Sentenza di Cassazione Civile Sez. 1 Num. 3899 Anno 2024
Civile Sent. Sez. 1 Num. 3899 Anno 2024
Presidente: COGNOME NOME
Relatore: COGNOME NOME
Data pubblicazione: 12/02/2024
SENTENZA
sul ricorso iscritto al n. 19236/2018 R.G. proposto da:
RAGIONE_SOCIALE elettivamente domiciliata in INDIRIZZO, presso lo studio dell’AVV_NOTAIO NOME COGNOME (CODICE_FISCALE) che lo rappresenta e difende unitamente all’AVV_NOTAIO NOME COGNOME (CODICE_FISCALE)
-ricorrente-
contro
RAGIONE_SOCIALE , elettivamente domiciliato in INDIRIZZO, presso lo studio dell’AVV_NOTAIO (CODICE_FISCALE) che lo rappresenta e difende
-controricorrente-
avverso la sentenza della Corte d’appello di Napoli n. 3/2018 depositata il 3.1.2018; udite le conclusioni del AVV_NOTAIO, che ha chiesto il rigetto del ricorso, richiamandosi alla requisitoria scritta in atti; udita la relazione svolta nella camera di consiglio del 16.1.2024 dal
Consigliere NOME COGNOME.
FATTI DI CAUSA
RAGIONE_SOCIALE (di seguito, breviter , RAGIONE_SOCIALE) ha chiesto ed ottenuto dal Tribunale di Napoli- sezione distaccata di Casoria – un decreto ingiuntivo che intimava al Comune di Arzano di pagare la somma di € 3.299.882,29 oltre interessi, a titolo di corrispettivo per l’attività professionale svolta a seguito di disciplinare di incarico, stipulato il 24.10.2002 con lo stesso Comune di Arzano, esplicativo e modificativo della precedente convenzione stipulata in data 20.11.1989, per « l’esecuzione di prestazioni professionali e di servizi preordinati alla realizzazione dell’area attrezzata per l’insediamento di attività artigianali in località Tavernola ».
Il Tribunale adito con sentenza n. 160 del 2013 ha accolto l’ opposizione proposta dal Comune RAGIONE_SOCIALE Arzano e ha dichiarato la nullità della convenzione del 1989 e del disciplinare integrativo del 2002 per violazione delle norme pubblicistiche in ordine al necessario impegno di spesa.
Avverso la predetta sentenza di primo grado ha proposto appello la RAGIONE_SOCIALE, sostenendo che il Tribunale non avrebbe potuto pronunciarsi sull’eccezione di nullità della convenzione del 1989, essendo intervenuta sulla specifica questione la pronuncia arbitrale del 19.6.1996, resa esecutiva con decreto del Pretore di Napoli del
25.6.1996, confermata dalla Corte d’appello di Napoli con sentenza non sottoposta ad ulteriore gravame.
L’appellante ha anche contestato la pronuncia del Tribunale laddove ha ravvisato la mancata indicazione della copertura finanziaria stanziata dal Comune nelle delibere autorizzative della convenzione dedotta in lite, mentre la sussistenza di tale copertura finanziaria era rilevabile anche dalla copiosa documentazione che era stata versata in atti da essa appellante.
La Corte di appello di Napoli con sentenza del 3.1.2018 ha rigettato l’appello principale , dichiarando assorbito quello incidentale e ponendo le spese di lite del secondo grado a carico dell’appellante
La Corte di appello ha rilevato l’inconsistenza dell’eccezione relativa alla sussistenza di un giudicato che precludesse l’esame della nullità della convenzione per mancanza d’impegno di spesa, in quanto tardivamente allegata solo in sede di conclusioni del giudizio di gravame e comunque non configurabile, perché attinente a un lodo arbitrale.
La Corte territoriale ha sostenuto inoltre:
che la prova della validità della convenzione spettava all’appellante e non era stata da essa fornita ;
che la sentenza di primo grado sulla nullità della fonte negoziale per mancanza dell’impegno di spesa era conforme ai principi in merito indicati dal giudice di legittimità a Sezioni Unite, anche perché era necessario distinguere il rapporto di finanziamento, che intercorre tra l’ente finanziatore e il Comune che riceve il beneficio, dall’impegno di spesa richiesto dal contratto d’opera professionale, che è impegno proprio del Comune e non già dell’ente finanziatore, con la conseguenza che esso deve risultare necessariamente nel bilancio comunale;
che il contratto d’opera professionale con il quale il pagamento del compenso dell’attività di progettazione è subordinato alla
concessione di un finanziamento per la realizzazione dell’opera da progettarsi, non si sottrae all’applicazione del d.l. n. 66 del 1989, art. 23, commi 3 e 4, convertito con modificazioni nella legge n. 144 del 1989.
4 . Avverso la predetta sentenza del 3.1.2018 ha proposto ricorso per cassazione la RAGIONE_SOCIALE con atto notificato il 23.6.2018 nei confronti del Comune di Arzano, svolgendo tre motivi.
Con atto notificato il 18.7.2018 ha proposto controricorso il Comune di Arzano, chiedendo la dichiarazione di inammissibilità o di rigetto dell’avversaria impugnazione.
Tra l’altro , in via preliminare, il Comune di Arzano ha eccepito la carenza dello ius postulandi e l’invalidità della certificazione di autentica della procura alle liti, conferita a due difensori, che hanno entrambi sottoscritto il ricorso, di cui uno iscritto all’RAGIONE_SOCIALE cassazionisti (l’AVV_NOTAIO), ma certificata unicamente dal difensore non iscritto (AVV_NOTAIO).
