Ordinanza di Cassazione Civile Sez. L Num. 21527 Anno 2024
Civile Ord. Sez. L Num. 21527 Anno 2024
Presidente: COGNOME NOME
Relatore: COGNOME NOME
Data pubblicazione: 31/07/2024
ORDINANZA
sul ricorso 26934-2019 proposto da:
COGNOME NOME, elettivamente domiciliato in ROMA, INDIRIZZO, presso lo studio dell’AVV_NOTAIO, che lo rappresenta e difende;
– ricorrente –
contro
RAGIONE_SOCIALE, in persona del Sindaco pro tempore, elettivamente domiciliato in ROMAINDIRIZZO INDIRIZZO, presso lo studio dell’AVV_NOTAIO NOME AVV_NOTAIO, rappresentato e difeso dall’AVV_NOTAIO NOME COGNOME;
– controricorrente –
avverso la sentenza n. 1043/2019 della CORTE D’APPELLO di ROMA, depositata il 06/03/2019 R.G.N. 5741/2014;
Oggetto
Impiego pubblico
R.G.N. NUMERO_DOCUMENTO2019
COGNOME.
Rep.
Ud. 18 e 27/06/2024
CC
udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del 18 e 27 giugno 2024 dal AVV_NOTAIO NOME COGNOME.
SVOLGIMENTO DEL PROCESSO
1. La Corte d’Appello di Roma, con la sentenza n. 1043 del 2019, in parziale riforma della sentenza resa tra le parti dal Tribunale di Latina, ha condannato il Comune di Castelforte (così corretto il nome dell’appellato con provvedimento di correzione di errore materiale del 4 luglio 2019) al risarcimento del danno in favore di COGNOME NOME, da quantificare in complessivi 29.000 euro, oltre rivalutazione monetaria ed interessi legali dalla presente sentenza al soddisfo, da calcolare con divieto di cumul o secondo il combinato disposto dell’ art. 16, comma 6, della legge n. 412 del 1991 e dell’art. 22, comma 36, della legge n. 724 del 1994.
2. Il lavoratore, dipendente del suddetto Comune con inquadramento D, posizione D5, ha agito in giudizio per sentire, previa disapplicazione della delibera della Giunta comunale n. 169 del 2006, dichiarare il proprio diritto a ricoprire il posto apicale di responsabile di Area, e ad essere reintegrato nelle mansioni di responsabile dell’Area economico -finanziaria, in subordine in quella di responsabile dell’Area amministrativo -contabile, con condanna del Comune alla reintegra e al pagamento delle conseguenti differenze retributive anche per progressione economica orizzontale dalla posizione D5 alla D6, e al pagamento del risarcimento del danno patrimoniale per la mancata corresponsione dal 9 febbraio 2006 dell’indennità di posizione e di quella di risultato.
Chiedeva ordinarsi al Comune la cessazione della condotta di mobbing e il risarcimento del danno morale professionale e all’immagine conseguente al demansionamento e del danno biologico conseguente alla condotta dell’Ente.
La Corte d’Appello ha rilevato che, in mancanza di impugnazione, si è formato giudicato interno sulla statuizione di difetto di giurisdizione del giudice ordinario, sussistendo la giurisdizione del giudice amministrativo, pronunciata dal Tribunale sulle domande inerenti all’attribuzione delle mansioni di responsabile dell’Area economico finanziaria o, in subordine, di quelle di responsabile dell’Area amministrativo contabile, e su quelle, nella prospettiva stessa del lavoratore consequenziali, di condanna del Comune alla reintegra e al pagamento delle conseguenti differenze retributive da omessa corresponsione dell’indennità di risultato e di quella di posizione.
La Corte d’Appello ha rigettato la domanda sulla progressione economica, in quanto derivante dalla condotta del Comune e dall’adozione della delibera n.169 del 2006, rispetto al cui esame, ha affermato essersi verificato giudicato interno sulla giurisdizione.
Il giudice di secondo ha accolto la domanda inerente al demansionamento, con condanna al risarcimento del danno alla dignità professionale quantificato in euro 29.000. Ha rigettato la domanda di risarcimento del danno biologico connesso al mobbing, in manc anza dell’elemento persecutorio.
Per la cassazione della sentenza di appello ricorre il lavoratore prospettando quattro motivi di ricorso.
Resiste il Comune di Castelforte con controricorso.
La trattazione del ricorso è stata fissata in camera di consiglio, a norma degli artt. 375, secondo comma, e 380-bis.1, c.p.c.
