Ordinanza di Cassazione Civile Sez. 2 Num. 14874 Anno 2025
Civile Ord. Sez. 2 Num. 14874 Anno 2025
Presidente: COGNOME
Relatore: NOME COGNOME
Data pubblicazione: 03/06/2025
ORDINANZA
sul ricorso 2466-2020 proposto da: COGNOME quale difensore di sé stesso;
contro
COGNOME NOME COGNOME;
-intimata – avverso la sentenza n. 1818/2019 della CORTE di APPELLO di BOLOGNA, depositata il 10/06/2019;
letta la memoria del ricorrente;
udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del 22/05/2025 dal Consigliere Dott. NOME COGNOME
-ricorrente –
MOTIVI IN FATTO ED IN DIRITTO DELLA DECISIONE
1. Il Tribunale di Bologna ha rigettato la domanda proposta da NOME COGNOME nei confronti dell’ex coniuge, NOMECOGNOME con la quale chiedeva la condanna ex art. 2041 c.c. della convenuta alla restituzione della somma di € 329.477,36, a titolo di importo prelevato dalla convenuta dai conti correnti cointestati, al fine di pagare il corrispettivo per l’acquisto di un appartamento intestato unicamente alla NOME; chiedeva altresì la restituzione del 50% delle somme versate sui conti correnti cointestati, e ciò sul presupposto che gli stessi fossero stati alimentati unicamente con i suoi redditi professionali.
Avverso tale sentenza ha proposto appello il COGNOME cui ha resistito la convenuta, e la Corte d’Appello di Bologna, con la sentenza n. 1818 del 10 giugno 2019 ha rigettato l’appello.
Dopo avere evidenziato che era caduto il giudicato sulla domanda relativa alla provvista dei conti cointestati, e che quindi la richiesta era limitata alla restituzione del 50% delle somme prelevate dai conti stessi per provvedere al pagamento del prezzo dell’appartamento intestato unicamente alla convenuta, la sentenza ricordava come, nella medesima giornata e con quattro diversi atti, gli allora coniugi COGNOME e COGNOME avevano dapprima optato per il regime di separazione dei beni; successivamente il marito aveva acquistato la quota del 50% dell’appartamento allora in comunione; la moglie si era resa acquirente da terzi ed in via esclusiva di un appartamento; infine la moglie aveva contratto un mutuo per provvedere al pagamento del residuo prezzo dell’immobile a lei intestato.
Secondo l’attore i quattro atti si inserivano in un’operazione unitaria, volta a costituire un risparmio di spesa, e che in realtà, non avendo l’attore versato il corrispettivo per la cessione della quota del 50 % dell’immobile in comunione, il prelievo delle somme dai conti era la modalità attraverso la quale aveva estinto il suo obbligo nei confronti del coniuge. Avendo poi la moglie agito per conseguire il prezzo della vendita della quota, ne derivava che il detto prelievo restava privo di giustificazione ed imponeva che la convenuta fosse tenuta a restituire quanto indebitamente prelevato.
Ad avviso della Corte d’Appello doveva però avere seguito la tesi difensiva della COGNOME, che aveva invece sostenuto che il denaro fosse stato volontariamente messo a disposizione dal marito per permetterle l’acquisto dell’appartamento, e ciò in ragione della volontà di porre in essere una donazione indiretta.
In ragione di tale giustificazione, non poteva essere accolta la richiesta restitutoria dell’attore.
Per la cassazione di tale sentenza propone ricorso COGNOME NOME sulla base di due motivi.
L’intimata non ha svolto difese in questa fase.
Il primo motivo di ricorso denuncia ex art. 360 co. 1, nn. 3 e 5 la violazione dell’art. 769 c.c., quanto al mancato rilievo dell’insussistenza dell’ animus donandi in capo al ricorrente.
Si evidenzia che la sentenza impugnata ha apoditticamente sostenuto che la dazione della somma risponderebbe ad una volontà dell’attore di arricchire la moglie, ma senza minimamente indicare le circostanze di fatto dalle quali desumere, anche se in via indiziaria tale elemento soggettivo.
