Ordinanza di Cassazione Civile Sez. 1 Num. 15052 Anno 2024
Civile Ord. Sez. 1 Num. 15052 Anno 2024
Presidente: COGNOME NOME
Relatore: COGNOME NOME
Data pubblicazione: 29/05/2024
ORDINANZA
sul ricorso n. 4756/2020 r.g. proposto da:
NOME NOME, rappresentato e difeso, congiuntamente e disgiuntamente dall’AVV_NOTAIO, giusta procura alle liti rilasciata a margine del ricorso, e dall’AVV_NOTAIO COGNOME, giusta procura speciale rilasciata in calce alla comparsa di costituzione di ulteriore difensore, i quali dichiarano di voler ricevere eventuali comunicazioni notifiche all’indirizzo di posta elettroni ca certificata indicato
-ricorrente –
contro
RAGIONE_SOCIALE di RAGIONE_SOCIALERAGIONE_SOCIALE, in persona dell’ordinario diocesano, AVV_NOTAIO, rappresentato e difeso dall’AVV_NOTAIO,
giusta procura speciale in calce al controricorso, il quale dichiara di voler ricevere le comunicazioni di cancelleria all’indirizzo pec indicato.
-controricorrente –
E
RAGIONE_SOCIALE, ora RAGIONE_SOCIALE RAGIONE_SOCIALE, in persona del legale rappresentante pro tempore,
-intimata –
avverso la sentenza della Corte di appello di Campobasso n. 243/2019, depositata in data 2 luglio 2019;
udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del 24/4/2024 dal AVV_NOTAIO COGNOMEAVV_NOTAIO;
RILEVATO CHE:
RAGIONE_SOCIALE proponeva atto di citazione nei confronti di NOME COGNOME e della RAGIONE_SOCIALE RAGIONE_SOCIALE deducendo che i responsabili dell’ufficio dell’economato dell’ente ecclesiastico avevano rilevato che, nell’estratto conto mensile inviato dalla RAGIONE_SOCIALE Popolare di Ancona, filiale di RAGIONE_SOCIALE -presso cui era acceso un conto corrente intestato a tale ente – vi era un’operazione di prelevamento del 10 febbraio 2004, a mezzo assegno bancario n. 550 07 79 057, dell’importo di euro 140.000,00.
In particolare, tale assegno era stato portato all’incasso presso la RAGIONE_SOCIALE RAGIONE_SOCIALE, filiale di RAGIONE_SOCIALE, da NOME COGNOME, in qualità di imprenditore.
Il AVV_NOTAIO rilevava che la firma «NOME», apposta sull’assegno, era visibilmente contraffatta e il NOME, alla presenza di NOME NOME COGNOME, «ammetteva di essersi furtivamente impossessato del carnet di assegni e di aver proceduto
all’incasso della somma di cui è causa trovandosi in difficoltà economiche, a suo dire, momentanee».
Pertanto, la RAGIONE_SOCIALE chiedeva accertarsi che la firma apposta sull’assegno era apocrifa, non essendo riconducibile a quella di AVV_NOTAIO, con il conseguente accertamento che il NOME si era illegittimamente appropriato della somma di euro 140.000,00 e la condanna della RAGIONE_SOCIALE RAGIONE_SOCIALE che aveva posto in essere un comportamento illecito per mancata vigilanza.
Nelle more del processo la RAGIONE_SOCIALE e la RAGIONE_SOCIALE Popolare di Ancona trovavano un accordo, sicché la banca si accollava parte delle responsabilità anche economiche dell’accaduto, lasciando in capo all’ente ecclesiastico una perdita di euro 82.000,00.
Sempre nelle more del processo civile il tribunale di RAGIONE_SOCIALE, sezione penale, emetteva nei confronti del NOME sentenza assolutoria, ma con formula dubitativa, ex art. 530, secondo comma, c.p.p., in relazione ai reati di cui agli articoli 81,485 e 640 c.p.
Il tribunale di RAGIONE_SOCIALE, per quel che qui ancora rileva, riconosceva che il NOME «aveva sottoscritto l’assegno con la presunta firma del vescovo utilizzandolo, poi, per estinguere una posizione debitoria aperta presso la filiale della RAGIONE_SOCIALE RAGIONE_SOCIALE».
La Corte d’appello di Campobasso accoglieva il gravame del COGNOME, esclusivamente con riferimento al quantum , ridotto da euro 140.000,00 ad euro 82.000,00.