Il AVV_NOTAIO generale ha ravvisato l’esigenza di approfondire la questione, di rilievo nomofilattico, relativa alla validità della procura speciale autenticata da difensore non abilitato al patrocinio davanti alle giurisdizioni superiori, pur in presenza della sottoscrizione dell’atto da parte di altro difensore a tanto abilitato, ma non autenticante (questione sulla quale la giurisprudenza di legittimità non ha espresso un giudizio univoco, anche per la eterogeneità delle situazioni di fatto esaminate) e ha perciò richiesto che il procedimento sia rimesso all’udienza pubblica.
Con ordinanza interlocutoria n.19590 del 19.7.2023, la Corte, vista l’espressa e motivata richiesta del AVV_NOTAIO generale, ha ritenuto l’opportunità di rinviare la causa alla pubblica udienza per l’approfondimento della questione, di interesse nomofilattico, relativa alla validità della procura speciale autenticata da difensore non abilitato al patrocinio davanti alle giurisdizioni superiori, pur in
presenza della sottoscrizione dell’atto da parte di altro difensore a tanto abilitato, ma non autenticante.
Il AVV_NOTAIO AVV_NOTAIO ha concluso per iscritto per il rigetto del ricorso, previo rigetto dell’eccezione di inammissibilità per mancanza di valida autentica della sottoscrizione della procura.
Le parti hanno depositato memoria illustrativa e non sono comparse all’udienza del 16.1.2024 in cui il AVV_NOTAIO AVV_NOTAIO ha richiamato la requisitoria scritta.
RAGIONI DELLA DECISIONE
Come si è detto, il Comune di Arzano ha eccepito la carenza dello ius postulandi e l’invalidità della certificazione di autentica della procura alle liti, conferita dal legale rappresentante della RAGIONE_SOCIALE a due difensori, che hanno entrambi sottoscritto il ricorso, di cui uno iscritto all’RAGIONE_SOCIALE dei cassazionisti (l’AVV_NOTAIO), ma certificata unicamente dal difensore non iscritto (AVV_NOTAIO).
Il AVV_NOTAIO AVV_NOTAIO ha concluso per il rigetto dell’eccezione, osservando al proposito che la mancanza di autentica, da parte di un difensore iscritto nell’albo speciale dei difensori abilitati al patrocinio avanti alla magistrature superiori, di cui all’art. 33 r.d.l. 27.11.1933, n. 1578, della firma apposta dalla parte processuale in calce alla procura alle liti, integrava una mera irregolarità, poiché il ricorso era stato firmato anche da altro AVV_NOTAIO iscritto nell’albo speciale ed indicato come codifensore.
L’opinione predetta è del tutto condivisibile.
Questa Corte ha ripetutamente affermato che la certificazione dell’autografia della sottoscrizione della parte, apposta sulla procura speciale rilasciata in calce o a margine del ricorso per cassazione da parte di AVV_NOTAIO che non sia ammesso al patrocinio innanzi alla Suprema Corte costituisce una mera irregolarità, che
non comporta la nullità della procura, allorché l’atto sia stato firmato anche da altro AVV_NOTAIO iscritto nell’albo speciale e indicato come codifensore (Sez. U, n. 10732 del 8.7.2003; Sez. 3, n. 10495 del 1.6.2004; Sez. 3, n. 24894 del 25.11.2005; Sez. 3, n. 15718 del 11.7.2006; Sez. 2, n. 17103 del 27.7.2006; Sez. L, n. 2272 del 2.2.2007; Sez. 2, n. 27774 del 20.12.2011; Sez. 3 , n. 25385 del 12.10.2018; Sez. 1, n. 34748 del 31.12.2019).
Alle stesse conclusioni è lecito pervenire inoltre anche alla luce del principio di effettività della tutela giurisdizionale, positivizzato nel diritto sovranazionale all’art. 47 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea e all’art. 19 del Trattato sull’Unione europea, di cui rappresenta un corollario l’accesso al giudice ; principi questi che impongono di ridurre al minimo le fattispecie in cui il merito della questione introdotta avanti ad un organo giurisdizionale non venga delibato per ragioni puramente formali.
Con il primo motivo di ricorso, proposto ex art.360, n.3, cod.proc.civ., la ricorrente denuncia violazione o falsa applicazione degli artt. 2909 cod.civ. e 324 cod.proc.civ. nonché dei principi di diritto in tema di elementi costitutivi della cosa giudicata, nonché vizi di motivazione ai sensi dell’art. 360, comma 1, n. 5, cod.proc.civ.
Secondo la ricorrente, la Corte di appello di Napoli nella sentenza n. 3 del 3.1.2018, a causa del l’avvenuto deposito ad opera dell’appellante solo in sede di comparsa conclusionale della sentenza n. 2246 del 3.11.1999 emessa dalla Corte di appello di Napoli, completa dell’attestazione della cancelleria comprovante il suo passaggio in giudicato, avrebbe dovuto, anziché dichiarare l’inammissibilità dell’eccezione a causa del tardivo deposito della sentenza n. 2246 del 3.11.1999, rilevare che sulla validità della convenzione del 1989 e sull’esigibilità del credito si era formato il giudicato.
La ricorrente aggiunge che l’ errore denunciato deriva dall’errata equiparazione dell’autorità del giudicato al regime delle prove perché l ‘eccezione di giudicato non è soggetta al normale regime delle preclusioni processuali ma è rilevabile in ogni stato e grado del procedimento, anche in sede di legittimità, indipendentemente dalla tempestività del deposito, dal momento che non fa parte della categoria delle prove e conseguentemente non è soggetta alle regole che le governano.