Viceversa, è stato trascurato il fatto decisivo che il prelievo era stato permesso alla convenuta, come si ricava invece dal contenuto della domanda separatamente proposta dalla ex moglie, con la quale chiedeva il pagamento del prezzo della cessione della propria quota, al fine di permettere l’estinzione di tale diversa obbligazione.
Trattasi quindi di prelievo autorizzato al fine di assicurare l’estinzione della propria obbligazione.
Tuttavia, i giudici di merito hanno sempre negato la riunione dei due giudizi, impedendo quindi di pervenire ad una decisione unitaria.
Si evidenzia, poi, che il secondo giudizio intentato dalla moglie è a sua volta pervenuto in Cassazione ove pende con il numero 15736/2019 di ruolo generale.
Il secondo motivo, riportato sub 1b), lamenta l’erronea applicazione dell’art. 113, co. 1, c.p.c., perché il giudice avrebbe dovuto d’ufficio pervenire ad una diversa qualificazione giuridica, riconducendo l’oggetto del presente processo nella domanda di arricchimento senza causa.
4. Il ricorso è improcedibile.
Parte ricorrente ha riferito in ricorso che la sentenza impugnata le è stata notificata in data 16 dicembre 2019, avendo quindi proposto il ricorso in data 10 gennaio 2020, evidentemente nel rispetto del termine di cui all’art. 325 c.p.c., decorrente da detta notifica.
Alla parte era però altresì imposto ex art. 369, co. 2, n. 2, c.p.c. di dover depositare nel termine fissato dalla norma anche la relazione di notificazione, a pena appunto di improcedibilità.
Occorre, poi, evidenziare che, come chiarito dalla giurisprudenza di questa Corte, la dichiarazione di avvenuta notificazione della sentenza impugnata, contenuta nel ricorso per cassazione, costituisce l’attestazione di un “fatto processuale” – l’avvenuta notificazione della sentenza – idoneo a far decorrere il termine “breve” di impugnazione e, in quanto manifestazione della “autoresponsabilità” della parte, la impegna a subire le conseguenze di quanto dichiarato, facendo sorgere, in capo ad essa, ai sensi dell’art.369, c.p.c., l’onere di depositare, nel termine ivi previsto, copia della sentenza munita della relata di notifica (cfr. Cass. n. 15832 del 07/06/2021; Cass. S.U. n. 21349/2022).
Inoltre è stato chiarito nella medesima circostanza che la dichiarazione di avvenuta notificazione della sentenza impugnata contenuta nel ricorso per cassazione, quale atto processuale formale, indipendente dall’intenzione del dichiarante e produttivo degli effetti cui è destinato dalla legge nella serie procedimentale, non può essere successivamente corretta dal ricorrente con la memoria ex art. 380 bis o 378 c.p.c., atteso, per un verso, che l’ordinamento processuale non prevede un istituto che consenta la correzione degli atti processuali di parte (i quali sono normalmente ripetibili, salvo lo spirare dei termini stabiliti a pena di decadenza e il maturare delle preclusioni) e considerato, per altro verso, che la dichiarazione medesima, in quanto espressione dell'”autoresponsabilità” della parte, deve ritenersi inemendabile, rimettendosi altrimenti nella disponibilità della parte stessa l’applicabilità della sanzione dell’improcedibilità del ricorso.
In tal senso è stato sottolineato che il difensore abilitato al patrocinio dinanzi alla Corte suprema, essendo dotato di professionalità specialistica, conosce bene le regole processuali che sovraintendono al giudizio di legittimità, così che, nel momento in cui redige e sottoscrive il ricorso per cassazione, conosce le conseguenze giuridiche che conseguono al suo contenuto e, in particolare, come alla dichiarazione di avvenuta notificazione della sentenza impugnata consegua, ai sensi dell’art. 369 cod. proc. civ., l’onere di depositare, nel termine ivi previsto, copia della sentenza munita della relazione di notificazione.