In particolare, la Corte territoriale evidenziava che la sentenza penale del tribunale di RAGIONE_SOCIALE n. 235 del 2012 era divenuta irrevocabile e che dalla perizia grafica, svolta in sede penale, era stata esclusa l’attribuibilità della sottoscrizione ad NOME COGNOME, sicché era stato riconosciuto «il ragionevole dubbio che la falsificazione potesse essere opera dell’imputato NOME».
Pertanto, l’efficacia di giudicato ex art. 652 c.p.p., riguardava esclusivamente l’esclusione del COGNOME «quale autore della falsificazione della sottoscrizione di traenza», ma la pronuncia penale doveva essere letta nella sua interezza, laddove si affermava che «è indubbio come sotto il profilo materiale il NOME abbia utilizzato quell’assegno allo scopo di coprire degli scoperti personali sul proprio conto».
Indicava, allo scopo, le deposizioni: del direttore della filiale della RAGIONE_SOCIALE RAGIONE_SOCIALE, COGNOME, il quale aveva riferito che il COGNOME aveva uno scoperto rilevante e che aveva versato un assegno di euro 140.000,00, dicendo che l’assegno «trovava giustificazione in anticipi su provvigioni per la vendita di terreni per conto della RAGIONE_SOCIALE»; dell’aiuto economo della RAGIONE_SOCIALE, NOME COGNOME, il quale confermava che «il NOME dichiarava di avere uno scoperto di conto corrente disse che aveva urgenza di rientrare dallo scoperto».
Inoltre, il NOME non aveva in alcun modo provato il finanziamento e/o elargizione in favore della famiglia COGNOME, che sarebbe stato oberata dai debiti contratti per la prima attività commerciale.
Avverso tale sentenza ha proposto ricorso per cassazione NOME COGNOME.
Ha resistito con controricorso la RAGIONE_SOCIALE di RAGIONE_SOCIALE–RAGIONE_SOCIALE.
È rimasta intimata la RAGIONE_SOCIALE RAGIONE_SOCIALE sRAGIONE_SOCIALEp.a.
CONSIDERATO CHE:
Con il primo motivo di impugnazione il ricorrente deduce la «omessa motivazione su punto decisivo della causa ex art. 360, primo comma, n. 5, c.p.c., in relazione all’art. 116 c.p.c. per omessa, insufficiente o contraddittoria valutazione dei mezzi istruttori».
In particolare, per il ricorrente poiché al giudizio penale aveva partecipato anche AVV_NOTAIONOME, all’epoca AVV_NOTAIO della RAGIONE_SOCIALE di RAGIONE_SOCIALE–RAGIONE_SOCIALE, che si era costituito parte civile, la Corte d’appello di Campobasso avrebbe dovuto riconoscere l’efficacia vincolante del giudicato penale nel giudizio civile «riformando sul punto la sentenza di primo grado».
L’esito assolutorio del giudizio penale «avrebbe dovuto determinare il rigetto integrale della domanda avanzata dalla RAGIONE_SOCIALE RAGIONE_SOCIALE–RAGIONE_SOCIALE perché inammissibile ed infondata».
La sentenza penale avrebbe determinato «un vincolo assoluto per l’accertamento dei fatti oggettivi, relativi alle circostanze materiali accertate nel giudizio penale».
La Corte d’appello avrebbe omesso ogni valutazione su talune circostanze «acclarate in sede penale»: in particolare, la difesa aveva prodotto la fotocopia di un attestato da cui emergeva l’assunzione di NOME COGNOME.
Inoltre, nella sentenza penale si è affermato che il versamento dell’assegno di euro 140.000,00, era avvenuto da parte del NOME «nell’esercizio di una facoltà legittima rientrando l’azione nelle sue competenze di segretario generale del vescovo, autorizzato ad avere rapporti con le banche, tanto che il direttore di banca, pur a fronte di una somma elevata, non ritenne neanche di avvertire la curia».
Peraltro, le «valutazioni ed interpretazioni delle risultanze documentali e testimoniali» erano «del tutto illogiche e contraddittorie».
Le dichiarazioni riportate nella comparsa di costituzione e risposta di NOME COGNOME non avevano alcun carattere confessorio, anche perché era stato autorizzato dal vescovo a firmare assegni «in vostra assenza».
