Ordinanza di Cassazione Civile Sez. 2 Num. 33649 Anno 2024
Civile Ord. Sez. 2 Num. 33649 Anno 2024
Presidente: COGNOME
Relatore: COGNOME
Data pubblicazione: 20/12/2024
COGNOME NOME
-intimato- avverso SENTENZA di CORTE D’APPELLO CATANIA n. 2371/2018 depositata il 12/11/2018.
Udita la relazione svolta nella camera di consiglio del 27/11/2024 dal Consigliere NOME COGNOME
FATTI DI CAUSA
Si tratta di un rapporto contrattuale d’opera tra NOME COGNOME titolare di un’attività di rivendita motociclette, committente, e NOME COGNOME titolare di una ditta di rivestimenti, prestatore
ORDINANZA
sul ricorso iscritto al n. 15077/2019 R.G. proposto da : COGNOME, domiciliato ex lege in ROMA, INDIRIZZO presso la CANCELLERIA della CORTE di CASSAZIONE, rappresentato e difeso dall’avvocato COGNOME NOME (CODICE_FISCALE
-ricorrente-
contro
d’opera. Il committente aveva convenuto il prestatore d’opera dinanzi al Tribunale di Caltagirone per chiedere il risarcimento dei danni subiti a seguito di errori nell’esecuzione dei lavori di rivestimento del pavimento della sua nuova sede commerciale. Il committente affermava di aver concordato con il prestatore d’opera l’applicazione di un rivestimento resinoso sul pavimento esistente, con il vantaggio di ridotti costi e tempi di esecuzione, ma che il lavoro aveva presentato fin da subito difetti (ondulazioni, screpolature, disomogeneità cromatiche e problemi di quota), richiedendo successivi interventi correttivi, che non avevano eliminato i problemi. Alla fine, il committente era stato costretto ad applicare lastre di alluminio per poter aprire l’attività, incorrendo in spese aggiuntive e ritardi nell’apertura della nuova sede. Il prestatore d’opera convenuto negava ogni responsabilità, sostenendo che era stato il committente a interrompere arbitrariamente i lavori e a recedere dal contratto prima del loro completamento. Egli affermava di non aver mai garantito una data precisa di consegna e che il committente, avendo impedito la conclusione dei lavori, non poteva avanzare alcuna pretesa risarcitoria.
Il Tribunale di Caltagirone, a seguito di una c.t.u., aveva condannato il prestatore d’opera al pagamento di € 2.706 per le lastre metalliche (comprensivo del costo della consulenza tecnica di parte), € 4.840 per il ripristino della pavimentazione preesistente e per lucro cessante. La Corte di appello ha respinto la maggior parte delle censure del prestatore d’opera, confermando che egli non aveva eseguito il lavoro a regola d’arte e che il committente, avendo atteso il completamento senza successo, era legittimato a intervenire con soluzioni alternative; ha confermato il risarcimento per lucro cessante. Tuttavia, ha ridotto il rimborso per le lastre metalliche a € 1.725, ritenendo eccessivo quanto riconosciuto in primo grado.
Ricorre in cassazione il prestatore d’opera con cinque motivi, illustrati da memoria. Rimane intimato il committente.
RAGIONI DELLA DECISIONE
1. – Il primo motivo, p. 10, denuncia la violazione degli artt. 1223 e 2697 c.c., relativamente alla liquidazione del danno patrimoniale per € 1.000 a titolo di lucro cessante. Si sostiene che la Corte d’appello abbia utilizzato un criterio «probabilistico» privo di adeguata prova, contrariamente ai principi consolidati per cui il danno patrimoniale richiede una dimostrazione rigorosa dell’esistenza del pregiudizio, del nesso causale e della quantificazione. Si sottolinea che la prova non è stata fornita, né in termini di contrazione economica, né in termini di mancato guadagno. A tal fine si osserva che la mancanza di un termine finale per la consegna dei lavori, trattandosi di un contratto concluso solo verbalmente, fa venir meno il presupposto necessario per l’attribuzione della responsabilità a l prestatore d’opera. Si rileva inoltre che la ritardata consegna fu dovuta al comportamento del committente, che applicò in autonomia le lastre metalliche, aumentando così i tempi di utilizzo dei locali e concorrendo alla produzione del danno. Inoltre, la Corte di appello ha quantificato il lucro cessante in € 1.000 senza una disamina probatoria rigorosa in termini di an e di quantum.