La ricorrente inoltre censura il capo della sentenza dove si afferma che « il principio della rilevabilità d’ufficio del giudicato (anche) esterno, risultante da atti comunque prodotti nel giudizio di merito, si giustifica nel particolare carattere della sentenza del giudice e nella natura pubblicistica dell’interesse al suo rispetto, non operando con riferimento al lodo arbitrale, essendo questo un alto negoziale riconducibile al dictum di soggetti privati ».
Ad avviso della ricorrente tale giudicato doveva essere rilevato anche d’ufficio dal giudice , non rilevando la natura meramente negoziale del lodo arbitrale.
Il principio della rilevabilità del giudicato esterno infatti opererebbe anche con riferimento al lodo arbitrale, giacché una volta omologato, è equiparato a tutti gli effetti alla sentenza.
La sentenza impugnata, a pagina 11, ha respinto l’eccezione di giudicato proposta da RAGIONE_SOCIALE per due distinte e concorrenti ragioni.
La prima è stata addotta nel tardivo deposito, insieme alla comparsa conclusionale di appello della sentenza della Corte di appello di Napoli del 3.11.1999, corredata dell’attestazione di passaggio in giudicato.
La seconda ragione è stata indicata nell’impossibilità di equiparare il lodo arbitrale alla sentenza ai fini della rilevabilità officiosa del giudicato esterno.
Entrambe le rationes decidendi sono state impugnate dalla ricorrente e, come si dirà, fondatamente.
Quanto alla prima, la giurisprudenza di questa Corte è conforme alla tesi della ricorrente, che merita perciò accoglimento.
Nel nostro ordinamento vige il principio della rilevabilità di ufficio delle eccezioni e la necessità dell’istanza di parte deriva invece solo dall’esistenza di una eventuale specifica previsione normativa: di conseguenza, l’esistenza di un giudicato esterno, è, al pari di quella del giudicato interno, rilevabile d’ufficio, e il giudice è tenuto a pronunciare sulla stessa qualora essa emerga da atti comunque prodotti nel corso del giudizio di merito.
Del resto, il giudicato interno e quello esterno, non solo hanno la medesima autorità che è quella prevista dall’art. 2909 cod. civ., ma corrispondono entrambi all’unica finalità rappresentata dall’eliminazione dell’incertezza delle situazioni giuridiche e dalla stabilità delle decisioni, le quali non interessano soltanto le parti in causa, risultando l’autorità del giudicato riconosciuta non nell’interesse del singolo soggetto che lo ha provocato, ma nell’interesse pubblico, essendo essa destinata a esprimersi – nei limiti in cui ciò sia concretamente possibile – per l’intera comunità. Più in particolare, il rilievo dell’esistenza di un giudicato esterno non è subordinato ad una tempestiva allegazione dei fatti costitutivi dello stesso, i quali non subiscono i limiti di utilizzabilità rappresentati dalle eventualmente intervenute decadenze istruttorie, e la stessa loro allegazione può essere effettuata in ogni stato e fase del giudizio di merito.
Da ciò consegue che, in mancanza di pronuncia o nell’ipotesi in cui il giudice di merito abbia affermato la tardività dell’allegazione – e la relativa pronuncia sia stata impugnata – il giudice di legittimità accerta l’esistenza e la portata del giudicato con cognizione piena che si estende al diretto riesame degli atti del processo ed alla diretta valutazione e interpretazione degli atti processuali, mediante indagini ed accertamenti, anche di fatto,
indipendentemente dall’interpretazione data al riguardo dal giudice del merito. (Sez. U, n. 226 del 25.5.2001).
In parte motiva le Sezioni Unite hanno espressamente affermato che « Dal momento che nel nostro ordinamento vige il principio della non utilizzabilità della scienza privata del giudice, è necessario che la parte alleghi e dimostri l’esistenza di un giudicato esterno idoneo ad incidere sulla controversia allo stesso sottoposta e cioè ponga il giudice nelle condizioni di conoscerne l’esistenza, ma tale allegazione e dimostrazione – proprio per il rilievo d’ufficio dello stesso – non solo non è soggetta a termini particolari, potendo essere effettuata in ogni stato e fase del giudizio di merito, ma prescinde da qualsiasi volontà della parte di avvalersene .»
Nella fattispecie in questione l’eccezione era stata proposta del tutto tempestivamente e solo la produzione completa del documentosentenza, corredato dall’attestazione di passaggio in giudicato, era avvenuta con la comparsa conclusionale, ma comunque ancora nell’ambito del contraddittorio, essendo consentita alla controparte la controdeduzione con la memoria di replica.
Non a caso, la giurisprudenza di questa Corte, in tema di produzioni documentali nel giudizio di cassazione ex art.372 cod.proc.civ. finalizzate alla prova del giudicato esterno, distingue il caso del giudicato intervenuto prima della conclusione del giudizio di merito e quello intervenuto successivamente. Infatti nel giudizio di cassazione, il giudicato esterno è, al pari del giudicato interno, rilevabile d’ufficio, non solo qualora emerga da atti comunque prodotti nel giudizio di merito, ma anche nell’ipotesi in cui il giudicato si sia formato successivamente alla sentenza impugnata; in tal caso, infatti, la produzione del documento che lo attesta non trova ostacolo nel divieto posto dall’art. 372 cod.proc. civ., che è limitato ai documenti formatisi nel corso del giudizio di merito, ed è, invece, operante ove la parte invochi l’efficacia di
giudicato di una pronuncia anteriore a quella impugnata, che non sia stata prodotta nei precedenti gradi del processo (Sez. 2, n. 1534 del 22.1.2018; Sez. 6 – 5, n. 11365 del 1.6.2015).
