Ordinanza di Cassazione Civile Sez. L Num. 21103 Anno 2025
Civile Ord. Sez. L Num. 21103 Anno 2025
Presidente: NOME COGNOME
Relatore: COGNOME NOME
Data pubblicazione: 24/07/2025
ORDINANZA
sul ricorso 19316-2023 proposto da:
NOME COGNOME rappresentata e difesa dall’avvocato NOME COGNOME
– ricorrente –
contro
RAGIONE_SOCIALE SEZIONE DI RAGIONE_SOCIALE in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentata e difesa dall’avvocato COGNOME;
– controricorrente –
avverso la sentenza n. 857/2023 della CORTE D’APPELLO di CATANIA, depositata il 24/07/2023 R.G.N. 1189/2021; udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del 18/06/2025 dal Consigliere Dott. NOME COGNOME
Oggetto
R.G.N.19316/2023
COGNOME
Rep.
Ud 18/06/2025
CC
RILEVATO che
1.Con ricorso ex L. n. 92/2012, NOME COGNOME ha impugnato il licenziamento per giusta causa intimatole con lettera del 28.11.2018 dall’A.RAGIONE_SOCIALE, Sezione di Acireale – chiedendo la reintegra nel posto di lavoro e il pagamento della relativa indennità risarcitoria.
Il Tribunale di Catania, in funzione di giudice del lavoro, con ordinanza del 28.02.2020, aveva accolto il ricorso della lavoratrice, ritenendo il licenziamento illegittimo in quanto sproporzionato, dovendosi il fatto contestato ricondurre tra quelli punibili con sanzione conservativa ai sensi del CCNL applicato, e condannava l’AIAS al pagamento di dodici mensilità e alla reintegra.
La pronuncia era stata confermata dal Tribunale di Catania con sentenza n. 3782/2021 del 15.09.2021, a seguito dell’opposizione proposta dall’AIAS.
2. La Corte d’Appello di Catania, con la sentenza n. 857/2023, pubblicata il 24/07/2023, ha accolto il reclamo proposto dall’AIAS, riformando integralmente la sentenza impugnata e rigettando l’impugnativa di licenziamento proposta dalla Dott.ssa COGNOME
La Corte territoriale ha ritenuto che il fatto contestato ed accertato integrasse la giusta causa di licenziamento, sia ai sensi dell’art. 32 lett. aa) del CCNL AIAS (per “litigi di particolare gravità, ingiurie, risse sul luogo di lavoro”), sia per “grave
insubordinazione” ai sensi dell’art. 32 lett. v) del medesimo CCNL.
In particolare, ha qualificato come di “notevole gravità” la condotta della dipendente che si era rivolta al suo superiore gerarchico, in presenza di altra collega, utilizzando un epiteto volgare, in un contesto di dissenso rispetto a una direttiva impartita, ritenendo tale espressione indice di insubordinazione. Ha inoltre considerato la circostanza che il precedente disciplinare del 2016 (legittimo per sentenza del Tribunale di Catania) fosse “indice della facilità con la quale la dipendente trascende nel l’uso di toni e termini chiaramente offensivi”.
3.Per la cassazione della sentenza propone ricorso NOME COGNOME affidandolo a cinque motivi.
Resiste, con controricorso, l’RAGIONE_SOCIALE Sezione di Acireale.
Parte ricorrente ha comunicato memoria.
CONSIDERATO che
1.Con il primo motivo di ricorso, la ricorrente deduce la violazione e falsa applicazione dell’art. 32 del CCNL AIAS ratione temporis vigente, degli artt. 1362 e ss. c.c. in relazione all’applicazione degli artt. 2119 c.c. e 18, co. IV, L. 92/2012. La censura si incentra sull’interpretazione della Corte territoriale circa la portata dell’art. 32 lett. aa) del CCNL, sostenendosi che l’uso del plurale (“litigi di particolare gravità, ingiurie, risse sul luogo di lavoro”) imponeva la reiterazione delle condotte per la configurazione della giusta causa, contrariamente a quanto ritenuto dalla Corte d’Appello che ha considerato sufficiente il
singolo episodio. Si lamenta, quindi, una falsa applicazione dei criteri ermeneutici di cui agli artt. 1362 e ss. c.c.