Il primo motivo è rigettato.
La Corte, p. 9, ha ritenuto che « il ricorso alla pavimentazione alternativa realizzata mediante lastre in lamiera, oltre a rappresentare un ripiego rispetto all’opera pattuita, ha comportato un allungamento dei tempi per l’utilizzo del nuovo immobile che, come risulta dalle fotografie prodotte ed allegate alla perizia giurata di parte appellata datata 4.7.2006, ancora a tale data la nuova sede dell’esercizio commerciale era in fase di allestimento e non fruibile al pubblico. Sicché dalla ritardata consegna dell’immobile è probabile fare discendere il danno da lucro cessante per i riflessi negativi sotto il profilo commerciale lamentati dall’appellato, stante l’indisponibilità dei nuovi locali e la contemporanea parziale inadeguatezza dei
precedenti locali, dove i prodotti risultano già imballati per essere trasferiti altrove ».
Alla lettura del passo della motivazione della sentenza impugnata, l’argomentazione del primo motivo di ricorso si palesa come un tentativo di sovrapporre l’apprezzamento di parte all’accertamento che la Corte di appello ha compiuto ed espresso in una motivazione che non si espone a censure in sede di giudizio di legittimità. In particolare, l’impiego della parola «probabile», lungi dall’indicare l’assenza di riscontri probatori, non è che una delle forme in cui il giudice di merito può esprimere il convincimento che ha maturato intorno al modo di essere della situazione di fatto rilevante.
2. – Il secondo motivo, p. 14, denuncia la violazione degli artt. 2222, 2227 e 1453 c.c., riguardo alla qualificazione della risoluzione del contratto. Si afferma che la Corte avrebbe erroneamente applicato le norme sulla risoluzione per inadempimento (art. 1453 c.c.) invece di considerare il diritto del committente di recedere unilateralmente (art. 2227 c.c.), con obbligo di indennizzo per il prestatore d’opera. Il contratto era in fase iniziale e il recesso del committente ha impedito al prestatore di ult imare l’opera. Essendo stato stipulato solo verbalmente, il contratto mancava di termini scritti sia per la disciplina tecnica dell’esecuzione sia per i materiali da utilizzare, così come di un termine finale di consegna. Si afferma, pertanto, che il recesso del committente era avvenuto nella fase iniziale della prestazione, senza preavviso e senza compensare il prestatore d’opera per il lavoro già svolto, e gli aveva impedito di completare o riparare l’opera. Si sostiene che l’ interpretazione della Corte di appello sovrappone impropriamente le due norme, che sarebbero applicabili congiuntamente solo in circostanze diverse. Si osserva che sarebbe stato applicabile esclusivamente l’art. 2227 c.c., poiché il recesso si era verificato in una fase iniziale, senza termine pattuito per la consegna, e il prestatore d’opera aveva manifestato la disponibilità a ultimare i lavori. Si argomenta che l’art. 1453 c.c., prevedendo la
risoluzione per inadempimento, presuppone una colpa tecnica del prestatore, che nel caso concreto non sussiste . Si contesta l’applicazione dell’art. 1453 c.c. anche perché la Corte non ha dimostrato, attraverso un’istruttoria adeguata, elementi quali la data di inizio lavori, un impegno di consegna in quattro o cinque giorni e l’incidenza delle lastre metalliche sull’irrecuperabilità del pavimento. Si conclude che, in mancanza di tali presupposti, il recesso unilaterale ex art. 2227 c.c. avrebbe dato diritto al risarcimento delle spese e del mancato guadagno, mentre l’applicazione dell’art. 1453 c.c. si è basata su una falsa assimilazione delle norme.
Il secondo motivo è infondato.
