Ordinanza di Cassazione Civile Sez. U Num. 7473 Anno 2025
Civile Ord. Sez. U Num. 7473 Anno 2025
Presidente: NOME COGNOME
Relatore: COGNOME
Data pubblicazione: 20/03/2025
Sul ricorso iscritto al n. r.g. 18463/2024 proposto da:
COGNOME rappresentato e difeso dall’avvocato NOME COGNOME;
– ricorrente –
contro
CONSIGLIO DELL’ ORDINE AVVOCATI DI LATINA, CONSIGLIO NAZIONALE FORENSE;
– intimati – avverso la sentenza n. 283/2024 del CONSIGLIO NAZIONALE FORENSE, depositata il 28/06/2024.
Udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del 18/02/2025 dal Consigliere NOME COGNOME
lette le conclusioni scritte del l’Avvocato Generale NOME COGNOME che ha concluso per il rigetto della richiesta di sospensione dell’esecuzione della sentenza impugnata e rigetto del ricorso.
FATTI DI CAUSA
Il Consiglio di disciplina forense del distretto della Corte d’appello di Roma, con decisione del 9 aprile 2021, ha inflitto all’avv. NOME COGNOME iscritto al Consiglio dell’ordine degli avvocati di Latina, la sanzione disciplinare della sospensione dall’esercizio della professione per il periodo di due anni.
All’avv. COGNOME erano contestate plurime violazioni deontologiche, oggetto di quattro distinte segnalazioni al Consiglio dell’ordine di Latina, che avevano dato origine ad altrettanti procedimenti disciplinari poi riuniti:
2.1. Proc. n. 580/2016: relativo ad un esposto del 13.5.2016 dell’avv. COGNOME con cui si addebitava all’avv. COGNOME di non adempiuto all’impegno di definire la posizione debitoria del suo assistito, sig. NOME COGNOME nei confronti della RAGIONE_SOCIALE, cliente dell’avv. COGNOME avendo rilasciato in pagamento tre assegni postali personali, dell’importo di euro 750,00 ciascuno, restituiti per mancanza di fondi.
2.2. Proc. n. 603/2016: concernente un esposto della sig.ra NOME COGNOME con cui si denunciava la mancata partecipazione del legale alle udienze del procedimento di intimazione di sfratto per morosità, al medesimo affidata, con conseguente soccombenza in giudizio della COGNOME e condanna alla rifusione delle spese di lite, esito, peraltro, neppure comunicato alla esponente.
2.3. Proc. n. 333/2017: nato da un esposto del sig. NOME COGNOME del 9.9.2014 con cui si denunciava l’omessa comunicazione, da parte dell’avv. COGNOME, della soccombenza nel giudizio di appello promosso nei confronti del sig. NOME COGNOME ed avente ad oggetto il risarcimento dei danni da reato (accertato con decreto penale di condanna del Tribunale di Latina), omissione che aveva esposto il COGNOME ad esecuzione forzata su alcuni immobili di proprietà, con aggravio di spese a suo carico. L’avv. NOME COGNOME impegnatosi a risarcire il cliente versando la somma di euro 1.500,00, aveva corrisposto unicamente euro 200,00.
2.4. Proc. n. 40/2018: originato da un esposto in data 23.9.2014 dei signori NOME COGNOME e NOME COGNOME che imputavano all’avv. COGNOME la mancata restituzione di euro 16.500,00, al medesimo consegnati quale deposito fiduciario per transigere una controversia che li vedeva debitori nei confronti di Unicredit, e il mancato svolgimento di attività difensiva nel loro interesse. Ciò aveva indotto il COGNOME a definire personalmente una transazione con la Banca per l’importo di euro 25.000,00, versando la somma di euro 8.500,00 e con richiesta all’avv. COGNOME di versare la differenza, pari a euro 16.500,00. L’avvocato, che pure si era impegnato ad effettuare il bonifico in favore della Banca, non solo era venuto meno a tale impegno, costringendo i debitori a ricorrere ad un prestito per evitare di compromettere la transazione, ma neppure aveva restituito la somma di euro 15.380,00 che i signori COGNOME e COGNOME gli avevano corrisposto per essere assistiti in alcuni procedimenti di opposizione a decreto ingiuntivo e in altre procedure.
