Ordinanza di Cassazione Civile Sez. L Num. 22160 Anno 2024
Civile Ord. Sez. L Num. 22160 Anno 2024
Presidente: COGNOME NOME
Relatore: NOME COGNOME
Data pubblicazione: 06/08/2024
ORDINANZA
sul ricorso 8656-2021 proposto da:
RAGIONE_SOCIALE, in persona del legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliata in ROMAINDIRIZZO, presso lo studio dell’avvocato NOME COGNOME, rappresentata e difesa dall’avvocato NOME COGNOME;
– ricorrente –
contro
COGNOME NOME, domiciliata in ROMA, INDIRIZZO, presso la CANCELLERIA DELLA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE, rappresentata e difesa dall’avvocato NOME COGNOME;
– controricorrente –
avverso la sentenza n. 92/2021 della CORTE D’APPELLO d ell’ AQUILA, depositata il 21/01/2021 R.G.N. 516/2020;
Oggetto
Licenziamento g.m.o. -rapporto privato
RNUMERO_DOCUMENTO. NUMERO_DOCUMENTO
COGNOME.
Rep.
Ud. 05/06/2024
CC
udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del 05/06/2024 dal AVV_NOTAIO.
RILEVATO CHE
la Corte d’Appello dell’Aquila, pronunciandosi con sentenza n. 92/2021 in sede di rinvio da questa Corte con ordinanza n. 15400/2020, respingeva il reclamo della società in epigrafe avverso la sentenza del Tribunale di Teramo che aveva dichiarato illegittimo, per insussistenza del dedotto giustificato motivo oggettivo, il licenziamento intimato a NOME COGNOME il 5.8.2013, ordinato la reintegrazione della predetta nel posto di lavoro, condannato la società datrice al pagamento di indennità risarcitoria in misura di dodici mensilità dell’ultima retribuzione globale di fatto;
la pronuncia rescindente aveva esaminato congiuntamente i motivi di ricorso della società avverso la sentenza della medesima Corte d’Appello n. 525/2016, sempre di rigetto del reclamo proposto dalla società avverso la sentenza di primo grado di reiezione della sua opposizione all’ordinanza dello stesso Tribunale, che aveva dichiarato illegittimo il licenziamento intimato (a causa della soppressione del posto di lavoro, per eccedenza sul livello occupazionale necessario a garantire l’appalto del servizio scolastico, prevedendo il relativo capitolato un solo assistente per ogni automezzo destinato al trasporto degli alunni) per manifesta insussistenza del giustificato motivo oggettivo, con ordine di reintegrazione della lavoratrice e condanna della società datrice al pagamento dell’indennità risarcitoria in misura di dodici mensilità dell’ultima retribuzione globale di fatto;
rispetto ai motivi di ricorso per cassazione della società, la pronuncia rescindente affermava il principio secondo cui, ai fini
della legittimità del licenziamento individuale per giustificato motivo oggettivo, l’andamento economico negativo dell’azienda non costituisce un presupposto fattuale che il datore di lavoro debba necessariamente provare, essendo sufficiente che la scelta imprenditoriale abbia comportato la soppressione del posto di lavoro e che le ragioni addotte dal datore di lavoro a sostegno della modifica organizzativa attuata abbiano inciso, in termini di causa efficiente, sulla posizione lavorativa ricoperta dal lavoratore licenziato; il licenziamento risulterà ingiustificato, per la mancanza di veridicità o la pretestuosità della causale addotta, in presenza dell’accertamento in concreto dell’inesistenza di dette ragioni, cui il giudice sia pervenuto senza però attribuire rilievo all’assenza di effettive motivazioni economiche, perché ciò integrerebbe una insindacabile valutazione di scelte imprenditoriali, che si pone in violazione dell’art. 41 Cost.; in applicazione del suddetto principio, questa Corte cassava la sentenza di merito che (in relazione a vicenda in cui era stata accertata l’effettiva soppressione della posizione della lavoratrice licenziata e la sua diretta dipendenza causale dalla ragione riorganizzativa aziendale) aveva ritenuto non giustificato il licenziamento, dando peso al non dimostrato squilibrio tra costi di gestione e margini di competitività dell’impresa e alla mancanza di allegazione della variabile di incidenza dei costi e degli effetti sulla redditività nel mercato;