La Corte, p. 5-6, ha ritenuto che « ora, considerati i fatti esposti dalle parti, non può condividersi la tesi dell’appellante secondo cui, nella specie, non si verserebbe in ipotesi di risoluzione contrattuale per inadempimento del prestatore d’opera quanto, piuttosto, in quella prevista dall’art. 2227 c.c. E ciò in considerazione del fatto che è rimasta incontestata la deduzione dell’appellato secondo cui egli fu costretto a rimediare all’incompetenza del prestatore d’opera facendo ricorso alle lastre in lamiera solo dopo avere atteso invano che l’appellante esperisse diversi tentativi alla ricerca della corretta metodica da impiegare nell’applicazione della resina per garantire il buon esito dei lavori. . Ma ciò che ancora di più depone per l’inadempimento dell’appellante emerge chiaro dalla c.t.u. espletata ».
La Corte di appello ha applicato alla situazione di fatto congruamente accertata il principio di diritto – cui il Collegio intende dare continuità – secondo il quale «Nel contratto d’opera la prestazione di colui che si è obbligato a compiere l’opera non comprende solo lo svolgimento di un’attività lavorativa ma anche la produzione del risultato utile promesso, sicché essa non può ritenersi adempiuta quando, nonostante il trascorrere di un ragionevole periodo di tempo dal conferimento dell’incarico, risulti evidente che il prestatore
d’opera – per negligenza o per difetto di preparazione – non è nelle condizioni di raggiungere il risultato pattuito, senza che in tale caso la facoltà di recesso unilaterale del committente ai sensi dell’art. 2227 cod. civ. possa ritenersi ostativa alla ordinaria risoluzione ex art. 1453 cod. civ. di detto contratto a prestazione corrispettive per l’inadempimento del prestatore d’opera, ed alla conseguente negazione del diritto al pagamento di un corrispettivo ex art. 2225 cod. civ. » (così, Cass. 2123/1988) .
Il secondo motivo è rigettato.
3. – Il terzo motivo, p. 17, denuncia la violazione degli artt. 1175, 1176 e 1227 c.c., sostenendo che la Corte non abbia considerato il contributo causale del committente nell’arbitraria sospensione dei lavori. Si afferma che il comportamento del committente ha violato i principi di buona fede e diligenza contrattuale ed ha causato ulteriori danni, senza che la Corte abbia valutato adeguatamente la riduzione proporzionale del risarcimento ai sensi dell’art. 1227 c.c. Il committente sospese unilateralmente i lavori prima della loro ultimazione, applicando sul pavimento lastre metalliche fissate con viti, forando il massetto e alterando così le precedenti lavorazioni. Tale condotta ha impedito al prestatore d ‘ opera di completare i lavori pattuiti o di correggere eventuali difformità, conformemente all’art. 2224 c.c. e alla costante giurisprudenza di legittimità e merito, che impone al committente di attendere l’ultimazione dell’opera per avanzare contestazioni. Il committente ha altresì rifiutato l’offerta d el prestatore d’opera di completare i lavori entro il 26/6/2006, adottando senza preavviso una soluzione alternativa, e risulta che il pavimento non fosse ancora ultimato al 4/7/2006. Tale comportamento viola i principi di buona fede e diligenza ex artt. 1175 e 1176 c.c. ed è idoneo a configurare ex art. 1227 c.c. una riduzione delle somme risarcitorie addebitate a l prestatore d’opera , in quanto il danno rilevato dal c.t.u. è riconducibile esclusivamente all’operato d el committente. Si evidenzia inoltre un’err onea applicazione degli artt. 1218 e 1223 c.c.,
poiché la responsabilità per inadempimento e il risarcimento richiederebbero una prova certa del comportamento dannoso del debitore, del nesso di causalità e della precisa quantificazione del danno. La c.t.u. non ha mai quantificato i danni né considerato che i lavori erano stati sospesi dal committente nella fase iniziale. Si critica inoltre la c.t.u. per essersi concentrata sulla qualità tecnica dei lavori piuttosto che sul giudizio di responsabilità e inadempimento.
Il terzo motivo è infondato.