La Corte d’appello avrebbe omesso la valutazione di prove testimoniali attestanti circostanze a favore del NOME, con riferimento alle dichiarazioni di NOME COGNOME (segretario generale del vescovo), NOME (direttore della filiale della RAGIONE_SOCIALE RAGIONE_SOCIALE di RAGIONE_SOCIALE), NOME COGNOME (per cui il NOME aveva la delega « ad omnia »).
La testimonianza di NOME COGNOME, che aveva riferito che il NOME aveva uno scoperto di conto corrente, non dimostrava l’indebita utilizzazione della somma portata dall’assegno.
La Corte territoriale ha ritenuto erroneamente non comprovato l’utilizzo della somma a favore di una famiglia in difficoltà economica.
La teste COGNOME, in sede di sommarie informazioni, aveva invece riferito che il COGNOME «a titolo di carità mi forniva la somma di circa 130.000,00 euro».
Il motivo è in parte infondato ed in parte inammissibile.
2.1. Il motivo è infondato con riferimento alla asserita sussistenza di un giudicato assolutorio in sede penale che andrebbe ad incidere sul giudizio civile.
Si premette, che il giudicato penale di assoluzione, con la formula dubitativa di cui all’art. 530, secondo comma, c.p.p., non spiega efficacia di giudicato nel giudizio civile di danno ex art. 652 c.p.p. Si è chiarito, infatti, che, in tema di rapporti tra giudizio penale e giudizio civile, la sentenza di assoluzione ha effetto preclusivo nel processo civile (sia ex art. 652 c.p.p. che ex art. 654 c.p.p.) solo nel caso in cui contenga un effettivo e specifico accertamento circa l’insussistenza o del fatto o della partecipazione dell’imputato e non anche nell’ipotesi in cui sia stata pronunciata a norma dell’art. 530, comma 2, c.p.p., per inesistenza di sufficienti elementi di prova circa la commissione del fatto o la sua attribuibilità all’imputato (Cass.,
sez. 2, 21 giugno 2023, n. 17708; Cass., sez. L., 11 febbraio 2011, n. 3376).
Inoltre, si è anche affermato che, in materia di rapporti tra giudizio penale e civile, l’assoluzione dell’imputato secondo la formula “perché il fatto non sussiste” non preclude la possibilità di pervenire, nel giudizio di risarcimento dei danni intentato a carico COGNOME stesso, all’affermazione della sua responsabilità civile, considerato il diverso atteggiarsi, in tale ambito, sia dell’elemento della colpa che delle modalità di accertamento del nesso di causalità di materiale (Cass., sez. 3, 21 aprile 2016, n. 8035).
È sufficiente porre attenzione alla differenza del nesso di causalità materiale, la cui valutazione in sede civile è diversa da quella penale, ove vale il principio dell’elevato grado di credibilità nazionale che è prossimo alla «certezza»; mentre in sede civile vale il criterio del «più probabile che non» (Cass., sez. 3, 16 ottobre 2007, n. 21619; Cass. Sez.U., 11 gennaio 2008, n. 576).
Infatti, il nostro ordinamento non è ispirato al principio dell’unità della giurisdizione e della prevalenza del giudizio penale su quello civile, avendo il legislatore instaurato un sistema di completa autonomia e separazione fra i due giudizi, in virtù del quale è consentito al processo civile, ad eccezione di alcune particolari e limitate ipotesi di sua sospensione ex art. 75, comma 3, c.p.p., di proseguire il suo corso senza essere influenzato da quello penale ed è imposto al giudice civile di procedere ad un autonomo accertamento dei fatti e della responsabilità civile con pienezza di cognizione, senza essere vincolato alle soluzioni e alle qualificazioni del giudice penale, sicché, anche in presenza di un giudicato penale, non ha l’obbligo di esaminare e valutare le prove e le risultanze acquisite nel processo penale come fonte del proprio convincimento (Cass., sez. 2, 30 dicembre 2021, n. 42028).
Tuttavia è possibile che il giudice civile, investito della domanda di risarcimento del danno da reato, ben può utilizzare, senza peraltro averne l’obbligo, come fonte del proprio convincimento le prove raccolte in un giudizio penale definito con sentenza passata in giudicato e fondare la propria decisione su elementi e circostanze già acquisiti con le garanzie di legge in quella sede, essendo in tal caso peraltro tenuto a procedere alla relativa valutazione con pienezza di cognizione al fine di accertare i fatti materiali all’esito del proprio vaglio critico (Cass., sez. 3, 7 maggio 2021, n. 12164).