riassunto il giudizio dalla società, con la seconda sentenza di appello la Corte dell’Aquila, perimetrato il giudizio di rinvio nel senso che la verifica demandata al giudice di merito riguardava la veridicità e non pretestuosità della ragione organizzativa e produttiva che aveva comportato il licenziamento per cui è causa, e in caso di sussistenza di detta ragione la sua incidenza causale sulla posizione lavorativa ricoperta dalla lavoratrice licenziata, osservava che:
in relazione all’effettività della riorganizzazione, le ragioni poste dalla società a giustificare la necessità di contenimento dei costi propedeutica a una riorganizzazione comportante la riduzione del personale risultavano destituite di fondamento (in relazione a circostanze riguardanti l’adeguamento del prezzo del servizio, il riconoscimento di somme da parte del Comune di Teramo, la successiva assunzione di una lavoratrice a tempo indeterminato);
non era, comunque, stato dimostrato il nesso causale tra la riduzione dei posti di lavoro e il licenziamento proprio della lavoratrice in questione e non di altra in posizione identica nell’ambito di una valutazione comparativa improntata a correttezza e buona fede;
avverso la seconda sentenza della Corte d’Appello dell’Aquila quale giudice del rinvio propone ricorso per cassazione la società con sette motivi; resiste la lavoratrice con controricorso, illustrato da memoria; al termine della camera di consiglio, il Collegio si è riservato il deposito dell’ordinanza;
CONSIDERATO CHE
con il primo motivo parte ricorrente deduce (art. 360, nn. 3 e 4, c.p.c.) violazione e falsa applicazione degli artt. 384 e 394 c.p.c. e nullità della sentenza per avere la Corte di merito omesso di uniformarsi al principio di diritto enunciato e per indebita pronuncia su parti coperte da giudicato in violazione degli artt. 2909 c.c. e 324 c.p.c.; sostiene erronea rivalutazione del rapporto causale tra le ragioni indicate nell’atto di recesso e il licenziamento;
con il secondo motivo, in subordine, deduce (art. 360, n. 3, c.p.c.) violazione degli artt. 3 legge n. 604/1966, 1175 e 1375 c.c., 41 Cost.; sostiene che la Corte territoriale ha
erroneamente affermato che la società avrebbe dovuto spiegare la scelta di licenziare una lavoratrice piuttosto che un’altra vertente in situazione identica;
con il terzo motivo deduce (art. 360, nn. 3 e 4, c.p.c.) violazione degli artt. 1175 e 1375 c.c. e nullità della sentenza ai sensi dell’art. 132, comma 2, n. 4, c.p.c., per vizio di motivazione nella parte concernente la violazione del dovere di correttezza e buona fede;
con il quarto motivo deduce (art. 360, n. 4, c.p.c.) nullità della sentenza ex art. 112 c.p.c., per non essersi la Corte di rinvio pronunciata su una specifica ragione di doglianza dell’atto di riassunzione (applicabilità dell’art. 18, comma 5, invece che dell’art. 18, comma 4, legge n. 300/1970);
con il quinto motivo deduce (art. 360, n. 3, c.p.c.) violazione degli artt. 1324, 1362, 1363 c.c.; assume errata interpretazione della comunicazione di licenziamento nella parte in cui illustra la sussistenza delle ragioni della riorganizzazione aziendale;
con il sesto motivo deduce (art. 360, n. 3, c.p.c.) violazione dell’art. 41 Cost. e dell’art. 3 legge n.604/1966; sostiene che la società aveva dimostrato la sussistenza del giustificato motivo oggettivo e che la sentenza impugnata non ha dato rilievo al dato non contestabile della soppressione della posizione lavorativa;
con il settimo motivo deduce (art. 360, n. 3, c.p.c.) violazione dell’art. 91 c.p.c., per erronea condanna alle spese del giudizio di legittimità, nonostante in tale sede controparte fosse rimasta contumace;
il primo motivo non è fondato, in quanto la Corte distrettuale ha proceduto alla verifica in concreto che le era stata demandata dalla sentenza di questa Corte rescindente;
in via preliminare, occorre richiamare l’insegnamento di questa Corte sul carattere cd. chiuso del giudizio di rinvio (Cass. S.U.