Inoltre, in tema di impugnazioni, avverso la sentenza d’appello che non tenga conto del giudicato formale intervenuto prima del suo deposito, a differenza di quanto avviene nell’ipotesi di giudicato sopravvenuto rispetto a tale momento, deve essere proposta revocazione ex art. 395 n. 5 cod.proc. civ., e non ricorso per cassazione, in quanto l’esaurimento della fase di merito si ha solo con il deposito della decisione di secondo grado, sicché nel corso del giudizio di gravame il giudicato esterno può essere dedotto con la produzione della sentenza munita di attestato di definitività, anche mediante un’apposita istanza che consenta la rimessione della causa sul ruolo. (Sez. 5, n. 13987 del 23.5.2019).
Il principio della rilevabilità d’ufficio del giudicato esterno trova fondamento nella natura di «diritto del caso concreto», propria della sentenza, e n ell’interesse pubblico al suo rispetto e rinviene conferma nella revocabilità prevista dall’art.395, n.6, cod.proc.civ.
Non può certo condividersi, infine, l’eccezione del Comune controricorrente secondo il quale la produzione della sentenza non sarebbe consentita in sede di legittimità, non foss’altro che perché la produzione è avvenuta nel giudizio di merito e in questa sede solo si dibatte della sua validità, tempestività ed efficacia.
La prima ragione addotta dalla Corte di appello appare quindi errata.
La seconda ragione addotta dalla Corte territoriale attiene invece all’equiparazione del lodo alla sentenza ai fini del giudicato. La Corte di appello ha richiamato un orientamento giurisprudenziale di questa Corte, effettivamente ben radicato in passato, secondo il quale il principio della rilevabilità d’ufficio del giudicato (anche) esterno, risultante da atti comunque prodotti nel giudizio di merito, si giustifica nel particolare carattere della
sentenza del giudice e nella natura pubblicistica dell’interesse al suo rispetto, non operando con riferimento al lodo arbitrale, essendo questo un atto negoziale riconducibile al dictum di soggetti privati, che non muta la propria originaria natura per l’attribuzione a posteriori degli effetti della sentenza, tant’è che l’art. 829, n. 8, cod. proc. civ. attribuisce alla precedente decisione del giudice soltanto l’attitudine a costituire «sentenza passata in giudicato» e riserva al lodo la possibilità di divenire «non impugnabile», nonché quella di essere impugnato con il giudizio di cui all’art. 827 cod. proc. civ. «allorché contrario ad altro precedente lodo». (Sez. 1, n. 18041 del 19.10.2012).
Il Comune controricorrente richiama a proprio sostegno anche l’insegnamento risalente delle Sezioni Unite che si pone alla radice di questa interpretazione, con riferimento alla sentenza n.527 del 3.8.2000, laddove si legge che l’orientamento di questa Corte è nel senso – coincidente con quello accolto dalla prevalente dottrina della natura privata dell’arbitrato rituale e del dictum che lo definisce.
Secondo questo orientamento: a) la presenza, nel lodo, degli elementi costitutivi ed ontologici della sentenza pronunciata dagli organi giurisdizionali dello Stato non è idonea a dimostrarne la natura giurisdizionale, per l’assorbente ragione che il nostro ordinamento positivo riconosce la validità di forme di composizione delle controversie che si realizzano attraverso atti negoziali comportanti sia un accertamento che una declaratoria delle conseguenti obbligazioni delle parti; b) la constatazione che la legge fissa in modo analitico il regime formale del procedimento arbitrale e del lodo, può solo dimostrare che l’ordinamento positivo ha processualizzato il procedimento arbitrale, ma non anche che lo ha giurisdizionalizzato; c) il rilievo che, per legge, il lodo è dotato di tutti o di taluno degli effetti della sentenza pronunciata dai giudici dello Stato, non è determinante ai fini della soluzione del problema
sulla natura dell’arbitrato; l’attribuzione al lodo, a posteriori , di effetti propri della sentenza non può incidere sulla sua configurazione quale atto negoziale e, a fortiori , sulla costruzione del giudizio arbitrale quale giudizio privato e può essere intesa solo quale attribuzione quoad effectum che lascia inalterata la natura originaria; d) sulla non pertinenza del dato ai fini della soluzione del problema aveva convenuto anche il giudice delle leggi, addirittura in relazione al regime anteriore alle novelle del 1983 e del 1994, allorché aveva osservato che il decreto pretorile ex art. 825 Cod. proc. civ. conferisce al lodo l’efficacia e non la natura di sentenza, in modo che manca nell’arbitro il potere di produrre atti sostanzialmente identici a quelli pronunciati dalla potestà del giudice (Corte Cost. 12 febbraio 1963 n. 2).
Su tali premesse le Sezioni Unite del 2000 hanno ribadito la natura privata dell’arbitrato che esclude la configurabilità del processo arbitrale come affidamento agli arbitri di una frazione di quello stesso potere giurisdizionale che la legge attribuisce ai giudici dello Stato, e come forma sostitutiva della giurisdizione degli organi dello Stato.
Le Sezioni Unite ne hanno quindi desunto che la concezione sulla natura privata dell’arbitrato, invece, porta a qualificare il procedimento arbitrale come ontologicamente alternativo alla giurisdizione statuale, una volta che si fonda sul consenso delle parti, e che la decisione proviene da soggetti privati radicalmente carenti di potestà giurisdizionale di imperio, vale a dire che il giudizio arbitrale è antitetico a quello giurisdizionale e ne costituisce la negazione.