Con il secondo motivo di ricorso, si allega la violazione e falsa applicazione dell’art. 2119 c.c. e dell’art. 18, co. IV, L. 92/2012. La ricorrente critica la decisione della Corte d’Appello di ritenere sussistente la giusta causa di licenziamento, adducendo che la condotta contestata, nei suoi risvolti oggettivi e soggettivi, non presenterebbe quel carattere di gravità tale da ledere irrimediabilmente il vincolo fiduciario, anche alla luce di elementi quali la longevità del rapporto di lavoro e l’asserito stato di disagio psicofisico della lavoratrice. Si sostiene che la Corte non avrebbe correttamente applicato gli “standards” interpretativi della clausola generale di giusta causa elaborati dalla giurisprudenza di legittimità.
Con il terzo motivo di ricorso, la ricorrente censura la sentenza per omesso esame circa un fatto decisivo del giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti, ai sensi dell’art. 360 comma 1 n. 5 c.p.c. In particolare, si lamenta l’omessa valutazione di alcune note di segnalazione e dichiarazioni rese dal Dott. COGNOME e dalla Dott.ssa COGNOMEprodotte dall’AIAS stessa), che, a detta della ricorrente, se esaminate, avrebbero dimostrato l’insussistenza del rifiuto di adempiere e l’assenza di connotazione offensiva grave, tali da escludere la “grave insubordinazione”.
Con il quarto motivo di ricorso, si lamenta l’illegittimità della sentenza per violazione e falsa applicazione dell’art. 7, co. 8 dello Statuto dei Lavoratori, in punto di illegittima applicazione della recidiva. La ricorrente sostiene che la Corte territoriale avrebbe erroneamente ritenuto rilevante, ai fini della recidiva,
un precedente disciplinare risalente al 2016, contestando l’eterogeneità delle condotte, il fatto che l’episodio si sia verificato nella sfera privata della lavoratrice e la sospensione ex lege della sanzione a seguito di impugnazione.
Con il quinto motivo di ricorso, si eccepisce l’illegittimità della sentenza per violazione e/o falsa applicazione dell’art. 91 c.p.c., in relazione alla regolamentazione delle spese di lite, ritenuta ingiusta in conseguenza degli asseriti vizi della pronuncia denunciati.
I motivi di ricorso, esaminati congiuntamente in ragione della loro stretta connessione, non possono trovare accoglimento.
Va premesso che è da ritenersi inammissibile la mescolanza e la sovrapposizione di mezzi d’impugnazione eterogenei, facenti riferimento alle diverse ipotesi contemplate dall’art. 360, comma 1, n. 3 e n. 5, c.p.c., non essendo consentita la prospettazione di una medesima questione sotto profili incompatibili, quali quello della violazione di legge e dell’omesso esame di fatto decisivo per il giudizio, in quanto una tale formulazione mira a rimettere al giudice di legittimità il compito di isolare le singole censure teoricamente proponibili, onde ricondurle ad uno dei mezzi d’impugnazione enunciati dall’art. 360 c.p.c., per poi ricercare quale o quali disposizioni sarebbero utilizzabili allo scopo, così attribuendo, inammissibilmente, al giudice di legittimità il compito di dare forma e contenuto giuridici alle lagnanze del ricorrente, al fine di decidere successivamente su di esse (Cass. n. 3397 del 2024).
Occorre rilevare che, come noto, con riferimento alla dedotta violazione dell’art. 360, co. 1, n. 5 cod. proc. civ., si verte
nell’ambito di una valutazione di fatto, totalmente sottratta al sindacato di legittimità, in quanto, in seguito alla riformulazione dell’art. 360, comma 1, n. 5 del cod. proc. civ., al di fuori dell’omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti, il controllo del vizio di legittimità rimane circoscritto alla sola verifica della esistenza del requisito motivazionale nel suo contenuto “minimo costituzionale” richiesto dall’art. 111, comma 6, Cost. ed individuato “in negativo” dalla consolidata giurisprudenza della Corte -formatasi in materia di ricorso straordinario- in relazione alle note ipotesi (mancanza della motivazione quale requisito essenziale del provvedimento giurisdizionale; motivazione apparente; manifesta ed irriducibile contraddittorietà; motivazione perplessa od incomprensibile) che si convertono nella violazione dell’art. 132, comma 2, n. 4), c.p.c. e che determinano la nullità della sentenza per carenza assoluta del prescritto requisito di validità (fra le più recenti, Cass. n. 13428 del 2020; Cass. n. 23940 del 2017).