Il Consiglio nazionale forense, con sentenza depositata il 28 giugno 2024, in parziale accoglimento del ricorso dell’avv. COGNOME ha dichiarato la prescrizione dell’azione disciplinare con riferimento ad uno dei quattro capi di incolpazione, quello relativo al proc. n. 603/2016, e ha rideterminato la sanzione della sospensione dall’esercizio della professione forense stabilendo un periodo di diciotto mesi.
Il giudice disciplinare ha esaminato anzitutto l’eccezione di prescrizione sollevata, in via subordinata, dall’incolpato. Ha appurato come la fattispecie oggetto di causa ricadesse, ratione temporis , sotto il vigore della legge n. 247 del 31.12.2012 poiché gli illeciti deontologici contestati risultavano posti in essere in epoca successiva all’entrata in vigore della stessa. Ha escluso, con riferimento al primo (580/2016), al terzo (333/2017) e al quarto (40/2018) capo di incolpazione, che fosse maturata la prescrizione dato il carattere permanente degli illeciti contestati, individuando quale dies a quo del termine prescrizionale, in difetto di prova di cessazione della condotta, la data della decisione del Consiglio di disciplina (19 febbraio 2021).
La sentenza impugnata ha ribadito la fondatezza degli addebiti rilevando:
-che le circostanze rappresentate negli esposti disciplinari erano documentalmente provate e confermate dagli esponenti nonché dalle dichiarazioni rese dal medesimo incolpato al consigliere istruttore e valutabili come elementi di prova contro lo stesso;
che, riguardo al primo capo di incolpazione (580/2016), il ricorrente aveva confermato quanto riferito dall’esponente avv. NOME COGNOME ed aveva rappresentato la propria impossibilità di restituire le somme dovute a causa delle difficoltà economiche in cui versava;
-che, analogamente, per il terzo capo di incolpazione (333/2017), l’avv. COGNOME aveva confermato le circostanze oggetto dell’esposto e ammesso di aver versato solo una parte delle somme dovute al sig. COGNOME
che sul quarto capo di incolpazione (40/2018), il legale aveva ammesso di aver trattenuto la somma di euro 16.500,00 affermando, invece, che la restante parte (euro 15.380,00) era riferibile all’attività professionale svolta in favore degli assistiti. Su tale addebito, la sentenza ha escluso che il Consiglio di disciplina dovesse attendere l’esito del giudizio penale pendente dinanzi al Tribunale di Latina per i medesimi fatti, data l’autonomia dei due procedimenti.
Il CNF ha giudicato congrua la riduzione della sanzione nella misura di diciotto mesi in conseguenza della dichiarata prescrizione dell’azione disciplinare con riferimento ad uno dei capi di incolpazione.
Per la cassazione della sentenza del CNF (notificata il 4.7.2024) il COGNOME ha proposto ricorso, con atto notificato il 2.9.2024, sulla base di due motivi ed ha formulato istanza di sospensione dell’esecutività della decisione, ai sensi dell’art. 36, sesto comma, della legge 31.12.2012, n. 247. Il Consiglio dell’ordine territoriale non ha svolto difese.
L’Avvocato generale ha depositato conclusioni scritte chiedendo il rigetto del ricorso e dell’istanza di sospensione.
È stata depositata memoria nell’interesse del ricorrente.
RAGIONI DELLA DECISIONE
Con il primo motivo di ricorso è dedotta, ai sensi dell’art. 360, primo comma, n. 3 c.p.c., la violazione o falsa applicazione dell’art. 56, comma 3, della legge 31.12.2012, n. 247, per avere il CNF errato nel non dichiarare l’intervenuta prescrizione d ell’azione disciplinare in relazione a tutti i capi di incolpazione.
1.1. Il ricorrente deduce, sul primo capo di incolpazione (580/2016), che risalendo la condotta contestata all’anno 2016, l’azione disciplinare fosse già prescritta al momento della pronuncia di secondo grado (28.6.2024).
1.2. Sul terzo capo di incolpazione (333/2017) argomenta che i fatti contestati risalgono al 2012, l’esposto presentato dal sig. COGNOME è datato 3.3.2017 e la sua convocazione in sede disciplinare è avvenuta nel 2021; rileva che, anche considerando la citata convocazione e la coeva decisione quali atti interruttivi, gli stessi si collocherebbero oltre i sei anni dal fatto, con conseguente prescrizione dell’azione disciplinare.