Ciò comporta che, ove in ricorso si riferisca dell’avvenuta notificazione della sentenza, a fronte di una dichiarazione in tal senso impegnativa della parte anche perché priva di qualsivoglia specificazione, e di cui la Corte non ha alcun modo di controllarne la veridicità, deve reputarsi che la medesima sia logicamente intesa, in ragione della sua collocazione, come dichiarazione della avvenuta notificazione della sentenza presso il procuratore costituito, ai fini della decorrenza del termine breve di impugnazione, e ciò in quanto non rileva il fatto che la dichiarazione della ricorrente non specifichi quale parte abbia provveduto alla notificazione e quale sia stata destinataria di essa; e neppure rileva il fatto che la dichiarazione del ricorrente non precisi le forme e lo scopo della notificazione.
Per altro verso, poi, la dichiarazione della avvenuta notificazione della sentenza inserita nel contesto della indicazione dell’oggetto della impugnazione, senza specificazioni che depongano in senso contrario, deve essere intesa – perché abbia un senso e una
ragion d’essere -come incidente sulla ammissibilità della impugnazione e destinata a consentire alla Corte la verifica della sua tempestività. Essa, in altre parole, deve essere intesa (in mancanza di diversa esplicita precisazione) come eseguita al procuratore costituito ai sensi dell’art. 285 cod. proc. civ., e non alla parte personalmente ai sensi dell’art. 479 cod. proc. civ. (in tale ultimo caso rimanendo, peraltro, priva di alcuna utilità).
Tirando le fila dei principi sopra richiamati, avendo parte ricorrente riferito, senza specificazione alcuna, dell’avvenuta notifica della sentenza impugnata, e dovendo la dichiarazione reputarsi riferita alla notificazione effettuata al difensore (essendo peraltro il Moscato difensore di sé stesso) e strumentale alla decorrenza del termine breve, ne consegue che a pena di improcedibilità sarebbe stato necessario produrre anche la copia notificata della sentenza.
Tale copia però non si rinviene, avendo la parte prodotto solo una copia autentica della sentenza impugnata, ma priva della prova dell’avvenuta notifica, né tale prova è dato rinvenire nella produzione di parte controricorrente (cfr. Cass. S.U. n. 10648/2017, che reputa che l’improcedibilità sia evitata ove la prova della notifica si evinca dalla produzione del controricorrente), non avendo la parte intimata svoto attività difensiva.
Peraltro, ad analoghe conclusioni deve pervenirsi ove la notifica della sentenza sia avvenuta a mezzo pec, in quanto in tal caso si imponeva del pari la dimostrazione della notifica mediante la produzione della stampa dei messaggi di posta elettronica certificate.
Tale omissione, dovendo tale deposito avvenire nel rispetto del termine di cui all’art. 369 c.p.c., determina l’improcedibilità del ricorso (Cass. S.U. n. 8312/2019), non potendo ovviarsi con un tardivo deposito della relata stessa ovvero dei messaggi di posta elettronica (essendo concessa solo la possibilità di produrre l’attestazione di conformità delle stampe agli originali telematici, purché le prime siano già state depositate nel detto termine).
Né può reputarsi che la previsione normativa sia incompatibile con i principi della CEDU.
Questa Corte, come segnalato dal Pubblico Ministero, ha di recente affermato che l’omessa produzione della relata di notifica della sentenza impugnata comporta l’improcedibilità del ricorso ex art. 369, comma 2, n. 2, c.p.c. e tale sanzione non contrasta con gli artt. 24 e 111 Cost. e 6 CEDU, trattandosi di un adempimento preliminare, tutt’altro che oneroso e complesso, che non mette in discussione il diritto alla difesa ed al giusto processo, essendo finalizzato a verificare, nell’interesse pubblico, il passaggio in giudicato della decisione di merito ed a selezionare la procedura più adeguata alla definizione della controversia (Cass. n. 19475/2024; Cass. n. 24724/2024; Cass. n. 27883/2024; Cass. n. 27313/2024).