La Corte, p. 5 ss., ha ritenuto che « è pacifico tra le parti che l’appellante non ha ricevuto alcun compenso per l’opera prestata e risulta dagli atti che con telegramma del 21.6.2006 ha manifestato la propria disponibilità a concordare con il committente il completamento dei lavori durante la settimana in corso; che l’appellato, con telegramma del 24.6.2006, ha rifiutato detto intervento di completamento per la ragione che, a seguito dei precedenti tentativi di sistemare il pavimento, aveva adottato una soluzione alternativa. E ciò in considerazione del fatto che è rimasta incontestata la deduzione dell’appellato secondo cui egli fu costretto a rimediare all’incompetenza del prestatore d’opera facendo ricorso alle lastre in lamiera solo dopo avere atteso invano che l’appellante esperisse diversi tentativi alla ricerca della corretta metodica da impiegare nell’applicazione della resina per garantire il buon esito dei lavori. Ma ciò che ancora di più depone per l’inadempimento dell’appellante emerge chiaro dalla c.t.u. espletata . Ed infatti, le critiche dell’appellante alla c.t.u. in punto di vizi e difetti riscontrati nell’opera commissionata (e, di riflesso, quelle alla sentenza impugnata che l’ha recepita), appaiono infondate . A tal riguardo, si deve in senso contrario osservare che l’appellante, in realtà, non coglie il rilievo decisivo formulato dal c.t.u. il quale, escluso che la collocazione delle lastre metalliche abbia danneggiato il materiale resinoso posato dall’appellante, ha ritenuto che l’opera, seppure incompleta, non poteva, comunque, essere utilmente ultimata in quanto le
eventuali lavorazioni successive (rasatura, carteggiatura e applicazione del livellante) non avrebbero impedito o sanato il riscontrato vizio di base non eliminabile, che riguardava una precedente e fondamentale fase di lavorazione, ossia l’applicazione dell’adesivo passivante, che era stato applicato erroneamente dall’appellante e si era staccato dal massetto, sicché qualunque intervento ulteriore di completamento o meramente riparatore sotto il profilo estetico (disomogeneità di colorazione o di consistenza) a parere dell’ausiliario sarebbe stato inutile, posto che l’intera superficie applicata era scollata dal sottofondo ».
Il terzo motivo è infondato.
Al cospetto dell’ampio stralcio della motivazione appena riportato, si palesa che la parte ricorrente prospetta come questioni di diritto censure mosse alla ricostruzione istruttoria della situazione di fatto rilevante. Dinanzi a tali censure, il compito di questa Corte è di verificare che il giudice di merito manifesti di aver fatto buon governo del proprio potere di apprezzamento, come in effetti è accaduto nel caso attuale. Infatti, il giudice di merito che fondi il proprio apprezzamento su alcune prove piuttosto che su altre non incontra altro limite che quello di indicare le ragioni del proprio convincimento in una motivazione effettiva, resoluta e coerente (che rispetti quindi i canoni dettati da Cass. SU 8053/2014). Di talché egli – in obbedienza al canone di proporzionalità di una motivazione necessaria, idonea allo scopo e adeguata – non è tenuto a discutere esplicitamente ogni singolo elemento probatorio o a confutare ogni singola deduzione che aspiri ad una diversa ricostruzione della situazione di fatto rilevante. Sarebbe superfluo ricordare che l’esito positivo della verifica compiuta dalla Corte di cassazione non implica logicamente che essa faccia proprio tale apprezzamento: esso è e rimane del giudice di merito.
Il terzo motivo è rigettato.
Il quarto motivo, p. 19, denuncia l’omesso esame di fatti decisivi riguardanti la c.t.u., che la Corte d’appello avrebbe recepito acriticamente nonostante le contestazioni. Si lamenta che il giudice abbia ignorato le osservazioni della consulenza di parte, non valutando l’influenza degli interventi del committente sulla qualità e sull’esito dell’opera. Si sostiene che i difetti attribuiti all’opera derivino invece dalle manomissioni del committente.
Il quarto motivo è inammissibile.