16. L’esposto orientamento su cui ha fatto leva la Corte territoriale è stato però superato nella giurisprudenza delle Sezioni Unite ad opera della fondamentale decisione n. 24153 del 25.10.2013, che ha ribaltato la precedente concezione non giurisdizionale dell’arbitrato, sulla scia delle modifiche legislative del 1994 e del
2006 e delle pronunce della Corte Costituzionale, per affermare che l’attività degli arbitri rituali, anche alla stregua della disciplina complessivamente ricavabile dalla legge 5.1.1994, n. 25 e dal d.lgs. 2.2.2006, n. 40, ha natura giurisdizionale e sostitutiva della funzione del giudice ordinario.
Secondo la citata pronuncia, che appare opportuno sintetizzare, la tesi della natura negoziale del lodo rituale, e così anche sulla unitarietà del fenomeno arbitrale, è stata accolta dalla giurisprudenza della Corte di Cassazione (Sez.Un. 3.8.2000, n. 527, seguita da molte sentenze successive) come attinente ad istituto « ontologicamente alternativo alla giurisdizione statuale » perché formato sulla « rinunzia all’azione giudiziaria »; la spinta alla ricostruzione in chiave esclusivamente privatistica del dictum arbitrale nasce dalla preoccupazione che soltanto questa mette l’istituto al riparo da rischio di incostituzionalità ex art. 102 Cost.; il problema è se il legislatore possa equiparare a certe condizioni le pronunce arbitrali che rispettino un determinato iter processuale alle sentenze dei giudici civili, giurisdizionalizzandole, senza collidere con i principi costituzionali, in tema di tutela dei diritti; con sentenza 14.7.1977, n. 127 la Corte costituzionale ha rilevato che il fondamento di qualsiasi arbitrato è da rinvenirsi nella libera scelta delle parti perché solo la scelta dei soggetti (intesa come una dei possibili modi di disporre, anche in senso negativo, del diritto di cui all’art. 24 Cost., comma 1), può derogare al precetto contenuto nell’art. 102 Cost.; la fonte dell’arbitrato non può più ricercarsi in una legge ordinaria o, più generalmente, in una volontà autoritativa e il principio fissato dall’art. 806 cod.proc. civ. assume il carattere di principio generale, costituzionalmente garantito, dell’intero ordinamento; va sottolineata la correlazione necessaria fra potere di azione e giurisdizione che porta al coordinamento dell’art. 102 con l’art. 24 Cost., comma 1; va valorizzato il rapporto di complementarità individuato fra comma 1 e comma 2 dell’art.
102, talché il monopolio della giurisdizione statale, non va inteso in senso assoluto, ma nel quadro del divieto di istituzione di giudici straordinari o speciali; sussiste compatibilità dell’istituto dell’arbitrato con il monopolio della giustizia statale nei limiti in cui esso non sia obbligatorio; di regola, la funzione giurisdizionale sui diritti si esercita davanti ai giudici ordinari, ma è tuttavia consentito alle parti, nell’esercizio di una libera e autonoma scelta, di derogare a tale regola agendo a tutela dei propri diritti davanti a giudici privati, riconosciuti tali dalle legge, in presenza di determinate garanzie; l’autonomia delle parti si manifesta come atto incidente sull’esercizio del potere di azione al quale il diritto è connesso; affinché il ricorso all’arbitrato possa considerarsi legittimo, occorre: a) che la deroga consacrata da volontà concorde delle parti su diritti disponibili operi nei confronti di una controversia conoscibile dal giudice ordinario; b) che l’arbitrato sia disciplinato da norme di legge che assicurino idonee garanzie processuali, non soltanto sul piano dell’imparzialità dell’organo giudicante, ma anche del rispetto del contraddittorio; c) la possibilità di impugnativa davanti agli organi della giurisdizione ordinaria; tali caratteri appaiono, per l’arbitrato rituale, tali da integrare i requisiti richiesti dalla Corte Europea sui diritti dell’uomo per rispettare il 6 della Convenzione di Roma del 4.11.1950; la normativa, in parte introdotta con la legge n. 25 del 1994 ed in parte con il d.lgs. 2.2.2006, n. 40, contiene sufficienti indici sistematici per riconoscere natura giurisdizionale al lodo arbitrale, e per soddisfare le indicazioni sui limiti entro i quali la scelta di un giudice diverso da quello statale può essere, dall’ordinamento, affidata alla autonomia dei privati; in base alla riforma del 1994, la proposizione dei mezzi di impugnazione non è condizionata dall’emanazione del decreto di esecutività del lodo; il termine per la proponibilità dell’impugnazione per nullità, se il lodo è notificato, è quello breve di novanta giorni dalla notificazione, altrimenti è quello annuale decorrente dalla data dell’ultima
sottoscrizione; il lodo rimane autonomamente impugnabile, con l’azione di nullità, indipendentemente dall’exequatur, in virtù della stessa efficacia della sentenza pronunziata dall’Autorità Giudiziaria, fin dal momento in cui interviene l’ultima sottoscrizione (art. 824 bis cod.proc. civ.).; il deposito del lodo, peraltro, si ricollega, oltre che alla sua esecutività (e attitudine all’iscrizione ipotecaria, in virtù dell’art. 2819 cod. civ.) anche alla sua trascrivibilità e conseguente efficacia anche verso terzi; sono concesse, contro il lodo, anche la revocazione straordinaria e l’opposizione di terzo, sia ordinaria sia revocatoria; si è concentrata nella Corte d’appello la competenza funzionale a conoscere dell’impugnazione per nullità, estesa, oltre che all’inosservanza del principio del contraddittorio, all’ipotesi di contrarietà del lodo a sentenza passata in giudicato o ad altro precedente lodo, non più impugnabile; la potestas iudicandi del giudice dell’impugnazione per nullità, nella fase rescissoria, a decidere nel merito la controversia è condizionata alla assenza di « concorde volontà contraria delle parti »; è da escludere, in