1.3. Sul quarto capo di incolpazione (40/2018) deduce che i fatti sono molto lontani nel tempo (2013), che l’esposto risale al 23.9.2014 e la decisione del Consiglio di disciplina è intervenuta il 9.4.2021, otto anni dopo il fatto, quando il termine prescrizionale di sei anni, ed anche quello massimo di sette anni e mezzo, erano già decorsi.
Il motivo di ricorso non è fondato.
Non è in contestazione che la fattispecie oggetto di causa ricada sotto il vigore dell’art. 56, della legge n. 247 del 2012, ai sensi del quale «L’azione disciplinare si prescrive nel termine di sei anni dal fatto» (comma 1) e «Il termine della prescrizione è interrotto con la comunicazione all’iscritto della notizia dell’illecito. Il termine è interrotto anche dalla notifica della decisione del consiglio distrettuale di disciplina e della sentenza pronunciata dal CNF su ricorso. Da ogni interruzione decorre un nuovo termine della durata di cinque anni. Se gli atti interruttivi sono più di uno, la prescrizione decorre dall’ultimo di essi, ma in nessun caso il termine stabilito nel comma 1 può essere prolungato di oltre un quarto. Non si computa il tempo delle eventuali sospensioni» (comma 3).
Il ricorrente argomenta l’intervenuta prescrizione dell’azione disciplinare in riferimento a tutti gli illeciti contestati individuando quale dies a quo del relativo termine la data di «commissione di ciascun fatto» (ricorso, p. 4, terzo cpv.), che situa nell’anno 2016 per il proc. 580/2016 e negli anni 2012 e 2013 per le incolpazioni oggetto, rispettivamente, dei procedimenti 337/2017 e 40/2018, traendo la conseguenza dell’avvenuto decorso del termine massimo di sette anni e mezzo alla data della pronuncia del CNF.
Il motivo di ricorso non tiene conto di quanto statuito da questa S.C. sulla natura permanente degli illeciti disciplinari degli avvocati e, a causa di tale omissione, invoca una prescrizione in realtà non verificatasi.
Le incolpazioni mosse all’avv. COGNOME concernono la violazione di plurime disposizioni del codice deontologico e, specificamente del dovere di probità, dignità, decoro e indipendenza nell’esercizio della professione (art. 9), del dovere di fedeltà (art. 10) e diligenza (art. 12), delle regole di adempimento del mandato (art. 26) e di gestione del denaro altrui (art. 30). Le condotte contestate hanno ad oggetto, tra l’altro, la mancata esecuzione dell’impegno assunto col proprio cliente di versare determinate somme in favore della controparte (proc. 580/2016), il mancato versamento di somme di danaro che lo stesso avvocato si era impegnato a rimborsare al cliente per riparare i danni causati dalla negligente difesa (333/2017), la mancata restituzione di somme ricevute in deposito fiduciario e di altre somme anticipate per attività difensiva mai eseguita (40/2018).
Come statuito da questa Corte, la condotta del legale che omette di restituire al cliente la somma versatagli in deposito fiduciario (Cass., S.U., 8.7.2020, n. 14233; Cass., S.U., 29.3.2023 n. 8946) oppure omette di versare le somme dovute in esecuzione di impegni assunti con il proprio cliente (Cass., S.U., n. 28468 del 2022) configura un illecito permanente. Si tratta di condotte accomunate dall’elemento dell’appropriazione di somme affidate fiduciariamente dai clienti o del mancato impiego di esse per le finalità concordate, nonché della mancata restituzione di tali somme. In tal caso la condotta sanzionata disciplinarmente non si esaurisce nella percezione della
somma, ma ricomprende il comportamento, protrattosi nel tempo, consistente nell’avere l’avvocato mantenuto nella propria disponibilità un importo che, invece, avrebbe dovuto essere immediatamente consegnato al cliente o impiegato in conformità alle disposizioni impartite dal medesimo (art. 30 del codice deontologico). A proposito di somme incassate dal legale senza notiziare il cliente, si è statuito che la condotta appropriativa posta in essere dall’avvocato non si esaurisce nell’incasso delle somme di spettanza del cliente o nel trattenimento delle stesse, ma si protrae fino a quando le somme non siano messe a disposizione dell’assistito, facendo in tal modo cessare la continuità della violazione deontologica (Cass. S.U. 21.2.2019, n. 5200).