Nella specie, non solo la motivazione è presente e ben chiara nel suo svolgimento ma parte ricorrente non deduce l’omessa valutazione di un fatto storico ma appunta le proprie censure su aspetti valutativi dell’ iter motivazionale, concernenti la asseritamente erronea valutazione della Corte d’appello.
Invero, l’art. 360, comma 1, n. 5, c.p.c., nella formulazione risultante dalle modifiche introdotte dal d.l. n. 83 del 2012, conv. dalla l. n. 143 del 2012, prevede l’ ” omesso esame” come riferito ad “un fatto decisivo per il giudizio” ossia ad un preciso accadimento o una precisa circostanza in senso storico naturalistico, non assimilabile in alcun modo a “questioni” o “argomentazioni” che, pertanto, risultano irrilevanti, con
conseguente inammissibilità delle censure irritualmente formulate ( cfr., in questi termini, fra le più recenti, Cass.n. 2268 del 2022).
Con riferimento al primo motivo, la questione relativa all’interpretazione dell’art. 32 lett. aa) del CCNL AIAS, circa la necessità della reiterazione delle condotte (“litigi di particolare gravità, ingiurie, risse sul luogo di lavoro”), risulta non decisiva ai fini del presente giudizio di legittimità.
La Corte d’Appello, infatti, ha prioritariamente accertato la sussistenza di una grave insubordinazione ai sensi dell’art. 32 lett. v) del medesimo CCNL, basandosi sulla intrinseca gravità della condotta di insubordinazione e ingiuria come accertata in fatto e ritenuta di per sé idonea a ledere irrimediabilmente il vincolo fiduciario. La Corte territoriale, nel riformare la sentenza di primo grado, ha dato rilievo al “fatto contestato ed accertato” che “integra il concetto di giusta causa”, evidenziando che “l’addebito contestato riveste notevole gravità” e che “l’espressione offensiva ed ingiuriosa abbia anche una portata di insubordinazione, che ne accentua la gravità”. Tale accertamento in fatto sulla grave insubordinazione e sulla sua idoneità a integrare la giusta causa, come sopra rilevato, rientra nella valutazione di merito e si sottrae al sindacato di legittimità se congruamente motivato, come nel caso di specie. La censura sulla mera interpretazione di una singola lettera del CCNL diviene, dunque, recessiva rispetto alla valutazione complessiva sulla gravità della condotta e sulla lesione del vincolo fiduciario, che è stata posta dalla Corte di merito a fondamento della legittimità del licenziamento. Di conseguenza, anche se la Corte territoriale avesse errato nell’interpretazione specifica del plurale nell’art. 32 lett. aa), tale errore non sarebbe stato
decisivo, in quanto la pronuncia si regge autonomamente sull’accertata grave insubordinazione di cui all’art. 32 lett. v) e sulla proporzionalità della sanzione.
Inoltre, la Corte d’Appello ha correttamente rilevato che l’elencazione contenuta nell’art. 32 CCNL ha carattere esemplificativo e non esaustivo, consentendo al giudice di merito di valutare in concreto la gravità della condotta ai fini della giusta causa ex art. 2119 c.c. ed in tal modo ha comunque mostrato di tenere conto della scala valoriale alla base della contrattazione collettiva. Questo potere di interpretazione e sussunzione non è stato esercitato in modo illogico o arbitrario, ma con un percorso motivazionale che ha ritenuto la singola condotta ingiuriosa di per sé grave. La Corte ha escluso che l’asserito “periodo di insoddisfazione lavorativa” o le condizioni psicologiche della lavoratrice potessero giustificare la condotta, ritenendo le prove addotte dalla ricorrente inidonee o non decisive a tal fine. Ha correttamente valutato la condotta in un contesto unitario, evidenziando il rifiuto di adempiere e l’insulto diretto a chi portava la disposizione.