radice, l’eventualità di una duplice natura del lodo, negoziale, in un primo tempo, giurisdizionale dopo la dichiarazione di esecutività; l’assimilazione in toto , alla domanda giudiziale, attribuita all’atto introduttivo dell’arbitrato, quanto alla prescrizione e alla trascrizione delle domande giudiziali, postula l’equiparazione alla domanda giudiziale (esercizio dell’azione giudiziaria) dell’atto di promovimento del processo arbitrale, e l’attribuzione al lodo dell’attitudine non di efficacia negoziale, ma dell’efficacia e della autorità della cosa giudicata; quanto alla trascrizione, l’effetto anticipatorio, conferito alla trascrizione dell’atto di promovimento del giudizio arbitrale, riguarda sia le fattispecie contemplate all’art. 2652 cod. civ. che quelle riguardate dall’art. 2653 cod. civ.; entrambe le norme si radicano alla nozione e alla teoria dell’azione e coprono tutto lo spazio, coperto sia dall ‘ azione come mera aspirazione a una sentenza di merito, sia dall ‘ azione in senso
sostanziale, riferita cioè a situazioni che presuppongono fondata l’azione, e alle norme tese ad evitare che la durata del processo ridondi in danno dell’attore, che ha ragione; l’art. 831 cod.proc. civ. novellato sottopone il lodo al rimedio dell’opposizione di terzo, anche ordinaria, il che presuppone, appunto, l’efficacia del lodo pronunciato inter alios , verso il terzo titolare di una situazione soggettiva che presenta elementi di identità con il rapporto oggetto della decisione arbitrale; nel caso dell’art. 2653 cod. civ., la norma sulla trascrizione della domanda fornisce il mezzo tecnico che consente al processo di proseguire fra le parti originarie, valendo la sentenza anche nei confronti del successore a titolo particolare rimasto estraneo al processo, con norma che va ad integrare quella, fondamentale, dell’art. 2909 cod. civ. definendo i limiti dell’estensione soggettiva della cosa giudicata sostanziale, e stabilisce che l’accertamento e le statuizioni contenute nel giudicato, si estendono all’avente causa, anche se il fatto costitutivo del suo acquisto è anteriore alla sentenza, se vi è anteriorità della trascrizione della domanda giudiziale, rispetto a quella del titolo di acquisto; per ciò che riguarda la prescrizione, è stato attribuito alla notifica dell’atto di promovimento del giudizio arbitrale, dell’effetto interruttivo-sospensivo (o di interruzione permanente fino all’acquisto di stabilità del lodo, o al passaggio in giudicato formale della sentenza resa sull’impugnazione) che è proprio soltanto della domanda giudiziale, e che integra un tipico effetto sostanziale dell’atto di esercizio dell’azione giudiziaria, neutralizzando l’incidenza della durata del procedimento di cognizione, che si conclude con pronuncia di merito (favorevole o meno all’attore) ai fini del decorso del termine prescrizionale del diritto azionato; soltanto il riconoscimento della giurisdizionalità del processo arbitrale consente di estendere l’effetto interruttivo della domanda al termine di decadenza, anche in quella vasta area di fattispecie in cui la decadenza è impedita non con il semplice
esercizio del diritto, ma con l’esercizio dell’azione in giudizio; l’art. 816quinquies statuisce sull’ammissibilità dell’intervento volontario di terzi nel giudizio arbitrale e sull’applicabilità allo stesso dell’art. 111 cod. proc. civ. in tema di successione a titolo particolare nel diritto controverso e l’art. 819 bis cod.proc. civ., al comma 1, n. 3, che prevede la possibilità per gli arbitri di rimettere alla Corte costituzionale una questione di legittimità costituzionale, ai sensi della L. 11 marzo 1953, n. 87, art. 23, il che denota che gli arbitri esercitano una funzione giurisdizionale; l’art. 819 ter cod.proc. civ. nel disciplinare il rapporto tra cause devolute al giudizio degli arbitri e cause proposte davanti al giudice ordinario individua il rapporto fra i due processi in termini di competenza; e riconosce espressamente l’impugnazione con regolamento di competenza avverso la sentenza emessa dal giudice (non – invece – nell’ipotesi di declaratoria sulla competenza pronunziata dall’arbitro), il che a significare che l’opzione in favore del giudizio arbitrale, rispetto alla tutela davanti al giudice ordinario, implica, un diverso modo di esercizio dell’azione; l’art. 824 bis cod.proc. civ. equipara gli effetti del lodo, dalla data della sua ultima sottoscrizione, a quelli della sentenza passata in giudicato; anche l’art. 829 cod.proc. civ., n. 8, esprime chiaramente tale attribuzione dell’attitudine del lodo a fare dell’oggetto del proprio giudizio una res cognita , laddove, introducendo come motivo di nullità la violazione del giudicato (esterno) equipara completamente alla sentenza passata in giudicato il lodo non più impugnabile; la stessa Corte Costituzionale, con sentenza n. 223 del 19.7.2013 ha rilevato che « con la riforma attuata con il d.lgs. 2 febbraio 2006, n. 40, il legislatore ha introdotto una serie di norme che confermano l’attribuzione alla giustizia arbitrale di una funzione sostitutiva della giustizia pubblica. Anche se l’arbitrato rituale resta un fenomeno che comporta una rinuncia alla giurisdizione pubblica, esso mutua da quest’ultima alcuni meccanismi al fine di pervenire ad un
risultato di efficacia sostanzialmente analoga a quella del dictum del giudice statale. Se, quindi, il legislatore, nell’esercizio della propria discrezionalità in materia, struttura l’ordinamento processuale in maniera tale da configurare l’arbitrato come una modalità di risoluzione delle controversie alternativa a quella giudiziale, è necessario che l’ordinamento giuridico preveda anche misure idonee ad evitare che tale scelta abbia ricadute negative per i diritti oggetto delle controversie stesse ».