L’adunanza camerale si è svolta in data 18 giugno 2024 e, a seguito della sospensione di tutte le attività disposta dal Presidente Aggiunto della Corte a causa della situazione verificatasi nel palazzo della Corte di cassazione, è proseguita in data 27 giugno 2024 come da provvedimento del Presidente in data 19 giugno 2024.
RAGIONI DELLA DECISIONE
Con il primo motivo di ricorso è dedotta la violazione e falsa applicazione dell’art. 434 , c.p.c., e dell’art. 12 , c.p.c., in relazione all’art. 2909 c.c.: in ordine alla riedizione della questione di giurisdizione definita con efficacia di giudicato ai sensi dell’art. 2909 c.c.
Il ricorrente assume l’erroneità della statuizione di formazione di giudicato interno sulla giurisdizione, perché erroneamente il giudice del gravame non ha ritenuto che l’ appello fosse esteso a tutte le domande in ordine alle quali il giudice di primo grado erroneamente non aveva pronunciato dichiarando il proprio difetto di giurisdizione.
1.1. Il motivo contesta il mancato esame dell’appello relativo alle domande per la dedotta illegittima rimozione dalla posizione di responsabile dell’Area economico -finanziaria, che erroneamente il giudice di appello ha affermato essere precluso dal giudicato interno formatosi sulla dichiarazione di difetto di giurisdizione effettuata dal Tribunale.
È implicita nel motivo di appello la devoluzione della questione di giurisdizione.
Il motivo è fondato e va accolto.
Il Collegio è delegato a trattare la questione di giurisdizione in virtù del Decreto del Primo Presidente in data 10 settembre 2018 in quanto essa rientra, nell ‘ ambito delle materie di competenza della sezione lavoro, tra le questioni indicate nel richiamato Decreto sulle quali si è consolidata la giurisprudenza delle Sezioni Unite di questa Corte.
In linea generale, il d.lgs. n. 165 del 2001, art. 63, comma 1, devolve al giudice ordinario, in funzione di giudice del lavoro, ‘tutte’ le controversie relative ai rapporti di lavoro alle dipendenze delle Pubbliche Amministrazioni indicate nell’articolo 1, comma 2, dello stesso d.lgs. per ogni fase dei rapporti stessi, ‘incluse le controversie concernenti l’assunzione al lavoro, il conferimento e la revoca degli incarichi dirigenziali’, senza che abbia alcuna incidenza sulla giurisdizione del giudice ordinario la circostanza che nel giudizio vengano in questione ‘atti amministrativi presupposti’, che se riconosciuti illegittimi possono essere disapplicati (fra le tante: Cass. SU, n. 3677 del 2009; Cass. SU, n. 15276 del 2017).
Come questa Corte ha già avuto modo di precisare (Cass., S.U., n. 32625 del 2018, si v. anche Cass., n. 7218 del 2020) in tema di pubblico impiego privatizzato, la controversia relativa ad una pretesa attinente ad un rapporto di lavoro, che riguardi quindi un diritto soggettivo, rispetto alla quale un atto amministrativo di organizzazione, di cui si contesti la legittimità, costituisca un mero atto presupposto, appartiene
alla giurisdizione del giudice ordinario, rilevando a tali fini il ” petitum ” sostanziale che va individuato sulla base delle caratteristiche del rapporto dedotto in giudizio (fattispecie in cui il ricorrente aveva impugnato la revoca di un incarico dirigenziale lamentando l’illegittima soppressione del dipartimento cui era preposto).
Il provvedimento di revoca dell’incarico costituisce atto di natura privatistica, di micro-organizzazione, riguardando la gestione del rapporto di lavoro del dipendente con la PRAGIONE_SOCIALE., assunto in costanza di rapporto, da devolvere alla giurisdizione ordinaria ancorché venga in questione un atto amministrativo presupposto ai sensi dell’art 63, comma 1, d.lgs. 165/2001, che il giudice ordinario può disapplicare. In proposito occorre ricordare che la disapplicazione da parte del giudice ordinario è un potere interno alla giurisdizione ordinaria e richiede un collegamento con l’atto amministrativo in termini di presupposto della posizione giuridica di diritto soggettivo per cui è causa. La questione della possibilità o meno della disapplicazione non somministra una questione di giurisdizione, ma si concreta in una questione di merito interna alla giurisdizione del giudice ordinario (Cass., SU, n. 28053 del 2018).
