Ordinanza di Cassazione Civile Sez. 2 Num. 3027 Anno 2025
Civile Ord. Sez. 2 Num. 3027 Anno 2025
Presidente: COGNOME
Relatore: NOME COGNOME
Data pubblicazione: 06/02/2025
ORDINANZA
sul ricorso 14865-2024 proposto da:
NOMECOGNOME quale difensore di sé stesso;
-ricorrente –
contro
RAGIONE_SOCIALE elettivamente domiciliata in ROMA INDIRIZZO presso lo studio dell’avvocato NOME COGNOME che la rappresenta e difende in virtù di procura in calce al controricorso;
-controricorrente – avverso la sentenza n. 1291/2024 della CORTE D’APPELLO DI MILANO, depositata il 07/05/2024;
lette le memorie della controricorrente;
udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del 24/01/2025 dal Consigliere Dott. NOME COGNOME
MOTIVI IN FATTO ED IN DIRITTO DELLA DECISIONE
1. Il Tribunale di Como, decidendo sull’opposizione proposta ex art. 702-bis c.p.c. dalla società RAGIONE_SOCIALE (di seguito ‘RAGIONE_SOCIALE‘), avverso il decreto ingiuntivo emesso in favore dell’Avv. NOME COGNOME per il pagamento dei compensi allo stesso dovuti per avere assistito la suddetta società in un giudizio di divisione endoesecutivo, con ordinanza collegiale del 7 dicembre 2022 accoglieva parzialmente l’opposizione, ritenendo infondata l’eccezione, sollevata dal professionista, di inesistenza e risoluzione per inadempimento della convenzione dedotta in atti. In particolare, il Tribunale confermava che il titolo giuridico, in virtù del quale il professionista vantava il diritto al versamento integrale del compenso, fosse costituito, non dall’ordinanza di conclusione del procedimento di divisione endoesecutivo con cui aveva liquidato le spese legali a favore del creditore procedente, bensì dal piano di riparto dichiarato esecutivo nella procedura esecutiva immobiliare.
L’Avv. NOME COGNOME interponeva appello avverso tale ordinanza e, nel lamentare l’erroneità della decisione quanto al rigetto delle eccezioni proposte, chiedeva di accertare e dichiarare che non vi fosse mai stata formalizzazione della sopracitata convenzione oppure, in via subordinata, dichiararne la risoluzione per inadempimento.
Si costituiva in giudizio RAGIONE_SOCIALE eccependo l’inammissibilità dell’impugnazione proposta, per non essere l’ordinanza collegiale, emessa ai sensi degli artt. 28 L. n.
794/1942 e 14 D. Lgs. n. 150/2011, suscettibile di appello ex art. 702-ter c.p.c., ma esclusivamente di ricorso per cassazione.
La Corte d’Appello di Milano, con sentenza n. 1291/2024, nell’accogliere l’eccezione di inammissibilità dell’appello, ha evidenziato che la proposizione di domande riconvenzionali, non comporta l’applicazione di un diverso regime di impugnazione della decisione di primo grado rispetto a quello previsto dall’art. 14 D. Lgs. n. 150/2011. In particolare, il giudice di secondo grado ha affermato, non solo che il decreto conclusivo del procedimento ex art. 14 D. Lgs. n. 150/2011, come nel caso di specie, non è appellabile, sia che la controversia abbia ad oggetto il quantum debeatur sia che riguardi l’ an della pretesa, ma anche che il regime di impugnazione deve individuarsi facendo riferimento alla qualificazione data dal giudice all’azione proposta con il provvedimento impugnato.
Per la cassazione di tale sentenza l’Avv. NOME COGNOME ha proposto ricorso sulla base di un unico motivo. La società RAGIONE_SOCIALE resiste con controricorso, illustrato da memorie.
Con il primo ed unico motivo il ricorrente denuncia la violazione e falsa applicazione degli artt. 14 D. Lgs. n. 150/2011 e 702quater c.p.c. in relazione all’art. 360, co. 1, n. 3, c.p.c. per aver la Corte territoriale erroneamente dichiarato inammissibile l’appello proposto ex art. 702quater c.p.c. avverso un’ordinanza conclusiva di un procedimento sommario di cognizione con cui erano state decise domande riconvenzionali, proposte da entrambe le parti, il cui oggetto esorbitava dalla mera contestazione sulla quantificazione dei compensi professionali relativi allo specifico procedimento giudiziale.