Sul capo investito dal motivo di ricorso, ci troviamo dinanzi ad una doppia pronuncia conforme in primo e secondo grado (la diversità tra le cognizioni nei due gradi concerne esclusivamente la quantificazione del rimborso del costo delle lastre metalliche). In tale ipotesi, ai sensi dell’art. 348 -ter, co. 5 c.p.c. (applicabile, ai sensi dell’art. 54, co. 2 d.l. 83/2012, conv. in l. 134/2012, ai giudizi d’appello introdotti con ricorso depositato o con citazione di cui sia stata richiesta la notificazione dal giorno 11 settembre 2012), la parte ricorrente in cassazione, per evitare che il motivo ex art. 360, n. 5 c.p.c. sia dichiarato inammissibile (cfr. art. 348-ter, co. 5 c.p.c., nel suo richiamo al comma precedente), deve indicare le ragioni di fatto poste a base, rispettivamente, della decisione di primo grado e della sentenza di rigetto dell’appello, dimostrando che esse sono tra loro diverse, nonostante che il dispositivo della sentenza di secondo grado sia di rigetto dell’appello e di conferma della sen tenza di primo grado sul capo investito dal motivo di ricorso (cfr. Cass. 7724/2022).
Va da sé che, in assenza di una tale specifica ragione di inammissibilità del motivo, esso avrebbe avuto la stessa sorte dei motivi precedenti, per ragioni omologhe a quelle già indicate con riferimento a questi ultimi.
– Il quinto motivo, p. 23, motivo denuncia la violazione degli artt. 2697 c.c., 115163 e 167 c.p.c., criticando la Corte per aver accolto la domanda del resistente sulla base della c.t.u., senza che vi fosse una prova adeguata dell’inadempimento e del danno. Si
afferma che la c.t.u. abbia esaminato circostanze non dedotte dalle parti, in violazione del principio dispositivo e del contraddittorio, rendendo nullo l’accertamento probatorio fondato su elementi estranei al thema decidendum. In particolare, il motivo denuncia che il giudice ha fondato la sua pronuncia sulla c.t.u. di primo grado, nonostante l’attore non avesse fornito alcuna prova riguardo all’inadempimento e al danno. Il committente, infatti, nella citazione aveva affermato che i lavori erano stati completati per ben tre volte, sostenendo che il prestatore d’opera aveva comunque operato erroneamente. Tuttavia, i lavori, secondo quest’ultimo , non erano stati ultimati ma erano in corso e sospesi illegittimamente. La Corte di appello ha fondato il proprio giudizio ritenendo che il prestatore d’opera fosse inadempiente poiché « l’applicazione dell’adesivo passivante… si era staccato dal massetto ». Si rileva, tuttavia, che tale conclusione si fonda su una circostanza non sollevata dalle parti, poiché il committente non aveva mai contestato il distacco dell’adesivo passivante come vizio dell’opera, ma piuttosto il fatto che il lavoro era stato completato e presentasse difetti. La c.t.u., si sostiene, ha esaminato fatti non prospettati dalle parti, determinando così una violazione dell’onere di allegazione e del diritto al contraddittorio, rendendo la prova nulla. In sostanza, il c.t.u. avrebbe dovuto stabilire se i lavori fossero completati o in corso di realizzazione, mentre invece ha concluso che fossero stati eseguiti in modo errato a causa del distacco dell’adesivo passivante, come se la controversia vertesse sul pagamento della commessa. Si aggiunge che tale distacco è stato causato dall’applicazione delle lastre con tasselli da parte del committente e non è riscontrabile nelle zone dove non sono stati utilizzati tasselli o mastice, come evidenziato dal c.t.p.
Il quinto motivo è rigettato. Per la motivazione si rinvia integralmente a quanto è stato argomentato nel precedente paragrafo 3, con riferimento al terzo motivo.
– Il ricorso è rigettato, senza necessità di provvedere sulle spese poiché la controparte non ha svolto attività difensiva in questa sede.
Inoltre, ai sensi dell’art. 13 co. 1 -quater d.p.r. 115/2002, si dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, ad opera della parte ricorrente, di un’ulteriore somma pari a quella prevista per il ricorso a titolo di contributo uni ficato a norma dell’art. 1-bis dello stesso art. 13, se dovuto.
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso.
Sussistono i presupposti processuali per il versamento, ad opera della parte ricorrente, di un’ulteriore somma pari a quella prevista per il ricorso a titolo di contributo unificato, se dovuto.
Così deciso in Roma, il 27/11/2024.