In tali circostanze, in cui la somma acquisita non risulta mai restituita, la giurisprudenza si è preoccupata di individuare un “limite alternativo” alla “permanenza” dell’illecito disciplinare in esame ossia un momento dal quale il termine prescrizionale inizia a decorrere, giacché altrimenti ne deriverebbe una – irragionevole, non prevista dalla legge – imprescrittibilit à̀ dell’illecito stesso. Tale limite è stato individuato, in analogia alla consolidata giurisprudenza penale di legittimit à̀ ( ex pluribus , Cass. pen., n. 32220 del 2015), nella decisione disciplinare di primo grado. Si è quindi affermato che ove l’illecito abbia natura permanente, la sua consumazione si protrae, in mancanza di restituzione, fino alla decisione disciplinare di primo grado, dalla quale inizia a decorrere il termine prescrizionale massimo di cui all’art. 56, comma 3, della l. n. 247 del 2012 (Cass., S.U., 26.7.2022 n. 23239; Cass., S.U., 2.2.2015 n. 1822).
Nel caso in esame, è pacifico che le somme a vario titolo trattenute dall’avv. COGNOME non siano mai state restituite ai clienti o versate in esecuzione degli impegni con i medesimi assunti, non potendosi quindi dubitare della natura permanente degli illeciti oggetto di causa, per i quali è stata contestata, tra l’altro, la violazione dell’art. 30 del codice deontologico (nel proc. 603/2016 non si poneva un problema di condotta appropriativa, ma unicamente di mancata attività difensiva, e correttamente il CNF ha individuato il dies a quo del termine prescrizionale nella presentazione dell’esposto e dichiarato l’intervenuta prescrizione).
Non ricorrono i presupposti per datare la cessazione della permanenza in un momento anteriore rispetto a quello indicato nella sentenza del CNF.
In proposito, occorre richiamare l’indirizzo di questa Corte secondo cui il momento di cessazione della permanenza può essere individuato anche in quello in cui il professionista, sollecitato alla restituzione, nega il diritto del cliente sulla somma depositata, affermando il proprio diritto di trattenerla (Cass., S.U., 2.2.2015 n. 1822; Cass., S.U., 21.2.2019 n. 5200; Cass., S.U., 8.7.2020 n. 14233; Cass., S.U., 29.3.2023 n. 8946), poiché risulta evidente e conclamata a tal punto la violazione disciplinare; si è considerata equiparabile a tale ipotesi la condotta del professionista che nega di avere ricevuto la somma, facendosi decorrere da tale momento il termine di prescrizione dell’illecito, in applicazione analogica dell’art. 158 c.p. (Cass., S.U., 8.7.2020 n. 14233).
Nel caso in esame, per nessuna delle incolpazioni vi è prova di un esplicito rifiuto dell’avv. COGNOME opposto formalmente ai clienti, di restituire o versare le somme di cui si discute oppure della rivendicazione del suo diritto di trattenere le stesse.
Con particolare riferimento al proc. 40/2018, la sentenza impugnata, nel riassumere la decisione del Consiglio di disciplina, riporta quanto dichiarato in quella sede dall’avv. COGNOME e cioè che «a seguito del procedimento attivato ai sensi dell’art. 702 -bis c.p.c. (su incarico del sig. COGNOME) per la restituzione di euro 16.500,00 e di euro 15.380,00, si fosse pervenuti ad una conciliazione giudiziale con la quale l’avv. COGNOME avrebbe dovuto versare la somma di euro 25.000,00 (oltre spese legali), con a mmissione di responsabilità. L’odierno ricorrente versava esclusivamente la somma di euro 1.000,00 mentre per la restante cifra veniva instaurata una procedura esecutiva (con pignoramento di 1/5 della pensione dell’avv. COGNOME)» (sentenza, p. 4, ultimo c pv.).