17332/2021; Cass. n. 8039/2023, n. 21692/2023, 5588/2024);
la ricostruzione ampiamente consolidata della natura del giudizio di rinvio evidenzia che quest’ultimo non costituisce la rinnovazione o la prosecuzione del giudizio di merito, bensì la fase rescissoria rispetto a quella rescindente del giudizio di cassazione; il giudizio di rinvio si presenta, quindi, come una prosecuzione del processo di Cassazione, nel corso del quale il giudice di merito ha il compito di svolgere quelle attività necessarie a conformarsi al principio di diritto enunciato dalla S.C. ai s ensi dell’art. 384 c.p.c.;
al fine della corretta individuazione dell’oggetto del giudizio, è stato precisato (Cass. S.U. n. 28544/2008) che la sentenza rescindente vincola le parti ed il giudice del rinvio a tenere ferme, nella fase rescissoria, le questioni di diritto in precedenza risolte o che debbano intendersi implicitamente decise quale presupposto necessario e logicamente inderogabile della pronuncia espressa in diritto (cfr. Cass. n. 7281/2011); è la sentenza rescindente della Cassazione a circoscrivere l’oggetto del giudizio della fase rescissoria;
tanto premesso, i profili che le parti possono dedurre nell’impugnazione della sentenza rescissoria debbono necessariamente riguardare l’aderenza di quest’ultima al principio espresso dalla sentenza rescindente;
nel caso di specie, la Corte territoriale correttamente ha, prima di procedere all’esame del ricorso in riassunzione, inquadrato e perimetrato l’oggetto del giudizio di rinvio;
avendo la sentenza rescindente constatato che era stata operata una valutazione di scelte imprenditoriali non sindacabili, alla Corte di rinvio è stato rimesso di accertare se il licenziamento fosse ingiustificato, per la mancanza di veridicità o la pretestuosità della causale addotta, senza però sindacare
in concreto le motivazioni economiche delle scelte imprenditoriali;
in tali confini si è svolto l’accertamento in fatto operato dal giudice di rinvio, che è pervenuto a valutare le ragioni poste dalla società a giustificazione della necessità di contenimento dei costi appunto non dimostrate, questione diversa da quella della valutazione delle scelte imprenditoriali per contenere i costi), in riferimento alle circostanza di fatto (enunciate a pag. 4-5, a), b), c) della sentenza impugnata); su tali circostanze non si era formato il giudicato, essendo, al contrario, la ragione e l’oggetto dell’accertamento in fatto demandato dalla sentenza rescindente al giudice del rinvio;
il secondo motivo è assorbito dal rigetto di quello precedente, trattandosi di capo di motivazione espressamente sviluppato per l’ipotesi di ritenuta infondatezza delle ragioni di rigetto del reclamo espresse in via principale, infondatezza che questo Collegio esclude per le ragioni di cui ai paragrafi precedenti (§§ 14, 15);
infatti, nel caso in cui venga impugnata con ricorso per cassazione una sentenza (o un capo di questa) che si fondi su più ragioni, tutte autonomamente idonee a sorreggerla, è necessario, per giungere alla cassazione della pronuncia, non solo che ciascuna di esse abbia formato oggetto di specifica censura, ma anche che il ricorso abbia esito positivo nella sua interezza con l’accoglimento di tutte le censure, affinché si realizzi lo scopo proprio di tale mezzo di impugnazione, il quale deve mirare alla cassazione della sentenza, “in toto” o nel suo singolo capo, per tutte le ragioni che autonomamente l’una o l’altro sorreggano; ne consegue che è sufficiente che anche una sola delle dette ragioni non abbia formato oggetto di censura, ovvero, pur essendo stata impugnata, sia respinta, perché il ricorso o il motivo di impugnazione avverso il singolo capo di
essa, debba essere respinto nella sua interezza, divenendo inammissibili, per difetto di interesse, le censure avverso le altre ragioni poste a base della sentenza o del capo impugnato (così Cass. S.U. n. 16602/2005, e successive conformi);
il terzo motivo non è meritevole di accoglimento;
esso non è fondato in relazione alla doglianza di violazione di legge (dedotti ai sensi del n. 3 dell’art. 360 c.p.c.), trattandosi degli stessi profili prospettati al motivo precedente, e dichiarati assorbiti; è inammissibile in relazione alla doglianza di nullità (dedotti ai sensi del n. 4 dell’art. 360 c.p.c.), in quanto, secondo la consolidata giurisprudenza di questa Corte, ricorre il vizio di omessa o apparente motivazione della sentenza allorquando il giudice di merito ometta ivi di indicare gli elementi da cui ha tratto il proprio convincimento ovvero li indichi senza un’approfondita loro disamina logica e giuridica, rendendo, in tal modo, impossibile ogni controllo sull’esattezza e sulla logicità del suo ragionamento (Cass. n. 9105/2017; conf. Cass, n. 20921/2019), restando il sindacato di legittimità sulla motivazione circoscritto alla sola verifica della violazione del ‘minimo costituzionale’ richiesto dall’art. 111, sesto comma, Cost. (Cass. S.U. n. 8053 e 8054/2014, n. 23940/2017, n. 16595/2019);
il quarto motivo non è fondato;