L’unica accortezza per il giudice civile è quella di procedere alla valutazione di elementi e circostanze già acquisite con le garanzie di legge in sede penale, con pienezza di cognizione al fine di accertare i fatti materiali all’esito del proprio vaglio critico (Cass., sez. 3, 25 giugno 2019, n. 16893).
Vi è, invece, sospensione del giudizio civile, in pendenza di quello penale, soltanto nei casi previsti dall’art. 75, 3° comma, c.p.p. (Cass., sez. 1, 22 giugno 2017, n. 15470), ma non è questo il caso in esame.
Ciò che conta, nella specie, è che il giudicato penale di assoluzione con formula dubitativa non esplica alcuna efficacia vincolante sul giudizio civile, lasciando il giudice civile libero di apprezzare in piena autonomia le risultanze istruttorie.
2.2.Il motivo è inammissibile con riferimento alla richiesta rivolta a questa Corte di riesaminare i fatti di causa, attraverso la deduzione del vizio di motivazione (tra l’altro declinato erroneamente nella formulazione dell’art. 360, primo comma, n. 5, c.p.c., prima delle modifiche di cui al d.l. n. 83 del 2012, convertito in legge n. 134 del 2012).
2.3. Trova, infatti, applicazione l’art. 348ter , comma 4, c.p.c., nella versione vigente ratione temporis , prima della abrogazione
(intervenuta con l’art. 3 del decreto legislativo 10 ottobre 2022, n. 149, applicabile alle sentenze depositate successivamente al 28 febbraio 2023), per il quale, quando l’inammissibilità è fondata sulle stesse ragioni, inerenti alle questioni di fatto, poste a base della decisione impugnata, il ricorso per cassazione di cui al comma precedente può essere proposto esclusivamente per i motivi di cui ai numeri un1), 2), 3) e 4) del primo comma dell’art. 360».
Con la precisazione, al quinto comma dell’art. 348ter c.p.c. che «la disposizione di cui al quarto comma si applica, fuori dei casi di cui all’art. 348bis , secondo comma, lettera a), anche al ricorso per cassazione avverso la sentenza d’appello che conferma la decisione di primo grado».
Nella specie, già il giudice di prime cure, sulla base delle deposizioni testimoniali assunte in sede civile e delle dichiarazioni rese in sede penale, ha ritenuto, da quanto risulta dal controricorso, che «dall’esame degli atti di causa, è emerso che il NOME aveva sottoscritto l’assegno con la presunta firma del COGNOME utilizzandolo, poi, per estinguere una posizione debitoria aperta presso la filiale della RAGIONE_SOCIALE RAGIONE_SOCIALE».
Allo stesso modo, il giudice d’appello, sempre in base alle deposizioni testimoniali rese in sede civile ed alle dichiarazioni assunte in sede penale, ha ritenuto che la sentenza penale andava letta nella sua interezza, laddove lo stesso giudice penale aveva avuto modo di affermare che «è indubbio come sotto il profilo materiale il NOME abbia utilizzato quell’assegno allo scopo di coprire degli scoperti personali sul proprio conto».
L’unica differenza risiede nella circostanza che la somma dovuta a titolo di risarcimento danni è stata limitata a quella di euro 82.000,00, in luogo della somma maggiore di euro 140.000,00,
dovendosi tenere conto della transazione intervenuta tra la RAGIONE_SOCIALE e la RAGIONE_SOCIALE RAGIONE_SOCIALE, per la somma di euro 58.000,00.
È vero che la Corte d’appello ha, poi, arricchito la motivazione, considerando le deposizioni rese dalla teste COGNOME, direttore della RAGIONE_SOCIALE RAGIONE_SOCIALE, il quale ha riferito che «il NOME aveva un conto corrente presso la RAGIONE_SOCIALE RAGIONE_SOCIALE, filiale di RAGIONE_SOCIALE…non ricordo l’ammontare ma posso dire che lo scoperto era rilevante», oltre che dalla teste NOME COGNOME (all’epoca dei fatti aiuto economo della RAGIONE_SOCIALE: «il NOME dichiarava di avere uno scoperto di conto corrente…disse che aveva urgenza di rientrare dallo scoperto » ), ma resta la preclusione fondata sulla «doppia conforme» di cui all’art. 348ter c.p.c.
