Ordinanza di Cassazione Civile Sez. 1 Num. 17185 Anno 2025
Civile Ord. Sez. 1 Num. 17185 Anno 2025
Presidente: NOME
Relatore: COGNOME
Data pubblicazione: 26/06/2025
ORDINANZA
sul ricorso 14324/2024 proposto da:
RAGIONE_SOCIALE in persona del legale rappres. p.t., rappresentata e difesa dall’avv. NOME COGNOME per procura speciale in atti;
-ricorrente-
-contro-
ROMA COGNOME, in persona del legale rappres. p.t, rappres. e difesa dall’avv. NOME COGNOME per procura speciale in atti;
-controricorrente-
avverso la sentenza resa dalla Corte di Appello di Roma n° 7985/23 pubblicata in data 12/12/2023;
udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del 16.05.2025 dal Cons. rel., dott. NOME COGNOME
RILEVATO CHE
Con atto di citazione notificato in data 29/7/2009 la RAGIONE_SOCIALE riassumeva innanzi al Tribunale di Roma il giudizio incardinato avanti alla Commissione Tributaria Provinciale di Roma nel quale erano stati impugnati vari avvisi di accertamento dell’indennità d’occupazione di suolo pubblico, a seguito della sentenza n° 161/30/09 con la quale la stessa Commissione aveva dichiarato la sussistenza della giurisdizione in materia da parte del giudice ordinario.
La società aveva contestato la richiesta di pagamento avanzata con gli avvisi a titolo di indennità di occupazione di fatto del suolo pubblico per avere installato impianti pubblicitari nel 2002 senza autorizzazione, rilevando l’illegittimità della pretesa comunale e l’erroneità degli avvisi eccependo, in via preliminare, la decadenza del Comune dal potere di pretendere il pagamento richiesto ai sensi dell’art. 10 D.Lgs 507/93 , e rilevando la carenza di motivazione degli avvisi e la loro indeterminatezza circa i conteggi eseguiti.
In particolare, la società lamentava la carenza di potere del Comune a richiedere l’indennità poiché gli impianti oggetto di accertamento erano soggetti alla procedura di riordino di cui alla D.C.C. 254/95 e per gli stessi era stato versato il canone nei termini previsti, ed eccepiva altresì che gli stessi avevano una proiezione al suolo inferiore a metri 0,50 per cui non erano soggetti al pagamento del cosap come stabilito dalla delibera comunale 339/98, contestando poi l’illegittimità della pretesa comunale poiché eseguita attraverso una quantificazione unilaterale del quantum in difetto assoluto di potere.
La RAGIONE_SOCIALE chiedeva altresì la disapplicazione dell’art. 27 comma 7 Regolamento AA.PP. in virtù del quale il Comune aveva richiesto il pagamento della suddetta indennità, predeterminandone l’ammontare,
in quanto norma emanata contra legem che non trovava fondamento in una fonte legislativa di rango superiore ed esulava dal potere di normazione secondaria attribuito agli enti locali, da esercitarsi nei limiti ed alle condizioni ad essi attribuiti, rilevando poi l’illegittimità della richiesta di pagamento dell’indennità di cui agli avvisi di accertamento in quanto calcolata dal 1/1/02 al 31/12/02, atteso che in materia di indennità il momento di decorrenza per la quantificazione va identificato in modo esclusivo nel momento dell’accertamento dell’installazione del singolo impianto e non può essere calcolata sull’intero anno solare.
In data 27/10 – 2/11/10 veniva emessa la sentenza n° 21206 con la quale veniva parzialmente accolta dal Tribunale la domanda della RAGIONE_SOCIALE con declaratoria di pagamento del canone degli avvisi di accertamento oltre interessi al tasso legale, detratta la maggiorazione e con decurtazione del 30% e delle sanzioni per gli impianti inseriti nel riordino, con compensazione delle spese del giudizio.
Con sentenza emessa in data 8/6-9/6/2016, la Corte territoriale rigettava l’appello della società, e accoglieva l’appello incidentale del Comune con condanna della società appellante al pagamento delle spese dei due gradi di giudizio.