4. Il motivo è infondato.
L’assunto di parte ricorrente parte dal fatto che nel giudizio di primo grado aveva avanzato una domanda riconvenzionale finalizzata a far accertare l’inefficacia ovvero l’invalidità o la risoluzione della convenzione che, a detta della controparte, avrebbe regolato, anche per tutti gli altri incarichi conferiti dalla società, il diritto alla determinazione del compenso del professionista.
Assume poi che, benché ai fini della decisione dell’opposizione il Tribunale avesse ritenuto che potesse prescindersi dalla portata precettiva della convenzione di cui si era chiesto accertarsi l’inoperatività, tuttavia nell’ordinanza appellata aveva deciso le domande riconvenzionali in senso sfavorevole al ricorrente, e che, per l’effetto, trattandosi di statuizioni che esulavano dall’ambito strettamente connesso alla decisione sulla domanda di liquidazione dei compensi, le stesse dovevano essere necessariamente impugnate con l’appello, essendo l’immediata ricorribilità per cassazione riservata alle sole statuizioni direttamente afferenti alla richiesta di liquidazione dei compensi per prestazioni giudiziali civili.
Ne deriverebbe quindi l’erroneità della soluzione cui è pervenuta la Corte d’Appello.
Il principio invocato dall’avv. COGNOME sebbene conforme a quello ormai ribadito nella giurisprudenza di questa Corte, non appare però correttamente richiamato nella fattispecie, avuto riguardo però allo specifico contenuto dell’ordinanza emessa dal Tribunale.
Questa Corte (Cass. n. 15563/2024), di recente, nel richiamare i principi affermati da Cass. n. 6321/2022, ha ribadito che, come affermato da Cass. S.U. n. 4485/2018, la controversia di cui
all’art. 28 legge 794/1942 introdotta sia ai sensi dell’art. 702 -bis cod. proc. civ. – come nella fattispecie – sia in via monitoria avente a oggetto la domanda di condanna del cliente al pagamento delle spettanze per le prestazioni giudiziali dell’avvocato resta soggetta al rito sommario di cognizione di cui all’art. 14 d.lgs. 150/2011 – nella formulazione previgente al d.lgs. 10 ottobre 2022 n. 149 – anche quando il cliente sollevi contestazioni relative all’ an debeatur . Qualora il convenuto ampli l’oggetto del giudizio con la proposizione di domanda riconvenzionale, di compensazione o di accertamento pregiudiziale non esorbitante la competenza del giudice adito ex art. 14, la trattazione di quest’ultima domanda deve avvenire, ove si presti a istruttoria sommaria, con il rito sommario congiuntamente a quella proposta ex art. 14 dal professionista e, in caso contrario, con il rito ordinario a cognizione piena, o con rito speciale a cognizione piena, previa separazione delle domande.
Tuttavia, una volta che sia avvenuta la trattazione unitaria della domanda di liquidazione del compenso e della riconvenzionale, per quest’ultima non può addivenirsi ad una soluzione che implichi l’eliminazione del grado di appello, dovendosi dare continuità al principio secondo il quale la decisione sulla domanda riconvenzionale avvenuta nel procedimento ex art. 14 d.lgs. 150/2011 deve essere impugnata con l’appello e non con il ricorso immediato per cassazione (Cass. n. 6321/2022; cfr. nello stesso senso, Cass. n. 10864/2023, in motivazione).
Tale soluzione è stata reputata congruente rispetto ai principi posti da Cass. Sez. U 4485/2018 e già richiamati, in ordine alla trattazione congiunta di domanda principale e domanda
riconvenzionale ed alla separazione della domanda riconvenzionale che non si presti a istruzione sommaria.