Ricorre, infatti, l’ipotesi di «doppia conforme», ai sensi dell’art. 348 ter, commi 4 e 5, c.p.c., con conseguente inammissibilità della censura di omesso esame di fatti decisivi ex art. 360, comma 1, n. 5, c.p.c., non solo quando la decisione di secondo grado è interamente corrispondente a quella di primo grado, ma anche quando le due statuizioni siano fondate sul medesimo iter logicoargomentativo in relazione ai fatti principali oggetto della causa, non ostandovi che il giudice di appello abbia aggiunto argomenti ulteriori per rafforzare o precisare la statuizione già assunta dal primo giudice (Cass., 9 marzo 2022, n. 7724).
Peraltro, nell’ipotesi di «doppia conforme» prevista dal quinto comma dell’art. 348 ter cod. proc. civ., il ricorrente in cassazione, per evitare l’inammissibilità del motivo di cui al n. 5 dell’art. 360 cod. proc. civ., deve indicare le ragioni di fatto poste a base della decisione di primo grado e quelle poste a base della sentenza di rigetto dell’appello, dimostrando che esse sono tra loro diverse (Cass., sez. 2, 10 marzo 2014, n. 5528).
Con il secondo motivo di impugnazione il ricorrente lamenta la «omessa motivazione su un punto decisivo della controversia ex art. 360, primo comma, n. 5, c.p.c., in relazione all’art. 112 c.p.c., per carenza di motivazione sull’eccezione di violazione del principio di corrispondenza tra chiesto e pronunziato».
Per il ricorrente la Corte d’appello avrebbe omesso ogni motivazione in merito all’eccezione formulata dall’appellante «o comunque rilevabile d’ufficio» di mancata corrispondenza tra il chiesto ed il pronunziato, in merito alle conclusioni della domanda originaria del giudizio, precisate dalla RAGIONE_SOCIALE di RAGIONE_SOCIALE–RAGIONE_SOCIALE e ribadite in sede di appello, che qualificavano la domanda come risarcimento «di un presunto comportamento illecito del NOME e, quindi, facevano discendere la condanna al pagamento di euro 140.000,00 dall’accertamento e dal riconoscimento della sottoscrizione apocrifa apposta sull’assegno e conseguente alla appropriazione illecita della somma».
Tuttavia, poiché era stato dimostrato che il NOME non aveva sottoscritto l’assegno «e che non si è appropriato indebitamente della somma», il giudice avrebbe dovuto rigettare la domanda.
A fronte di una domanda formulata come sopra, il giudice di prime cure aveva erroneamente identificato il petitum come pagamento somme e la Corte d’appello aveva omesso qualsiasi pronunzia sotto il profilo della mancata corrispondenza tra il chiesto ed il pronunciato.
3.1. Il motivo è inammissibile.
Invero, il vizio di omessa pronuncia è configurabile solo nel caso di mancato esame, da parte della sentenza impugnata, di questioni di merito, e non già nel caso di mancato esame di eccezioni pregiudiziali di rito. Pertanto la sentenza che si assuma avere erroneamente rigettato l’eccezione di inammissibilità dell’appello
non è censurabile in sede di legittimità per violazione dell’art. 112 cod. proc. civ. (Cass., n. 1701 del 23/01/2009).
Nella specie, in sostanza, il ricorrente deduce l’omessa pronuncia sulla asserita violazione del principio di corrispondenza tra il chiesto e pronunciato ex art. 112 c.p.c., sicché, trattandosi di eccezione pregiudiziale di rito, tale vizio non è configurabile (Cass., sez. 3, 11 ottobre 2018, n. 25154).
Le spese del giudizio di legittimità vanno poste, per il principio della soccombenza, a carico del ricorrente, e si liquidano come da dispositivo.
P.Q.M.
rigetta il ricorso.
Condanna il ricorrente a rimborsare in favore della controricorrente le spese del giudizio di legittimità, che si liquidano in complessivi euro 7.000,00, di cui euro 200,00 per esborsi, oltre rimborso forfettario delle spese generali nella misura del 15%, oltre Iva e cpa.
Ai sensi dell’art. 13 comma 1-q uater del d.P.R. 115 del 2002, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso, a norma del comma 1bis , COGNOME stesso art. 1, se dovuto.
Così deciso in Roma, nella camera di consiglio del 24 aprile 2024