La giurisprudenza successiva di questa Corte si è mossa nel solco così autorevolmente tracciato.
La sentenza della Sez. 1, n. 20899 del 7.9.2017 ha affermato che in tema di efficacia di giudicato esterno del lodo arbitrale, la forza del giudicato sostanziale assiste soltanto le pronunzie giurisdizionali a contenuto decisorio di merito, vale a dire quelle che statuiscono in ordine all’esistenza delle posizioni soggettive tutelate e dedotte in giudizio, ma non assiste le statuizioni di carattere processuale, attinenti cioè alla costituzione del giudice, o alla determinazione dei suoi poteri, ovvero allo svolgimento del processo, decisioni che producono effetti limitati al rapporto processuale nel quale sono emanate. Pertanto, la decisione circa la natura ed i limiti della potestas iudicandi attribuita agli arbitri, appartenendo alle statuizioni di carattere processuale, non spiega alcuna efficacia esterna con riguardo ad un successivo giudizio, neppure se vertente tra le stesse parti e concernente il medesimo rapporto sostanziale.
Implicitamente la pronuncia ribadisce l’efficacia di giudicato del lodo sulle questioni sostanziali.
La sentenza della Sez. 1, n. 6830 del 24.3.2014, ha affermato che l’ autorità del giudicato sostanziale opera soltanto entro i rigorosi limiti degli elementi costitutivi dell’azione e presuppone che tra la precedente causa e quella in atto vi sia identità di parti, di petitum e di causa petendi . Nella specie, è stata rigettata l’eccezione di
giudicato esterno escludendo l’identità di oggetto tra due cause che, sebbene fondate su titoli riferentisi formalmente ad un unico atto, restavano distinti sul piano sostanziale, avendo riguardo a capi diversi di uno stesso lodo arbitrale irrituale, l’uno il pagamento di una somma a titolo di risarcimento del danno, l’altro un rimborso spese per miglioramenti ed addizioni.
Ed ancora è stato affermato che il divieto di arbitrato previsto dall’art. 3, comma 2, del d.l. 11 giugno 1998, n. 180 (convertito con modificazioni dalla legge 3 agosto 1998, n. 267) per le controversie relative all’esecuzione di opere pubbliche comprese nei programmi di ricostruzione di territori colpiti da calamità naturali, non può essere rilevato allorquando la questione relativa alla potestas iudicandi degli arbitri – la quale, tenuto conto del carattere unitario della controversia arbitrale, attiene all’intera materia devoluta alla loro cognizione e non solo alle domande introdotte con l’atto di arbitrato – sia coperta da una preclusione di giudicato esterno, qual è quella derivante dalla pronuncia affermativa sulla stessa resa dalla corte d’appello in sede di impugnazione di un precedente lodo arbitrale tra le stesse parti e relativo al medesimo rapporto. (Sez. 1, n. 25372 del 12.11.2013).
18. Non può essere seguito al proposito il parere del AVV_NOTAIO AVV_NOTAIO, che pur ha sinteticamente condiviso tutte le considerazioni che precedono, secondo il quale il motivo sarebbe infondato per la carenza, nella fattispecie, dei presupposti per l’applicazione dell’istituto del giudicato esterno.
Decisivo, in particolare, andrebbe considerato il fatto che il credito cui il decreto ingiuntivo opposto si riferisce sia prospettato come originato da attività posteriori di oltre dieci anni rispetto all’adozione della pronuncia arbitrale; per cui, oltre alla diversità delle parti processuali, nel caso di specie sarebbero diversi causa petendi e normativa di riferimento.
Il rilievo confonde la fondatezza del motivo che si misura alla stregua della correttezza della critica in diritto mossa alla sentenza impugnata, con la fondatezza o meno dell’eccezione, della quale il AVV_NOTAIO AVV_NOTAIO dubita, ma che il giudice del merito dinanzi al quale era stata tempestivamente sollevata ha omesso completamente di esaminare, ritenendola erroneamente tardiva e inammissibile.
La pronuncia passata in giudicato si riferisce alla validità della convenzione originaria del 1989, successivamente integrata con il disciplinare del 2002, su cui pur si basa la pretesa della ricorrente. Sarà quindi il giudice di rinvio a dover esaminare e valutare corso, per considerazioni di carattere del tutto preliminare rispetto al suo l’incidenza del predetto giudicato sul rapporto in erroneamente denegata nella pronuncia impugnata doveroso esame nel merito.
Il primo motivo va quindi accolto e l’eccezione di giudicato dovrà essere esaminata dal giudice di rinvio, specie nelle sue implicazioni relative alla sua decisività rispetto al successivo atto integrativo del 2002, implicazioni che attengono evidentemente al merito della controversia.