Occorre quindi considerare che, in tema di appello, la mancata impugnazione di una o più affermazioni contenute nella sentenza di primo grado può dare luogo alla formazione del giudicato interno soltanto se le stesse siano configurabili come capi completamente autonomi, risolutivi di questioni controverse che, dotate di propria individualità ed autonomia,
integrino una decisione del tutto indipendente, e non anche quando si tratti di mere argomentazioni, oppure della valutazione di presupposti necessari di fatto che, unitamente agli altri, concorrano a formare un capo unico della decisione (Cass., n. 40276 del 2021, n. 20951 del 2022).
Nella specie, il ricorrente ha agito in giudizio per far valere il diritto a mantenere l’incarico di responsabile di Area economico-finanziaria, venuto meno per la prospettata illegittimità della riorganizzazione disposta con la delibera comunale n. 169 del 2006, provvedimento che, dunque, viene in considerazione solo quale presupposto della gestione del rapporto giuridico e non già quale oggetto diretto ed immediato della pretesa fatta valere in giudizio.
Pertanto, l’impugnazione dell’omessa pronuncia sulla domanda di accertamento dell’illegittimità della revoca e delle domande conseguenti, ha investito anche l’erronea statuizione di difetto di giurisdizione del giudice ordinario, priva di una sua autonomi e da ritenere implicitamente formulata perché in rapporto di connessione con il ‘ petitum ‘ e la ‘ causa petend ‘. È, quindi, da escludere che su tale ultima statuizione si sia formato giudicato interno (vedi, per tutte: Cass. n. 3012 del 2010, n. 7322 del 2019).
Con il secondo motivo di ricorso è dedotta la violazione e falsa applicazione dell’art. 2087 , c.c., e dell’art. 52 d.lgs. 165/2001 (art. 360, n.3, cpc).
È impugnata la decisione relativa al mancato riconoscimento del danno biologico, in quanto lo stesso poteva
essere riconosciuto anche a seguito dall’accertamento del demansionamento, non rilevando il mobbing.
Con il terzo motivo di ricorso è dedotto il vizio di omesso esame della consulenza medico legale agli effetti del chiesto danno biologico, motivazione apparente e disancorata dalle risultanze istruttorie.
La sentenza di appello è censurata per non aver considerato la consulenza medico-legale acquisita nel giudizio di primo grado (art.360, n. 5, c.p.c.).
Con il quarto motivo di ricorso è illustrata la violazione degli artt. 112 e 414, cod. proc. civ. (art. 360, n. 4, cod. proc. civ.), erronea interpretazione della domanda introduttiva del giudizio ed omessa pronuncia su tutta la domanda relativa al risarcimento del danno biologico, con violazione degli artt. 112 e 414, cpc (art. 360, n.4, cpc).
La Corte d’Appello avrebbe dovuto interpretare la domanda estendendo la richiesta di risarcimento del danno biologico anche al demansionamento. In ogni caso nelle conclusioni di primo grado, lett. j), il risarcimento del danno biologico era stato chiesto anche per il mobbing
La sentenza di appello, ai fini dell’accertamento e del risarcimento del danno biologico, ha omesso l’es ame della consulenza medico legale acquisita nel giudizio di primo grado di cui non ha conto in motivazione.
I suddetti motivi vanno trattati congiuntamente in ragione della loro connessione.
Gli stessi non sono fondati.
Occorre premettere che la Corte d’Appello ha riconosciuto al lavoratore, in ragione del demansionamento, il danno alla dignità professionale nella misura di euro 29.000 (50% di euro 2.000,00 per 29 mesi).
La Corte d’Appello ha quindi affermato che non si era raggiunta la prova in ordine agli ulteriori danni lamentati con specifico riferimento al demansionamento. Il lavoratore non aveva offerto alcuna specifica prova in ordine a un pregiudicato provocato sul suo fare aredittuale
La Corte d’Appello ha precisato che i pregiudizi di tipo esistenziale attengono al fare reddituale e anche tale profilo di danno va provato, non facendo riferimento a mere formule generiche e standardizzate, ma fornendo indicazioni e la relativa prova, anche per mezzo di presunzioni, in ordine aspecifici episodi indicativi della concerta, significativa alterazione delle abitudini di vita, oggettivamente accertabile con riferimento al caso specifico. Ha concluso, quindi, che non poteva operare una valutazione equitativa del danno in mancanza di parametri oggettivi cui ancorarsi.
La Corte d’Appello ha accertato che non era configurabile mobbing lavorativo, e ha quindi affermato l’infondatezza della domanda di risarcimento del danno biologico, specificando che la stessa era stata espressamente ed esclusivamente riferita al comportamento asseritamente mobbizzante del datore di lavoro e ha richiamato in proposito le conclusioni del ricorso in appello.