Infatti, in via generale, ricorrendo le condizioni di cui agli artt. 35 e 36 c.p.c., spetta al giudice di merito, competente per entrambe le domande, scegliere se separare o meno le cause, secondo un apprezzamento discrezionale non sindacabile in cassazione (cfr. Cass. n. 4700/2003 e Cass. n. 6572/1994); posto questo dato, la decisione sulla domanda riconvenzionale rimane assoggettata al regime d’impugnazione suo proprio, e non a quello valevole per la decisione sulla domanda principale. Se è invero attribuita al giudice di merito, per ragioni di economia e celerità processuale, la scelta di esercitare o meno il potere di separare le cause non può incidere sull’appellabilità della decisione resa sulla domanda riconvenzionale, poiché le impugnazioni sono disciplinate dalla legge su base formale, e non già giudiziale. Nessuna disposizione di segno diverso è ricavabile dalle previsioni dell’art.14 di cui si discute, perché la disposizione del quarto comma relativa all’inappellabilità dell’ordinanza che definisce il giudizio è posta con riguardo alla domanda di cui al primo comma, e cioè per la domanda proposta dall’avvocato; quindi, per le altre domande pure trattate nel medesimo processo rimane valida la regola dell’art. 702 -quater cod. proc. civ. vigente ratione temporis , il quale prevede l’assoggettamento all’appello dell’ordinanza emessa a definizione del procedimento sommario.
Del resto, la possibilità del simultaneus processus e l’assoggettamento della decisione al diverso regime di impugnazione previsto per ciascuna domanda è meccanismo conosciuto dal sistema processuale, laddove è acquisito, secondo la costante giurisprudenza di questa Corte, che l’impugnazione
della sentenza che abbia deciso un’opposizione in parte riferibile a opposizione all’esecuzione e in parte a opposizione agli atti esecutivi deve seguire il diverso regime previsto per i due distinti tipi di opposizione (Cass. n. 13203/2010, Cass. n. 18312/2014, Cass. n. 3166/2020). In senso analogo e in diversa materia, è stato statuito che il provvedimento di revoca dell’ammissione al patrocinio a spese dello Stato, seppure pronunciato all’interno del provvedimento di merito, rimane soggetto al suo regime di impugnazione ex art. 170 d.P.R. 115/2002 e non al regime di impugnazione del provvedimento di merito che lo contiene (Cass. n. 16117/2020, Cass. n. 3028/2018, Cass. n. 29228/2017).
In effetti, il principio secondo il quale il regime di impugnazione della decisione su distinte domande proposte nel medesimo processo e decise unitariamente resta quello proprio di ciascuna domanda è applicabile in linea generale (Cass. Sez. 3 n. 3793/2024, in relazione alla proposizione nel medesimo processo di domande ordinarie unitamente a opposizioni esecutive) e nulla autorizza a ritenerlo inoperante nel caso in esame.
Non è, in particolare, invocabile il principio dell’apparenza, invocato dalla Corte distrettuale nella sentenza gravata, che è stato elaborato (dalla dottrina e) dalla giurisprudenza di questa Corte per rendere indifferente, ai fini dell’impugnazione, l’eventuale errore in cui sia incorso il giudice nel qualificare la domanda e adottare il rito conseguente (cfr. Cass. S.U. n. 3902011, resa proprio in tema di procedimento di liquidazione degli onorari di avvocato). Come del pari non lo è la circostanza che l ‘ordinanza sia stata emessa dal Tribunale in composizione collegiale, poiché ciò conferma la scelta consapevole del rito ex art. 14 d.lgs. n. 150/11 (che all’epoca prevedeva, appunto, la
trattazione collegiale), ma nulla predica sul regime d’impugnazione cui soggiace la pronuncia resa sulla domanda riconvenzionale, che per le superiori considerazioni svolte dipende dalla legge e non da un mero accidente, quale la scelta discrezionale del giudice di non separare le due cause.
Tuttavia, se per quanto sinora esposto, si palesa erroneo il ragionamento che è alla base della declaratoria di inammissibilità dell’appello promosso dall’avv. COGNOME e tutto incentrato sulla circostanza che il Tribunale aveva emesso una decisione in forma collegiale nella consapevole scelta di adozione del rito sommario speciale di cui al citato art. 14, la conclusione cui è pervenuta la sentenza impugnata si palesa comunque corretta, sebbene si imponga una correzione della motivazione.