L’accordo conciliativo (datato 29.11.2016, cfr. decisione CDD, p. 6) di cui si fa cenno potrebbe avere rilievo ai fini della cessazione della permanenza ove rivestisse i caratteri della transazione novativa, idonea a determinare un mutamento del titolo delle ragioni di credito e debito (cfr. Cass., S.U., 29.3.2023
n. 8946). Come chiarito da questa Corte, l’efficacia novativa della transazione presuppone una situazione di oggettiva incompatibilità tra il rapporto preesistente e quello originato dall’accordo transattivo, in virtù della quale le obbligazioni reciprocamente assunte dalle parti devono ritenersi oggettivamente diverse da quelle preesistenti, con la conseguenza che, al di fuori dell’ipotesi in cui sussista un’espressa manifestazione di volontà delle parti in tal senso, il giudice di merito deve accertare se le parti, nel comporre l’originario rapporto litigioso, abbiano inteso o meno addivenire alla conclusione di un nuovo rapporto, costitutivo di autonome obbligazioni (Cass. 11.11.2016, n. 23064; Cass. 14.7.2011, n. 15444).
Nel caso in esame, il rilievo d’ufficio (cfr. Cass. 7.11.2022 n. 32683) di un diverso dies a quo del termine di prescrizione è precluso dalla necessità di una specifica indagine fattuale sulla natura di transazione novativa o meno dell’accordo citato, indagine non ammissibile in questa sede, non avendo peraltro il ricorrente allegato alcunché sul con tenuto dell’accordo né provveduto a trascrivere o depositare l’accordo medesimo, venendo meno alle prescrizioni imposte dagli artt. 366, primo comma, n. 6, e 369, secondo comma, n. 4, c.p.c. (Cass., S.U., 18.3.2022 n. 8950; Cass. 19.4.2022 n. 12481).
Deve quindi confermarsi la decisione del CNF che ha escluso il verificarsi della prescrizione per i residui capi di incolpazione, individuando quale dies a quo , in difetto di prova di cause atte a determinare la cessazione della permanenza degli illeciti, la data della decisione del Consiglio distrettuale.
Con il secondo motivo di ricorso è dedotta, ai sensi dell’art. 360, comma 1, n. 5 c.p.c., l’errata valutazione delle prove per la redazione della sentenza in difetto di supporto probatorio. Error in iudicando in relazione all’art. 2697 c.c.
Si censura la decisione del CNF per avere ritenuto comprovato l’addebito di cui al proc. 580/2016 senza procedere all’audizione del denunciante, sig. COGNOME e senza prendere in esame una ricostruzione alternativa dell’accaduto, in base alla quale l’avv. COGNOME avrebbe incassato gli assegni consegnati dal COGNOME imputandoli alle proprie competenze professionali e nel contempo onorato l’impegno verso il cliente, di risolvere l’esposizione debitoria nei confronti della
RAGIONE_SOCIALE attraverso la emissione di assegni tratti dal proprio conto corrente e non giunti alla riscossione a causa di un disallineamento sul conto medesimo.
Il ricorrente critica la sentenza impugnata anche in relazione all’addebito di cui al proc. 333/2017 assumendo il difetto di prova di un suo inadempimento all’obbligo di informativa del cliente sull’esito del giudizio. Allega di avere comunicato al cliente tale esito, seppure in modo informale, e che sarebbe stato onere di quest’ultimo dimostrare l’inadempimento. Precisa di non aver ricevuto dalla controparte la notifica della sentenza e del precetto, sebbene fosse domiciliatario. Insiste sulla modesta entità del danno subito dal suo assistito.
Anche riguardo al capo di incolpazione di cui al proc. 40/2018, il ricorrente critica la sentenza del CNF per errata valutazione del materiale istruttorio, da cui risulterebbe invece la proposizione da parte sua del giudizio di opposizione a decreto ingiun tivo e la partecipazione alle udienze. Denuncia l’illogicità della motivazione nella parte in cui ha escluso lo svolgimento di una sua attività difensiva perché contraria alle emergenze processuali. Contesta l’appropriazione della somma di euro 16.500,00 a dducendo che i clienti avrebbero recuperato l’importo di euro 14.000,00 e che la sua parcella ammontava ad euro 4.000,21, sicché nessun concreto danno essi avrebbero subito.
Il motivo di ricorso è inammissibile.
