Ordinanza di Cassazione Civile Sez. L Num. 18293 Anno 2024
Civile Ord. Sez. L Num. 18293 Anno 2024
Presidente: COGNOME
Relatore: COGNOME
Data pubblicazione: 04/07/2024
ORDINANZA
sul ricorso 14780-2020 proposto da:
NOME COGNOME NOME, elettivamente domiciliato presso l’indirizzo PEC dell’avvocato NOME COGNOME, che lo rappresenta e difende;
– ricorrente –
contro
GRANDI RAGIONE_SOCIALE;
– intimata – avverso la sentenza n. 325/2019 della CORTE D’APPELLO di CALTANISSETTA, depositata il 10/10/2019 R.G.N. 2/2018; udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del 15/05/2024 dalla Consigliera NOME COGNOME.
Rilevato che:
La Corte d’appello di Caltanissetta ha accolto in parte l’appello della società RAGIONE_SOCIALE e, in parziale riforma della sentenza di primo grado, revocato il decreto ingiuntivo emesso
Oggetto
Differenze retributive
R.G.N. 14780/2020
COGNOME.
Rep.
Ud. 15/05/2024
CC
su ricorso di NOME COGNOME per l’importo di euro 14.821,65, ha condannato la società al pagamento, in favore del COGNOME, della minor somma di euro 10.182,36, oltre accessori di legge.
2. La Corte territoriale ha premesso che il COGNOME, dipendente della RAGIONE_SOCIALE fino al 15.10.2014, aveva agito in via monitoria nei confronti della stessa per un credito di euro 14.821,65, di cui euro 14.654,00 risultanti da assegno emesso dalla società il 7.5.2012, a garanzia di crediti maturati dal lavoratore nei confronti di NOME COGNOME, titolare della ditta individuale RAGIONE_SOCIALE, alle cui dipendenze il COGNOME aveva lavorato fino al 6.3.2012 e alla quale la RAGIONE_SOCIALE s.rRAGIONE_SOCIALElRAGIONE_SOCIALE era succeduta. Ha accertato che la società aveva eseguito pagamenti (con assegni circolari) nei confronti del COGNOME per l’importo di euro 45.831,03; che secondo le stesse deduzioni della società l’importo di euro 14.654,00, portato dall’assegno, comprendeva il residuo credito di euro 12.258,88 maturato dal lavoratore nei confronti del precedente datore RAGIONE_SOCIALE (credito originariamente di euro 22.073,93, ma pagato dalla stessa RAGIONE_SOCIALE nel corso del rapporto di lavoro nella misura di euro 9.815 ,05) nonché l’importo di euro 1.221,88 per la mensilità di marzo 2012 e di euro 1.173,24 per la mensilità di aprile 2012, dovute da RAGIONE_SOCIALE Ha ritenuto che, considerato pari ad euro 12.258,88 il credito residuo verso la RAGIONE_SOCIALE al 7.5.2012 e pari ad euro 43.586,86 l’importo dovuto complessivamente da RAGIONE_SOCIALE nel corso del rapporto (la cui somma risulta pari ad euro 55.845,74 -che diventa euro 65.660,79 se si aggiungono i 9.815,05 inclusi nel calcolo del ctu) e detratto l’importo di eur o 45.831,03 versati con assegni circolari al dipendente, residuava la differenza di euro 10.014,71
per cui la società era ancora debitrice nei confronti del COGNOME. A tale somma andavano aggiunti euro 167,65 per rimborso spese di protesto, giungendosi all’importo finale di euro 10.182,36.
Avverso tale sentenza NOME COGNOME ha proposto ricorso per cassazione affidato a due motivi. La RAGIONE_SOCIALE non ha svolto difese.
Il Collegio si è riservato di depositare l’ordinanza nei successivi sessanta giorni, ai sensi dell’art. 380 bis.1 c.p.c., come modificato dal d.lgs. n. 149 del 2022.
Considerato che:
Con lil primo motivo di ricorso è dedotta, ai sensi dell’art. 360, comma 1, n. 4 c.p.c., violazione degli artt. 112, 324, 434, 342 e 346 c.p.c. e dell’art. 2909 c.c., per avere la Corte d’appello esteso la propria indagine su punti della sentenza di primo grado non investiti da alcuna specifica censura con i motivi di appello e sui quali, pertanto, doveva ritenersi formato il giudicato interno.
Il ricorrente premette che il c.t.u. aveva quantificato in euro 22.073,93 il suo credito nei confronti della RAGIONE_SOCIALE e su tale importo si era basata la decisione di primo grado. Assume che la Corte d’appello ha errato nel rettificare l’importo del citato credito (in euro 12.258,88), sul presupposto dell’avvenuto pagamento di euro 9.815,00, in quanto non era stato articolato alcun motivo di appello sul punto da parte della società; quest’ultima si era limitata a contestare la mancata applicazione dei criteri legali in materia di imputazione dei pagamenti, ai sensi dell’art. 1993 c.c., come emerge dal ricorso in appello (trascritto nei suoi passaggi essenziali alle pagine 11 e 12 del ricorso per cassazione). Si era quindi formato il giudicato interno
sull’importo del credito residuo del lavoratore come stabilito dal tribunale e pari ad euro 19.829,76 (risultante dall’importo di euro 65.660,79 calcolato dal c.t.u., detratta la somma di euro 45.831,03 già versata al COGNOME).