La lettura dell’ordinanza appellata, se, come detto, evidenzia che la decisione di pervenire alla revoca del decreto ingiuntivo opposto, è stata adottata sul presupposto della non diretta applicabilità della convenzione alla fattispecie, alla pag. 2 ha disatteso le contestazioni dell’avv. COGNOME quanto alla esistenza ed alla risoluzione della convenzione stessa, affermando espressamente che però si trattava di eccezioni, avendo quindi esaminato le stesse questioni in via incidentale al solo fine di confortare la correttezza delle decisione sull’ an e sul quantum della pretesa creditoria, ma senza quindi ampliare il contenuto della decisione adottata anche ad una esplicita affermazione di validità o efficacia della convenzione, avente valore di giudicato.
Di tanto se ne ha riprova anche in base all’esame del dispositivo dell’ordinanza del Tribunale di Como che si limita ad un parziale accoglimento dell’opposizione, con la conseguente revoca del
decreto opposto e la condanna al pagamento di una somma diversa rispetto a quella richiesta in via monitoria.
Deve, perciò, escludersi che il provvedimento appellato, nonostante la formulazione della domanda riconvenzionale da parte del ricorrente, abbia espressamente deciso le domande riconvenzionali, essendosi limitato ad affrontare le relative questioni alla stregua di mere eccezioni, che, investendo in ogni caso l’ an della pretesa di liquidazione dei compensi, non sottraggono la decisione assunta alla regola della non appellabilità, come appunto affermata da Cass. S.U. n. 4485/2018.
Ne deriva che l’ordinanza del Tribunale al più sarebbe stata suscettibile di appello, ma esclusivamente al fine di denunciare la violazione dell’art. 112 c.p.c., quanto all’omessa adozione di un’autonoma statuizione, con efficacia di giudicato, sulla domanda riconvenzionale, assumendo che la stessa era stata riduttivamente vagliata alla stregua di una mera eccezione, omettendo quindi una decisione che invece era richiesta ex art. 36 c.p.c.
Viceversa, la lettura dell’atto di appello del ricorrente denota invece come i motivi abbiano direttamente attinto il merito delle argomentazioni in base alle quali erano state disattese le deduzioni difensive dell’avv. COGNOME ma intese quali mere eccezioni, e cioè in quanto limitate al solo fine di pervenire al rigetto delle contestazioni mosse dall’opponente (sulla differenza tra domanda riconvenzionale ed eccezione riconvenzionale si veda da ultimo Cass. n. 31010/2023; Cass. n. 7292/2021).
Tale omissione, in assenza quindi della denuncia della violazione del principio di corrispondenza tra chiesto e pronunciato, rendeva
inammissibili le censure volte a contrastare la correttezza nel merito delle deduzioni in base alle quali erano state respinte quelle che sono state considerate delle semplici eccezioni di inesistenza o di risoluzione, che in quanto tali rimanevano attratte dalla sorte, in sede di impugnazione, dell’ordinanza con la quale si era provveduto alla determinazione del compenso spettante all’avvocato COGNOME
Ciò comporta che l’appello, in quanto diretto a contestare, omisso medio , il merito della vincolatività della convenzione, si palesa inammissibile, sebbene per ragioni diverse da quelle addotte dalla Corte d’Appello.
Il ricorso è pertanto rigettato, ed al rigetto consegue la condanna del ricorrente al rimborso delle spese del presente giudizio, come liquidate in dispositivo.
Poiché il ricorso è rigettato, sussistono le condizioni per dare atto -ai sensi dell’art. 1, comma 17, della legge 24 dicembre 2012, n. 228 (Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato -Legge di stabilità 2013), che ha aggiunto il comma 1quater dell’art. 13 del testo unico di cui al d.P.R. 30 maggio 2002, n. 115 -della sussistenza dell’obbligo di versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per la stessa impugnazione.
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso, e condanna il ricorrente al rimborso dele spese del presente giudizio che liquida in complessivi € 1.200,00, di cui € 200,00 per esborsi, oltre spese generali, pari al 15% sui compensi, ed accessori di legge;
ai sensi dell’art. 13, co. 1 quater, del d.P.R. n. 115/2002, inserito dall’art. 1, co. 17, l. n. 228/12, dichiara la sussistenza dei presupposti processuali per il versamento di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato per il ricorso a norma dell’art. 1 bis dello stesso art. 13, se dovuto.
Così deciso nella camera di consiglio del 24 gennaio 2025