La Corte di Cassazione, con ordinanza n°3040 del 8/2/2023, in accoglimento del ricorso della RAGIONE_SOCIALE, cassava con rinvio la suddetta sentenza di secondo grado, rimettendo alla Corte di Appello di Roma, osservando che: ” La decisione impugnata risulta in definitiva errata avendo omesso di considerare, per l’un verso ed in termini generali, che la lite verteva sulla pretesa di ristoro connessa ad un fatto illecito idoneo a produrre effetti unicamente da quando è stato commesso e provato e, per altro verso avendo trascurato il completo quadro normativo -primario e secondario -di riferimento. Se ciò avesse fatto,
il giudice di appello non avrebbe potuto tralasciare di considerare che era pur sempre necessario acclarare il carattere “stabile” o precario della installazione e soprattutto la durata della stessa, per di più risultando che l’entità del canone era destinata a ripercuotersi anche sulla sanzione di cui all’art. 63, lett. g-bis) commisurata alla somma di cui alla precedente lett.g). ‘ed enunciato il principio di diritto rimetteva alla Corte di Appello anche ai fini della liquidazione delle spese della fase di legittimità ‘.
La RAGIONE_SOCIALE riassumeva il giudizio avanti alla Corte di Appello, a norma dell’ art. 394 cpc , riportandosi all’atto introduttivo del giudizio. Con sentenza in data 12/12/2023, la Corte di Appello dichiarava inammissibile la domanda proposta dalla RAGIONE_SOCIALE con condanna alle spese del giudizio e di quello di cassazione, osservando che: ‘ il motivo di gravame proposto con l’atto di citazione in appello non atteneva alla contestazione circa la dovutezza della pretesa impositiva (bensì alla sola quantificazione della stessa (quantum). L’accoglimento parziale del motivo di gravame ha riguardato, dunque, un omesso pronunciamento da parte di questa Corte di Appello e l’atto di riassunzione ex art. 392 c.p.c. notificato dalla RAGIONE_SOCIALE nel postulare la riforma della pronuncia del primo grado, non appare idoneo al perseguimento dello scopo a cui l’introduzione del presente giudizio dovrebbe essere funzionale, in aderenza al principio di diritto sancito dalla Suprema Corte. Il petitum dell’atto di riassunzione confligge, infatti, con gli stringenti limiti del giudizio rescissorio. La RAGIONE_SOCIALE ha riassunto il giudizio senza però rispettare il principio di diritto espresso dalla Suprema Corte con l’ordinanza n. 3040 dell’8.2.2023, chiedendo a questa Corte di Appello, quale giudice di rinvio, in riforma della sentenza n. 21206/2011 emessa dal Tribunale di Roma, di accertare e dichiarare non dovute dalla stessa le somme portate dagli avvisi di accertamento opposti come
elencati in atto di citazione di primo grado perché illegittimamente formati in osservanza al principio di diritto emanato dalla Corte. Peraltro, la modalità con cui è confezionato l’atto introduttivo, mediante un vero e proprio taglia/incolla in cui all’originario atto di citazione in appello avverso la sentenza n. 21 206/201 1 emessa dal Tribunale di Roma, in composizione monocratica, il 2.1 1201 1 è stata premessa l’intestazione e, quindi, dato atto dell’avvenuta cassazione della sentenza n. 4390/2016 emessa il 9.7.2016 da questa Corte e del principio di diritto affermato dalla Suprema Corte, vengono rassegnate le conclusioni sopra riportate. Senza dunque declinare tale principio nel presente giudizio in termini di allegazioni, seppure già effettuate, o deduzioni in ordine alle conseguenze, nel caso in esame, del principio in questione e della conseguente decisione richiesta in aderenza a tale principio, svolgendo invece -come si è detto -delle conclusioni del tutto inconferenti sia con quanto statuito dalla Suprema Corte sia con quanto è stato oggetto del giudizio di appello innanzi a questa Corte “.
La società ricorre in cassazione, avverso la suddetta sentenza emessa nel giudizio di rinvio, con due motivi. Roma capitale resiste con controricorso.
RITENUTO CHE
Il primo motivo deduce difetto di motivazione, motivazione apparente e violazione degli artt. 392 e 394 c.p.c., 111 Costituzione in relazione all’art. 360 n. 4 c.p.c., avendo la ricorrente, in aderenza al disposto della norma, riportato nel proprio atto di riassunzione testualmente l’atto di appello.
Al riguardo, la ricorrente lamenta che il giudice del merito avrebbe potuto emettere una statuizione di inammissibilità dei motivi di appello non facenti parte della disposizione di rinvio, ma certo aveva il dovere di rendere una decisione nel merito e vagliare la fattispecie, ed assume
altresì che l’atto di riassunzione predisposto dalla ricorrente era, di per sé, sufficiente a ricollocare le parti nella posizione che avevano assunto nel giudizio conclusosi con la sentenza annullata, con la conseguenza che la domanda originaria si intendeva riproposta e su questa doveva provvedere il giudice di rinvio.