Quanto al secondo motivo, va premesso che, secondo l’insegnamento di questa Corte (da ultimo, Cass. n. 13534 del 2019 nonché, in terminis, Cass. n. 7838 del 2005 e Cass. n. 18247 del 2009), il modulo generico che identifica la struttura aperta delle disposizioni di limitato contenuto ascrivibili alla tipologia delle cd. clausole generali, richiede di essere specificato in via interpretativa, allo scopo di adeguare le norme alla realtà articolata e mutevole nel tempo. La specificazione può avvenire mediante la valorizzazione o di principi che la stessa disposizione richiama o di fattori esterni relativi alla coscienza generale ovvero di criteri desumibili dall’ordinamento
generale, a cominciare dai principi costituzionali ma anche dalla disciplina particolare, collettiva, come nel caso in esame, in cui si colloca la fattispecie. Tali specificazioni del parametro normativo hanno natura giuridica e la loro errata individuazione è deducibile in sede di legittimità come violazione di legge ( ex plurimis, Cass. n. 13453 del 2019 cit., Cass. n. 6901 del 2016; Cass. n. 6501 del 2013; Cass. n. 6498 del 2012; Cass. n. 25144 del 2010). seguentemente, non si sottrae al controllo di questa Corte il profilo della correttezza del metodo seguito nell’individuazione dei parametri integrativi, perché, pur essendo necessario compiere opzioni di valore su regole o criteri etici o di costume o propri di discipline e/o di ambiti anche extragiuridici, “tali regole sono tuttavia recepite dalle norme giuridiche che, utilizzando concetti indeterminati, fanno appunto ad esse riferimento” (per tutte v. Cass. n. 434 del 1999), traducendosi in un’attività di interpretazione giuridica e non meramente fattuale della norma stessa (cfr. Cass. n. 13453 del 2019 cit., Cass. n. 5026 del 2004; Cass. n. 10058 del 2005; Cass. n. 8017 del 2006).
Nondimeno, va sottolineato che l’attività di integrazione del precetto normativo di cui all’art. 2119 c.c. compiuta dal giudice di merito è sindacabile in cassazione a condizione, però, che la contestazione del giudizio valutativo operato in sede di merito non si limiti ad una censura generica e meramente contrappositiva, ma contenga, invece, una specifica denuncia di non coerenza del predetto giudizio rispetto agli standards, conformi ai valori. Sul diverso piano del giudizio di fatto, demandato al giudice del merito, opera l’accertamento della concreta ricorrenza, nella fattispecie dedotta in giudizio, degli elementi che integrano il parametro normativo e sue
specificazioni e della loro attitudine a costituire giusta causa di licenziamento. Quindi occorre distinguere: è solo l’integrazione a livello generale e astratto della clausola generale che si colloca sul piano normativo e consente una censura per violazione di legge; mentre l’applicazione in concreto del più specifico canone integrativo così ricostruito, rientra nella valutazione di fatto devoluta al giudice del merito, “ossia il fattuale riconoscimento della riconducibilità del caso concreto nella fattispecie generale e astratta” (in termini ancora Cass. n. 18247/2009 e n. 7838/2005 citate).
Questa Corte precisa, pertanto, che “spettano inevitabilmente al giudice di merito le connotazioni valutative dei fatti accertati nella loro materialità, nella misura necessaria ai fini della loro riconducibilità -in termini positivi o negativi -all’ipotesi normativa” (così, in motivazione, Cass. n. 15661 del 2001, nonché la giurisprudenza ivi citata).