Secondo la giurisprudenza consolidata (Cass., S.U., 10.9.2024, n. 24285; Cass., S.U., 20.9.2016 n. 18395; Cass., S.U., 22.7.2016 n. 15203), le decisioni del Consiglio nazionale forense in materia disciplinare sono impugnabili dinanzi alle Sezioni Unite della Corte di cassazione soltanto per incompetenza, eccesso di potere e violazione di legge, con la conseguenza che l’accertamento del fatto, l’apprezzamento della sua rilevanza rispetto alle imputazioni, la scelta della sanzione opportuna e, in generale, la valutazione delle risultanze processuali non possono essere oggetto del controllo di legittimità, salvo che si traducano in un palese sviamento di potere, ossia nell’uso del potere disciplinare per un
fine diverso da quello per il quale è stato conferito (cfr. anche Cass., S.U., 4.2.2009 n. 2637).
Nel caso in esame il CNF, in conformità alla decisione del Consiglio di disciplina (eccetto che per il capo di incolpazione 603/2016), ha ritenuto dimostrate le plurime condotte dell’incolpato e il rilievo disciplinare delle stesse sulla base di un corredo probatorio composto dalle dichiarazioni degli esponenti, dalla documentazione in atti confermativa di tali dichiarazioni e in base a quanto ammesso dallo stesso avv. COGNOME nel corso dell’esame dinanzi al Consiglio di disciplina. Su quest’ultimo aspetto , la S.C. ha chiarito che le dichiarazioni dell’incolpato, ancorché rese in un’ottica difensiva, ben possono essere valutate in via probatoria in senso sfavorevole al dichiarante (Cass., S.U., 14.12.2022 n. 36660) e tali dichiarazioni risultano, nella fattispecie per cui è causa, supportate da plurimi riscontri documentali. La sentenza impugnata ha proceduto ad una puntuale disamina degli elementi di prova ed ha dato conto, seguendo un rigoroso e coerente percorso logico giuridico, delle ragioni fondanti la sussistenza degli illeciti disciplinari. Dalla motivazione adottata si evincono in modo chiaro le ragioni che hanno indotto il CNF a confermare l’applicazione della sanzione della sospensione dall’esercizio della professione, sia pure riducendone l’entità a seguito della dichiarata prescrizione dell’azione per uno degli addebiti.
A fronte di tale impianto argomentativo, le censure mosse si limitano a criticare la valutazione del materiale probatorio come eseguita dal CNF e a sollecitare un diverso apprezzamento, peraltro veicolato in maniera astratta e ipotetica. In tal modo, esse si collocano all’esterno del perimento di cui all’art. 360 n. 5 c.p.c., come definito da questa S.C. (cfr. Cass., S.U., n. 8053 e n. 8054 del 2014) e neppure attingono la violazione dell’art. 132 n. 4 c.p.c. nella misura del mancato rispetto, nell’obbligo di motivazione, del c.d. minimo costituzionale.
Le censure sono inammissibili anche nella parte in cui investono l’accertamento della gravità del fatto e la valutazione di adeguatezza della sanzione, profili entrambi rimessi all’Ordine professionale e sui quali il controllo di legittimità può svolgersi solo nei limiti di una valutazione di ragionevolezza (Cass., S.U., 31
luglio 2018 n. 20344), nella specie certamente positiva alla luce dello svolgimento argomentativo della decisione impugnata.
Per le ragioni esposte, il ricorso deve essere rigettato e ciò assorbe la richiesta di sospensione dell’esecuzione ex art. 36, comma 7, della legge n. 247 del 2012.
Non occorre provvedere sulle spese del giudizio di cassazione, in quanto l’intimato Consiglio dell’Ordine degli Avvocati di Latina non ha svolto difese.
Il rigetto del ricorso costituisce presupposto processuale per il raddoppio del contributo unificato, ai sensi dell’art. 13, comma 1 quater, del d.P.R. n. 115 del 2002 (cfr. Cass. S.U. n. 4315 del 2020).
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso.
Ai sensi dell’art. 13, comma 1-quater, del d.P.R. n. 115 del 2002, inserito dall’art. 1, comma 17, della legge n. 228 del 2012, dichiara la sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma del comma 1-bis dello stesso art. 13, se dovuto.
Così deciso in Roma, nella camera di consiglio del 18 febbraio 2025.