7. Con il secondo motivo è dedotta, in via subordinata, ai sensi dell’art. 360, comma 1, n. 4 c.p.c., violazione dell’art. 115 c.p.c. e dell’art. 2697 c.c., per avere la Corte d’appello fondato la decisione sull’esistenza di deduzioni di cui al ricorso in opposizione proposto dalla società considerate erroneamente non contestate e per avere, sulla base di tale errata convinzione, sbagliato nella nuova quantificazione del credito maturato complessivamente dal COGNOME per spettanze retributive quantificate in euro 10.182,36.
8. Il ricorrente censura la sentenza d’appello per aver definito ‘incontestate’ (v. sentenza, p. 6, secondo cpv.) le deduzioni di cui al ricorso in opposizione della società sulle voci che componevano l’importo di euro 14.654,00 portato dall’assegno. Trascrive (a p. 14 del ricorso per cassazione) i passaggi della memoria di costituzione nel giudizio di primo grado, contenenti la puntuale e specifica contestazione delle affermazioni di controparte nel senso che l’assegno di euro 14.625,00 era stato in realt à consegnato ‘in pagamento del parziale residuo delle spettanze maturate fino alla data del 6 marzo 2012 e al netto del TFR maturato…mentre lo stesso lavorava alle dipendenze della ditta individuale RAGIONE_SOCIALE. Sostiene che la Corte avrebbe dovuto deter minare l’importo residuo del credito del lavoratore verso l’RAGIONE_SOCIALE in euro 14.654,00, cioè nella somma portata dall’assegno in esame, anziché in euro 12.258,88; così giungendo a quantificare il credito residuo complessivamente maturato dal predetto verso la società in
euro 12.409,83 (risultante dalla somma di euro 14.654,00 ed euro 43.586,86 e successiva detrazione di euro 45.831,03), cui andava aggiunto l’importo di euro 167,65 a titolo di rimborso spese di protesto, per un importo finale di euro 12.577,48.
Sul primo motivo di ricorso, deve escludersi la violazione dell’art. 2909 c.c. atteso che ‘Il giudicato non si determina sul fatto ma su una statuizione minima della sentenza, costituita dalla sequenza fatto, norma ed effetto, suscettibile di acquisire autonoma efficacia decisoria nell’ambito della controversia, sicché l’appello motivato con riguardo ad uno soltanto degli elementi di quella statuizione riapre la cognizione sull’intera questione che essa identifica, così espandendo nuovamente il potere del giudice di riconsiderarla e riqualificarla anche relativamente agli aspetti che, sebbene ad essa coessenziali, non siano stati singolarmente coinvolti, neppure in via implicita, dal motivo di gravame’ (Cass. n. 12202 del 2017; n. 2217 del 2016; n. 16853 del 2018).
Da ciò discende l’infondatezza della dedotta violazione dell’art. 112 c.p.c. e delle altre disposizioni processuali.
Neppure il secondo motivo può trovare accoglimento, atteso che l’interpretazione degli atti processuali dà luogo ad un giudizio di fatto, riservato al giudice di merito, eccetto che nei casi, nella specie non ricorrenti, in cui si assume che tale interpretazione abbia determinato un vizio riconducibile alla violazione del principio di corrispondenza fra il chiesto e il pronunciato oppure del principio del ” tantum devolutum quantum appellatum” , trattandosi in tal caso della denuncia di un error in procedendo che attribuisce alla Corte di cassazione il potere-dovere di procedere direttamente all’esame e alla interpretazione degli atti (v. Cass. n. 21421 del 2014; n. 17109 del 2009). Neppure vi è spazio per dire integrata la violazione
del principio di non contestazione, a cui si fa cenno nel corpo del motivo, atteso che l’onere di contestazione previsto dall’art. 416 c.p.c. concerne le sole allegazioni in punto di fatto, ovvero i fatti materiali che integrano la pretesa sostanziale dedotta in giudizio, e non si estende alle circostanze che implicano un’attività di giudizio oppure valutazioni giuridiche (Cass. n. 11108 del 2007; n. 6606 del 2016), come nella specie l’imputazione dei pagamenti.
Parimenti infondata è la censura di violazione dell’art. 115 c.p.c., che, come più volte precisato da questa Corte (cfr. Cass., S.U. n. 20867 del 2020; Cass. n. 11892 del 2016; Cass. n. 25029 del 2015; Cass. n. 25216 del 2014), è rinvenibile nelle ipotesi in cui il giudice utilizzi prove non acquisite in atti, così come infondato è l’assunto di violazione dell’art. 2697 c.c. per inversione degli oneri probatori. Nessuna di queste anomalie è rappresentata nel motivo di ricorso in esame ove è, in sostanza, dedotto che il giudice ha male esercitato il suo prudente apprezzamento della prova, censura che non può avere accesso in questa sede di legittimità.
Per le ragioni esposte il ricorso deve essere respinto.
Non si provvede alla regolazione delle spese del giudizio di legittimità poiché la controparte è rimasta intimata.
Il rigetto del ricorso costituisce presupposto processuale per il raddoppio del contributo unificato, ai sensi dell’art. 13, comma 1 quater, del d.P.R. n. 115 del 2002 (cfr. Cass. S.U. n. 4315 del 2020).
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso.
Ai sensi dell’art. 13, co. 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento da parte del ricorrente dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato
pari a quello previsto per il ricorso a norma del comma 1 bis dello stesso art.13, se dovuto.
Così deciso nell’adunanza camerale del 15 maggio 2024