Tale distinzione operante per le clausole generali condiziona la verifica dell’errore di sussunzione del fatto nell’ipotesi normativa, ascrivibile, per risalente tradizione giurisprudenziale (v. in proposito Cass. SS.UU. n. 5 del 2001), al vizio di cui al n. 3 dell’art. 360, comma 1, c.p.c. (di recente si segnala Cass. n. 13747 del 2018). E’, infatti, solo l’integrazione a livello generale e astratto della clausola generale che si colloca sul piano normativo e consente una censura per violazione di legge: l’applicazione in concreto del più specifico canone integrativo così ricostruito, rientra nella valutazione di fatto devoluta al giudice del merito, “ossia il fattuale riconoscimento della riconducibilità del caso concreto nella fattispecie generale e
astratta” (sul punto, fra le altre, Cass. n.18247 del 2009 e n. 7838 del 2005).
Nel caso di specie, appare evidente che la censura, veicolata per il tramite dell’art.360 n. 3 cod. proc. civ., in realtà corre lungo i binari della censura fattuale in quanto mira ad una diversa ricostruzione della fattispecie oltre che ad una inammissibile diversa valutazione delle risultanze istruttorie di primo grado.
La Corte territoriale ha ampiamente motivato la propria decisione sulla sussistenza della giusta causa, conformandosi agli “standards” elaborati dalla giurisprudenza di legittimità per l’applicazione dell’art. 2119 c.c. La Corte ha valutato la gravità intrinseca dell’epiteto (“leccaculo”) rivolto a un superiore gerarchico, non come mero “alterco o diverbio”, ma come insubordinazione qualificata dall’ingiuria e dal rifiuto di adempiere, comportamento che incide direttamente sulla funzionalità e sulla gerarchia aziendale. quindi, considerato la Corte il contesto in cui è stato pronunciato (reazione a una disposizione del superiore gerarchico), la presenza di altra dipendente, che ne accentua la gravità e la platealità, e la sussistenza di un atteggiamento di sfida e disprezzo verso l’autorità. Il giudice di secondo grado ha, quindi, ritenuto che tale condotta, per la sua natura oggettivamente grave, fosse idonea a ledere irrimediabilmente il vincolo fiduciario, a prescindere dalla longevità del rapporto o da asserite condizioni personali della lavoratrice, elementi che sono stati comunque presi in considerazione e ritenuti non determinanti. Tale valutazione, non implausibile, deve ritenersi sottratta al sindacato di legittimità.
6.Il terzo motivo, che denuncia l’omesso esame di documenti decisivi ( ex art. 360 n. 5 c.p.c.), è inammissibile. Come già rilevato, il vizio di cui all’art. 360, n. 5 c.p.c., nella formulazione attuale, riguarda l’omesso esame di un fatto storico, primario o secondario, che sia stato oggetto di discussione tra le parti e abbia carattere decisivo, cioè tale che, se esaminato, avrebbe determinato un esito diverso del giudizio (Cass. civ., Sez. Un., n. 8053/2014).
Nel caso di specie, la Corte d’Appello non ha omesso di esaminare i fatti risultanti dalle dichiarazioni richiamate. Al contrario, la sentenza impugnata ha espressamente richiamato e condiviso la ricostruzione dei fatti operata dal giudice di primo grado, che aveva ritenuto “pacifico” che la Dott.ssa COGNOME avesse proferito la parola offensiva nei confronti del Dott. COGNOME suo superiore gerarchico, in presenza di un’altra dipendente, e che tale espressione, per sua natura, fosse “specificamente diretta nei confronti di un soggetto determinato” (cfr. pagg. 4-5 della sentenza d’appello, che riporta le motivazioni della fase sommaria e le fa proprie). La Corte d’Appello ha dunque valutato e interpretato le risultanze istruttorie, giungendo a una conclusione di merito diversa da quella auspicata dalla ricorrente, ma senza che vi sia stata una materiale “omissione di esame” dei documenti. La censura si risolve, pertanto, in una richiesta di rivalutazione del merito, non consentita in sede di legittimità. La ricorrente, pur formalmente denunciando l’omesso esame, mira in realtà a una diversa ricostruzione e interpretazione dei fatti, che è prerogativa del giudice di merito.
La censura contenuta nel quarto motivo, relativo all’applicazione della recidiva, deve ritenersi infondata.