dal complesso della motivazione della sentenza impugnata si ricava, implicitamente, che la Corte territoriale ha esercitato la facoltà di cui al comma 7 dell’art. 18 legge n. 300/1970, secondo cui il giudice ‘(p) uò altresì applicare la predetta disciplina (di cui al quarto comma) nell’ipotesi in cui accerti la manifesta insussistenza del fatto posto a base del licenziamento per giustificato motivo oggettivo ‘ , stante la ritenuta, in fatto, pretestuosità delle ragioni poste dalla società a giustificare la
necessità di contenimento dei costi propedeutica alla riorganizzazione comportante la riduzione del personale;
peraltro, l’art. 18, comma 7, della legge n. 300/1970 (come novellato dalla legge n. 92/2012) che regola l’apparato sanzionatorio da applicare in caso di accertamento della illegittimità di un licenziamento per giustificato motivo oggettivo -è stato inciso da due recenti sentenze della Corte Costituzionale, successive alla pronuncia rescindente ed alla pronuncia impugnata, proprio con riguardo ai requisiti per l’applicazione della tutela reintegratoria: la sentenza n. 59 del 2021 ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 18, settimo comma, secondo periodo, della legge 20 maggio 1970, n. 300, come modificato dall’art. 1, comma 42, lettera b), della legge 28 giugno 2012, nella parte in cui prevede che il giudice, quando accerti la manifesta insussistenza del fatto posto a base del licenziamento per giustificato motivo oggettivo, « può altresì applicare » -invece che « applica altresì » -la disciplina di cui al medesimo art. 18, quarto comma; la sentenza n. 125 del 2022 ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 18, settimo comma, secondo periodo, della legge 20 maggio 1970, n. 300, come modificato dall’art. 1, comma 42, lettera b), della legge 28 giugno 2012, n. 92, limitatamente alla parola « manifesta »;
a seguito degli interventi della Corte costituzionale sull’apparato sanzionatorio da applicare in caso di illegittimità del licenziamento per giustificato motivo oggettivo, ai sensi dell’art. 18, comma 7, della legge n. 300/1970, come novellato dalla legge n. 92/2012, il giudice, accertata l’insussistenza del fatto posto a base di tale licenziamento, deve ordinare la reintegrazione del lavoratore nel posto di lavoro, senza facoltà di scelta tra tutela ripristinatoria e tutela economica (cfr. Cass. n. 30167/2022, n. 1299/2023);
il quinto motivo, nella misura in cui non è assorbito dal rigetto del primo, è inammissibile perché di risolve nell’espressione di mero dissenso motivazionale in tema di interpretazione di atto unilaterale; quando di una clausola contrattuale sono possibili due o più interpretazioni plausibili, non è consentito alla parte che aveva proposto l’interpretazione poi disattesa dal giudice di merito dolersi in sede di legittimità del fatto che sia stata privilegiata l’altra (tra le molte, Cass. n. 3964/2019, S.U. n. 20181/2019, n. 16987/2018, n. 28319/2017);
parimenti è inammissibile il sesto motivo;
esso si risolve nella contestazione della valutazione probatoria dei giudici di merito, insindacabile in sede di legittimità qualora congruamente argomentata (Cass. n. 29404/2017, n. 1229/2019, S.U. n. 34476/2019, S.U. n. 20867/2020, n. 5987/2021, n. 6774/2022, n. 36349/2023), non essendo consentita, sotto l’apparente deduzione di una violazione di norme di legge, la rivalutazione dei fatti e delle prove operata nel merito, così da realizzare una surrettizia trasformazione del giudizio di legittimità in un terzo grado di merito nel quale ridiscutere gli esiti istruttori espressi nella decisione impugnata, non condivisi, al fine di un loro riesame (v. Cass. n. 15568/2020, e giurisprudenza ivi richiamata; Cass. n. 20553/2021, n. 20814/2018, n. 18721/2018, n. 8758/2017);
il settimo motivo è fondato;
effettivamente la lavoratrice attuale controricorrente era rimasta intimata nel giudizio di Cassazione deciso con la pronuncia n. 15400/2020, ed è perciò erronea la condanna della società attuale ricorrente alla rifusione delle spese di lite di tale giudizio;
la sentenza impugnata deve essere pertanto cassata limitatamente a tale capo; non essendo necessari ulteriori accertamenti di fatto sul punto, devono essere dichiarate non
dovute da parte della società le spese di lite in favore di controparte del precedente giudizio di Cassazione concluso con cassazione con rinvio;
30. tenuto conto dell’esito complessivo del giudizio (compreso quello di legittimità, che ha visto sostanzialmente vittorioso il controricorrente), parte ricorrente deve essere condannata alla rifusione in favore di parte controricorrente di due terzi delle spese del presente giudizio, liquidate per l’intero come da dispositivo, con compensazione tra le parti del residuo terzo;
P.Q.M.
La Corte rigetta i primi sei motivi di ricorso; accoglie il settimo; cassa la sentenza impugnata in relazione al motivo accolto, e, decidendo nel merito, dichiara non dovute le spese del giudizio rescindente di cui all’ordinanza n. 15400/2020, come liquidate dal giudice del rinvio nella sentenza qui impugnata; condanna parte ricorrente alla rifusione di 2/3 delle spese del presente giudizio, che liquida per l’intero in € 6.000 per compensi, € 200 per esborsi, spese generali al 15%, accessori di legge, compensando il residuo.
Così deciso in Roma, nell’Adunanza camerale del 5 giugno 2024.