Ed infatti, il giudice di appello ha precisato che la domanda di risarcimento del danno biologico era stata espressamente ed esclusivamente riferita al comportamento asseritamente
mobbizzante del datore di lavoro (la sentenza richiama anche la chiara distinzione capi f e g delle conclusioni del ricorso in appello, ed ultimo paragrafo a pag. 32 del ricorso di primo grado)
Quindi, la ratio decidendi della sentenza di appello si incentra sulla mancanza di prova ‘in ordine agli ulteriori danni lamentati con specifico riguardo al demansionamento’, alla quale si aggiunge la statuizione che la domanda di risarcimento del danno biologico ha riguardato solo mobbing.
Come questa Corte ha già avuto modo di affermare in tema di risarcimento del danno non patrimoniale derivante da demansionamento e dequalificazione, il riconoscimento del diritto del lavoratore al risarcimento del danno professionale, biologico o esistenziale, non ricorre automaticamente in tutti i casi di inadempimento datoriale e non può prescindere da una specifica allegazione, nel ricorso introduttivo del giudizio, dell’esistenza di un pregiudizio (di natura non meramente emotiva ed interiore, ma oggettivamente accertabile) provocato sul fare reddituale del soggetto, che alteri le sue abitudini e gli assetti relazionali propri, inducendolo a scelte di vita diverse quanto all’espressione e realizzazione della sua personalità nel mondo esterno. Tale pregiudizio non si pone quale conseguenza automatica di ogni comportamento illegittimo rientrante nella suindicata categoria, cosicché non è sufficiente dimostrare la mera potenzialità lesiva della condotta datoriale, incombendo sul lavoratore non solo di allegare il demansionamento ma anche di fornire la prova ex art. 2697 c.c. del danno non
patrimoniale e del nesso di causalità con l’inadempimento datoriale (Cass., n. 29047 del 2017).
Le statuizioni della Corte d’Appello, che hanno fatto corretta applicazione dei suddetti principi, non sono adeguatamente censurate, in quanto la CTU svolta in primo grado, e che viene indicata dal ricorrente come prova del danno biologico da demansionamento, per come riportata in stralcio nello stesso ricorso, non offre argomenti per contrastare l’accertamento del giudice di secondo grado della mancanza di prova degli ulteriori danni da demansionamento.
Il CTU, come si legge nello stralcio della consulenza tecnica d’ufficio di primo grado riportato nel ricorso, afferma che spettava alla valutazione del Giudice stabilire se le difficoltà insorte nell’ambiente di lavoro deriv assero da situazioni quali il demansionamento, ovvero da dinamiche psicologicherelazionali, ovvero da comportamenti da parte di terzi.
Occorre inoltre considerare quanto segue.
Il ricorrente, pur dolendosi del mancato riferimento alla CTU nella sentenza di appello, non deduce di avere appellato con specifico riferimento alla CTU svolta in primo grado, la sentenza di primo grado laddove le domande erano state rigettate anche quanto al risarcimento del danno professionale, morale ed all’immagine conseguente al demansionamento e del danno biologico conseguente alla condotta del l’ente (si v. pag. 3 della sentenza di appello, e la lettera j delle conclusioni di primo grado riportate nel ricorso).
Il ricorrente non smentisce di avere rassegnato le conclusioni capi f ) e g ) del ricorso in appello richiamate dal
giudice di secondo grado, ma vi contrappone solo le conclusioni rassegnate in primo grado (richiama la lettera j pag. 3 del ricorso introduttivo del ricorso, v. pag. 34 del ricorso in cui sono riportate), peraltro sul punto generiche limitandosi a chiedere il risarcimento del danno anche biologico subito in conseguenza delle condotte dell’Ente, in relazione ai pos tumi invalidanti da determinarsi in corso di causa mediante CTU, domanda che è stata rigettata in primo grado.
6. In ragione di quanto sopra esposto, la Corte accoglie il primo motivo di ricorso. Rigetta gli altri motivi.
La sentenza impugnata va cassata in ordine al primo motivo di ricorso accolto, con rinvio al Tribunale di Latina in diversa composizione anche per le spese del presente giudizio, vertendosi in tema di violazione del principio di ordine pubblico del doppio grado di giurisdizione, senza che in ciò possa ravvisarsi una lesione della ragionevole durata del processo (Cass., S.U., n. 20592 del 2022).
PQM
La Corte accoglie il primo motivo di ricorso. Rigetta gli altri motivi. Cassa la sentenza impugnata in ordine al motivo di ricorso accolto e rinvia al Tribunale di Latina in diversa composizione anche per le spese del presente giudizio di cassazione.
Così deciso in Roma, nella camera di consiglio della