La Corte territoriale, pur menzionando il precedente disciplinare del 2016 e la sua legittimità (convalida del Tribunale), non ha fondato la legittimità del licenziamento primariamente su di esso, ma sulla intrinseca gravità del fatto contestato nel 2018. La sentenza ha, invero, valutato il fatto in sé contestato nel licenziamento del 2018 come avente “notevole gravità” e, con valutazione non implausibile e sottratta al giudizio di legittimità, ha ritenuto la stessa integrare il concetto di giusta causa indipendentemente dalla recidiva.
La Corte ha, piuttosto, considerato il precedente del 2016 come un “indice della facilità con la quale la dipendente trascende nell’uso di toni e termini chiaramente offensivi”, evidenziando una “inclinazione all’insulto e all’ingiuria” della lavoratrice, elemento che, seppur non determinante in termini di automatismo sanzionatorio, può essere considerato dal giudice di merito per valutare la complessiva condotta del dipendente e l’idoneità del fatto contestato a ledere il vincolo fiduciario. Tale valutazione rientra nel sindacato di merito e non costituisce violazione dell’art. 7, co. 8 dello Statuto dei Lavoratori, che non consente di tener conto in termini di recidiva dei fatti commessi dopo due anni dall’applicazione della relativa sanzione disciplinare ma non impedisce al giudice di merito di apprezzare un precedente comportamento del lavoratore per valutarne la personalità e l’idoneità alla
prosecuzione del rapporto, anche se la sanzione correlata è sospesa.
7.Infine, il quinto motivo, relativo alla condanna alle spese, è infondato.
La statuizione sulle spese processuali è conseguenza logica e necessaria della soccombenza, principio generale sancito dall’art. 91 c.p.c. Avendo la Corte d’Appello accolto il reclamo dell’AIAS e rigettato l’impugnativa di licenziamento proposta dalla Dott.ssa COGNOME quest’ultima è risultata soccombente nel merito. La condanna alle spese, pertanto, è stata correttamente disposta in applicazione del principio di soccombenza. Il rigetto dei precedenti motivi di ricorso per cassazione comporta il venir meno del presupposto per la modifica della statuizione sulle spese.
8.Alla luce delle suesposte argomentazioni, il ricorso va respinto in ogni sua parte, in quanto le censure, pur formalmente denunciando violazioni di legge e vizi della motivazione, nella sostanza mirano a una diversa ricostruzione della vicenda storica e a una inammissibile rivalutazione delle risultanze istruttorie, il cui esito, non sconfinando in un risultato irragionevole e non identificando una incoerenza del giudizio di merito rispetto agli standards conformi ai valori dell’ordinamento, si sottrae al sindacato di legittimità (Cass. n. 13534/2019).
In particolare, deve rilevarsi che parte ricorrente, nel formulare le proprie censure mediante ricorso per cassazione, non si è conformata a quanto statuito dal Supremo Collegio in ordine alla apparente deduzione di
vizi ex artt. 360 co. 1 nn.3 e 5 e, cioè, che è inammissibile il ricorso per cassazione che, sotto l’apparente deduzione del vizio di violazione o falsa applicazione di legge, di mancanza assoluta di motivazione e di omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio miri, in realtà, ad una rivalutazione dei fatti storici operata dal giudice di merito (cfr., SU n. 34476 del 2021).
Le spese seguono la soccombenza e vanno liquidate come in dispositivo. Sussistono i presupposti processuali per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello previsto per il ricorso, a nor ma dell’art. 1 bis dell’ articolo 13 comma 1 quater del d.P.R. n. 115 del 2002, se dovuto.
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso. Condanna la ricorrente al pagamento delle spese del presente giudizio di legittimità in favore della controricorrente, che liquida in complessivi euro 4000,00, oltre spese generali al 15% e accessori di legge.
Ai sensi dell’art. 13 comma 1 quater del d.P.R. n. 115 del 2002, da atto della sussistenza dei presupposti9 processuali per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello previsto per il ricorso, a norma dell’art. 1 bis dello stesso articolo 13, se dovuto.
Cosi deciso nell’Adunanza camerale del 18 giugno 2025.
La Presidente
NOME COGNOME