Con il secondo motivo di ricorso, proposto ex art.360, n.4, cod.proc.civ., l ricorrente denuncia nullità della sentenza e/o del procedimento di primo grado per violazione del diritto di difesa e del contraddittorio derivante dall’omessa indicazione alle parti di una questione rilevabile d’ufficio su cui si fonda la decisione e la nullità della sentenza e/o del procedimento nonché dall’aver concesso la provvisoria esecutorietà del decreto ingiuntivo opposto dopo il deposito delle memorie di trattazione di cui all’art. 183, comma 6, cod.proc.civ., nonché omessa pronuncia ai sensi dell’art. 360, comma 1, n. 5, cod.proc.civ.
La ricorrente sostiene che la Corte di appello non si sia pronunciata sulla questione, sottoposta al suo vaglio, della lesione del diritto di
difesa operata dal Tribunale che aveva rilevato d’ufficio la nullità della convenzione del 1989 quantunque la validità di tale convenzione non fosse stata mai oggetto di discussione tra le parti. Aggiunge la ricorrente che la Corte di appello avrebbe dovuto rilevare la nullità della sentenza e/o del procedimento di primo .
grado o quantomeno rimettere in termini le parti ai sensi dell’art 354, comma 4, cod.proc.civ.
Con il terzo motivo di ricorso, proposto ex art.360, n.4 cod.proc.civ., la ricorrente denuncia nullità della sentenza e/o del procedimento di primo grado per violazione e/o falsa applicazione degli artt. 112 e 113 cod.proc.civ. con riferimento agli artt.101, comma 2, e 183, comma 3, cod.proc.civ. (nella formulazione anteriore alla legge 69/2009) in relazione all’art. 360, comma 1, n. 3 cod.proc.civ., nonché omessa pronuncia ai sensi dell’art. 360, comma 1, n. 5, cod.proc.civ.
La ricorrente sostiene che la Corte di appello non si sia pronunciata sul vizio procedurale in cui era incorso il Tribunale, che aveva posto alla base della sentenza una questione rilevata d’ufficio senza assegnare alle parti un termine per il deposito di memorie contenenti osservazioni sulla questione medesima.
Con il quarto motivo di ricorso, proposto ex art.360, n.3 cod.proc.civ., la ricorrente denuncia violazione e/o falsa applicazione dell’art. 2697 cod.civ. nonché dei principi di vicinanza dei mezzi istruttori, di leale collaborazione che grava sulle parti processuali e di agire in giudizio ex art. 24 Cost.
La ricorrente sostiene che la validità della convenzione del 1989 doveva essere provata dal convenuto (Comune di Arzano) e non dalla parte che agiva in giudizio.
Con il quinto motivo di ricorso, proposto ex art. 360, n. 3 cod.proc.civ., la ricorrente denuncia violazione e/o falsa applicazione degli artt. 284, 285 e 288 del r.d. n. 383/1934, nonché omesso esame di elementi probatori decisivi con
conseguente difetto assoluto di motivazione ai sensi dell’art. 360, comma 1, n. 5, cod.proc.civ.
La ricorrente sostiene che le prove documentali versate in atti contenevano sia l’indicazione dell’impegno di spesa , sia le singole fonti del finanziamento a cui fare ricorso, sicché non si poteva affermare che la convenzione fosse nulla.
La ricorrente afferma che l’ammontare dovuto alla RAGIONE_SOCIALE era preventivato e ricavabile sia dalla delibera che dalla convenzione.
Ad ogni modo, la ricorrente assume che quand’anche si dovesse ritenere che l’incarico alla RAGIONE_SOCIALE fosse stato affidato in assenza di impegno di spesa, doveva ritenersi valida la clausola contrattuale, con cui il sorgere del diritto del professionista al pagamento del compenso dovuto per la progettazione di un’opera pubblica veniva condizionata all’ottenimento del finanziamento per l’opera progettata, anche in assenza di impegno di spesa, proprio perché si trattava di un contratto la cui efficacia era condizionata all’erogazione del finanziamento stesso.
La ricorrente aggiunge che il finanziamento era stato effettivamente stanziato, come dimostrato dalle prove documentali versate in atti; ovvero nella denegata ipotesi in cui si dovesse ritenere che non fosse stato stanziato il finanziamento ritengono si debba applicare l’istituto della finzione di avveramento della condizione in quanto vi è colpa o dolo nel comportamento dell’amministrazione.
Con il sesto motivo di ricorso, proposto ex art 360, n. 3, cod.proc.civ., la ricorrente denuncia violazione e/o falsa applicazione dell’art. 92 cod.proc.civ. così come modificato dalla legge 263/2005.
La ricorrente assume che la Corte di appello avrebbe dovuto compensare le spese di lite invece di porle a carico della sola RAGIONE_SOCIALE in quanto il panorama giurisprudenziale era tutt’altro che univoco, in ordine alla validità della clausola con cui il pagamento
del compenso dovuto ad una società di professionisti è subordinato all’erogazione del finanziamento anche in assenza della previsione dell’impegno di spesa, sussistendo quindi le gravi ragioni richieste dall’art 92 cod.proc.civ. per la compensazione.
Tutti i predetti motivi restano assorbiti per effetto dell’accoglimento del primo pregiudiziale motivo di ricorso.
Pertanto occorre accogliere il primo motivo di ricorso, assorbiti gli altri, cassare la sentenza impugnata in relazione ai motivi accolti e rinviare la causa alla Corte di appello di Napoli, in diversa composizione, anche per la regolazione delle spese del giudizio di legittimità.
P.Q.M.
La Corte accoglie il primo motivo di ricorso, assorbiti gli altri, cassa la sentenza impugnata in relazione ai motivi accolti e rinvia la causa alla Corte di appello di Napoli, in diversa composizione, anche per la regolazione delle spese del giudizio di legittimità.
Così deciso in Roma nella camera di consiglio della Prima Sezione