Infatti, la Corte EDU, in una recentissima pronuncia ha escluso che potesse configurarsi una violazione dell’art. 6 paragrafo 1, CEDU, per eccessivo formalismo, in una fattispecie in cui la Corte di cassazione aveva dichiarato l’improcedibilità del ricorso in assenza del deposito della relazione di notificazione della sentenza impugnata nel termine indicato dall’art. 369, comma 1, c.p.c. (cfr. Corte EDU, Sezione Prima, Sentenza del 23.5.2024,
NOME e altri c. Italia, ove è stata comunque dichiarata la violazione dell’art. 6 paragrafo 1 CEDU in relazione ad altre ipotesi). Secondo la Corte EDU, l’osservanza dell’art. 369, comma 1, c.p.c. consente alla Corte di cassazione di adottare una decisione sulla procedibilità del ricorso nella fase iniziale del procedimento grazie a una procedura accelerata. Infatti, non appena il ricorso è stato depositato, semplicemente consultando il fascicolo, la Corte di cassazione è in grado di verificare il rispetto del termine di impugnazione, fissare un’udienza in camera di consiglio e pronunciarsi sulla causa senza necessità di ulteriori passaggi. La Corte ha rilevato che, nella specie, la relazione di notificazione non era presente nel fascicolo trasmesso dalla cancelleria del giudice che aveva emesso la sentenza impugnata, né era stata depositata dalla controparte. L’inosservanza da parte dei ricorrenti dell’articolo 369, comma 1, c.p.c. aveva pertanto messo la Corte di cassazione nell’impossibilità di verificare l’osservanza dei termini di impugnazione nella fase iniziale del procedimento. L’accettazione di depositi tardivi avrebbe vanificato l’obiettivo di assicurare il rapido svolgimento del procedimento e avrebbe impedito alla Corte di cassazione di pronunciarsi sulla procedibilità del ricorso senza ulteriori passaggi e senza ritardi. La misura contestata era pertanto adeguata alla realizzazione del legittimo fine perseguito.
Quanto alla gravità delle conseguenze sul diritto di accesso alla giustizia dei ricorrenti, la Corte EDU ha ribadito che, dato il carattere particolare del ruolo della Corte di cassazione, che si limita a verificare la corretta applicazione della legge, essa può ammettere che le procedure seguite dalla suprema corte siano
più formali, specialmente in procedimenti quali quello di cui al caso di specie dove i ricorrenti erano stati rappresentati da un avvocato specializzato iscritto all’albo giurisdizioni superiori. Inoltre, il ricorso dinanzi alla Corte di cassazione era stato proposto dopo che le richieste dei ricorrenti erano state esaminate da un tribunale di primo grado e da una Corte di appello entrambi dotati di piena giurisdizione. Date tali circostanze non si poteva affermare che la decisione della Corte di cassazione costituisse a un impedimento tale da compromettere la sostanza stessa del diritto di accesso alla giustizia garantito dall’articolo 6 paragrafo 1 della Convenzione, o avesse ecceduto il margine di discrezionalità nazionale.
Il ricorso deve quindi essere dichiarato improcedibile.
Nulla a disporre quanto alle spese non avendo parte intimata svolto attività difensiva in questa fase.
Poiché il ricorso è dichiarato improcedibile, sussistono le condizioni per dare atto -ai sensi dell’art. 1, comma 17, della legge 24 dicembre 2012, n. 228 (Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato -Legge di stabilità 2013), che ha aggiunto il comma 1quater dell’art. 13 del testo unico di cui al d.P.R. 30 maggio 2002, n. 115 – della sussistenza dell’obbligo di versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per la stessa impugnazione.
PQM
La Corte dichiara improcedibile il ricorso.
Ai sensi dell’art. 13, co. 1 quater , del d.P.R. n. 115/2002, inserito dall’art. 1, co. 17, l. n. 228/12, dichiara la sussistenza dei
presupposti per il versamento da parte del ricorrente principale dell’ulteriore somma pari al contributo unificato dovuto per il ricorso a norma dell’art. 1 bis dello stesso art. 13.
Così deciso nella camera di consiglio del 22 maggio 2025