. U, Sentenza n. 3840 del 20/02/2007). In tale eventualità, effettivamente verificatasi – dato il carattere scarno della motivazione di rigetto della seconda ratio decidendi -, è inammissibile, per difetto di interesse, l’impugnazione nella parte in cui pretenda un sindacato anche in ordine alla motivazione sul merito, svolta ” ad abundantiam ” nella sentenza gravata (Cass. Sez. 2 -, Sentenza n. 101 del 04/01/2017; Cass. Sez. 3, Sentenza n. 17004 del 20/08/2015; Sez. U, Sentenza n.
15122  del  17/06/2013;Cass.Sez.  U,  Sentenza  n.  3840  del 20/02/2007).
Conclusivamente, la Corte dichiara l’inammissibilità del primo motivo,  assorbiti  gli  altri,  con  ogni  conseguenza  in  ordine  alle spese , che si liquidano in dispositivo ai sensi del D.M. n. 55 del 2014 a favore delle parti resistenti.
P.Q.M.
La Corte dichiara inammissibile il ricorso e condanna i  ricorrenti alle  spese , liquidate  in  € 9.200,00  a  favore  di  NOME  COGNOME  e  in € 8.200,00 , rispettivamente a favore di RAGIONE_SOCIALE e di RAGIONE_SOCIALE, oltre € 200,00 per spese, spese forfettarie al 15% e oneri di legge.
Ai sensi dell’art. 13 comma 1 quater del d.P.R. n. 115 del 2002, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte  dei  ricorrenti ,  dell’ulteriore  importo  a  titolo  di  contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma del comma 1 bis, dello stesso articolo 13 .
Così deciso in Roma, il 22/11/2024.