Pertanto, la ricorrente chiede che la Corte affermi che la Corte d’appello aveva il dovere di applicare il principio di diritto affermato e statuire in merito alla conformità a diritto dell’indennità richiesta con gli avvisi di accertamento a fronte della censura sollevata circa le somme ingiunte. Il secondo motivo deduce difetto di motivazione e violazione degli artt.
91 e 92 c.p.c., 111 Costituzione in relazione all’art. 360 c.p.c.. per avere la Corte d’appello condannato la ricorrente alle spese del giudizio ed anche a quelle della fase tenutasi avanti al giudice di legittimità.
Il primo motivo è infondato.
Il punto della decisione impugnata investito dalla doglianza in esame afferma che ‘ il petitum dell’atto di riassunzione confligge, infatti, con gli stringenti limiti del giudizio rescissorio ‘, data ‘ la modalità con cui è confezionato l’atto introduttivo, mediante un vero e proprio taglia/incolla in cui all’originario atto di citazione in appello … il motivo di gravame proposto con l’atto di citazione in appello non atteneva alla contestazione circa la dovutezza della pretesa impositiva bensì alla sola quantificazione della stessa ” .
In sostanza, nell’atto di riassunzione la società ricorrente ha riportato l’intero contenuto dell’atto di appello, senza cioè limitare la riassunzione alla questione oggetto del rinvio, in ordine al mancato accertamento del carattere “stabile” o precario della installazione e soprattutto della durata della stessa, fattori incidenti sull’ammontare del cosap.
In tema di giudizio di rinvio prosecutorio, la riassunzione, anche ad opera di una sola delle parti, ponendo le stesse nella medesima posizione originaria, impone al giudice del rinvio di decidere la controversia sulla base delle conclusioni già formulate nelle precedenti fasi di merito, sicché, fatta salva l’ipotesi di un eventuale giudicato interno, egli è chiamato, anche nella contumacia di una delle parti, a pronunciarsi su tutte le domande ed eccezioni di merito a suo tempo proposte, a prescindere dalla loro formale ed espressa riproposizione (Cass., n. 12065/2024; n. 30184/2018).
Come chiarito da Cass. n. 23073/2014, nel giudizio di rinvio le parti conservano la stessa posizione processuale assunta nel procedimento in cui fu pronunciata la sentenza annullata, ed ogni riferimento a domande ed eccezioni pregresse, nonché, in genere, alle difese svolte, ha l’effetto di richiamare univocamente ed integralmente domande, eccezioni e difese già spiegate nel giudizio originario, sicché, per la validità dell’atto riassuntivo, non è indispensabile che in esso siano riprodotte tutte le domande della parte in modo specifico, ma è sufficiente che sia richiamato – senza necessità di integrale e testuale riproduzione – l’atto introduttivo in base al quale sia determinabile “per relationem” il contenuto dell’atto di riassunzione, nonché il provvedimento in forza del quale è avvenuta la riassunzione medesima. Ne consegue, inoltre, che il giudice innanzi al quale sia stato riassunto il processo non incorre nel vizio di ultrapetizione quando abbia pronunciato su tutta la domanda proposta nel giudizio in cui fu emessa la sentenza annullata, e non sulle sole diverse conclusioni formulate con l’atto di riassunzione, atteso che, a seguito della riassunzione, prosegue il processo originario.
Nella specie, va anzitutto osservato che la doglianza è circoscritta all’omessa pronuncia, in relazione ad un’asserita motivazione apparente,
ma la Corte territoriale ha ampiamente e chiaramente argomentato sul fatto che nell’atto di riassunzione era stata formulata una richiesta difforme dall’oggetto del rinvio della Corte di Cassazione e dal relativo motivo di principio formulato, essendo al riguardo irrilevante che l’atto di riassunzione abbia riportato l’atto introduttivo e il provvedimento della Cassazione.
La Corte di merito ha evidenziato che in sede di rinvio la stessa ricorrente aveva chiesto che fosse accertato che nulla fosse dovuto a titolo di sanzioni per l’illecita occupazione di suolo pubblico a mezzo di installazioni pubblicitarie, quando invece sarebbe stato compito del giudice del rinvio determinare l’entità della sanzione in relazione all’effettiva durata della condotta illecita.
Le spese seguono la soccombenza.
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso e condanna la parte ricorrente al pagamento, in favore della parte controricorrente, delle spese del giudizio che liquida nella somma di euro 4.400,00 di cui 200,00 per esborsi, oltre alla maggiorazione del 15% per rimborso forfettario delle spese generali, iva ed accessori di legge.
Ai sensi dell’art. 13, comma 1 -quater , del d.p.r. n.115/02, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso principale, a norma del comma 1 bis dello stesso articolo 13, ove dovuto.
Così deciso nella camera di consiglio della I Sezione civile il 16 maggio