Ordinanza di Cassazione Civile Sez. 1 Num. 29782 Anno 2025
Civile Ord. Sez. 1 Num. 29782 Anno 2025
Presidente: COGNOME NOME
Relatore: COGNOME NOME
Data pubblicazione: 11/11/2025
ORDINANZA
sul ricorso iscritto al n. 27845/2020 R.G. proposto da :
RAGIONE_SOCIALE, elettivamente domiciliata in INDIRIZZO, presso lo studio dell’avvocato COGNOME (CODICE_FISCALE) rappresentata e difesa dall’avvocato COGNOME (CODICE_FISCALE)
-ricorrente
principale-
contro
RAGIONE_SOCIALE IN LIQUIDAZIONE, rappresentata e difesa dall’avvocato COGNOME (CODICE_FISCALECODICE_FISCALE
-controricorrente nonché ricorrente incidentale- avverso la SENTENZA della CORTE D’APPELLO di NAPOLI n. 266/2020 depositata il 22/01/2020.
Udita la relazione svolta nella camera di consiglio del 15/10/2025 dal Consigliere NOME COGNOME.
FATTI DI CAUSA
Il fallimento di RAGIONE_SOCIALE in liquidazione conveniva in giudizio RAGIONE_SOCIALE RAGIONE_SOCIALE s.p.a. affinché fossa dichiarata l’inefficacia dei pagamenti, per complessivi € 245.091,52, effettuati dalla società poi fallita in favore dell’istituto di credito per estinguere alcuni finanziamenti stipulati dai propri clienti, in applicazione dell’art. 65 L.F. o, in subordine ed in via progressivamente gradata, ex artt. 67, comma 1, n. 2, L.F., 67, comma 2, L.F., 2901 c.c. e 66 L.F. o 167, comma 2, L.F.
Il Tribunale di Napoli, con sentenza n. 1104/2017, respingeva le domande proposte ai sensi degli artt. 65 L.F. e 67, comma 1, n. 2, L.F., mentre accoglieva parzialmente l’azione revocatoria fallimentare presentata ai sensi dell’art. 67, comma 2, L.F., dichiarando l’inefficacia dei pagamenti eseguiti dalla data di presentazione della domanda di concordato preventivo fino alla dichiarazione di fallimento e condannando la banca alla restituzione della complessiva di € 131.246,55.
La Corte distrettuale di Napoli, con sentenza pubblicata in data 22 gennaio 2020, rigettava, nel merito, l’appello principale proposto da RAGIONE_SOCIALE e l’appello incidentale presentato dal fallimento di RAGIONE_SOCIALE, riformando la decisione impugnata solo con riferimento alla disciplina delle spese di lite.
In particolare, riteneva -fra l’altro e per quanto rileva in questa sede -che la controversia non avesse ad oggetto un contratto bancario, bensì la dichiarazione di inefficacia di alcuni pagamenti originati da un contratto bancario e, perciò, esulasse dall’ambito di applicazione dell’art. 5 d. lgs. 28/2010.
Ricordava che il tribunale aveva accertato che ‘ la società fallita, pur concedendo in noleggio ai suoi clienti le vetture del suo parco auto, faceva credere alla banca convenzionata che le aveva
vendute e che i presunti acquirenti (in realtà noleggiatori) volevano accedere ai finanziamenti per l’acquisto; sicchè presentava alla banca le richieste di finanziamento all’acquisto apparentemente sottoscritte dai clienti e incassava il prezzo del presunto acquisto. I clienti, dunque, pagavano quelli che per loro erano canoni di noleggio, mentre la banca riceveva il pagamento di quelli che per essa erano rate di rimborso del finanziamento concesso per acquisti delle autovetture, in realtà mai verificatesi ‘.
Spiegava che a seguito della riconsegna delle automobili, richiamate per l’incapacità di RAGIONE_SOCIALE di far fronte al pagamento dei premi assicurativi, quest’ultima aveva continuato a pagare le rate del finanziamento per evitare che i clienti, sovvenzionati a loro insaputa, agissero nei confronti della società una volta accortisi di quanto accaduto.
Constatava che la ricostruzione dei fatti compiuta dal primo giudice non era stata contestata, così come non era stata confutata la qualificazione giuridica dei pagamenti compiuta dal tribunale, secondo cui COGNOME aveva pagato, quale terza, i debiti di altri.
Giudicava che i pagamenti eseguiti dalla società poi fallita avessero avuto il carattere della gratuità, constatando che comunque la qualificazione compiuta dal primo giudice non risultava censurata, e rilevava, di conseguenza, che una simile natura impediva l’accoglimento dell’azione proposta ex artt. 65 e 67, comma 1, n. 2, L.F., dato che entrambe le azioni presuppongono l’onerosità dell’atto estintivo del debito.
Osservava, quanto all’accoglimento della domanda di revoca ex art. 67, comma 2, L.F. rispetto ai pagamenti successivi alla presentazione della domanda di concordato, che di tale statuizione la banca aveva criticato solamente la constatazione della sussistenza dell’elemento soggettivo, mentre il ravvisato carattere gratuito non era stato censurato ai sensi né del n. 1, né del n. 2
dell’art. 342 c.p.c., cosicchè l’ambito dell’impugnazione rimaneva circoscritto a tale aspetto.
Condivideva la valutazione del primo giudice in ordine al fatto che la prova della scientia decoctionis potesse trarsi dalla circostanza, facilmente conoscibile dalla banca, della pubblicazione nel registro delle imprese della domanda di accesso alla procedura di concordato preventivo.
Giudicava infondato l’appello incidentale presentato dalla procedura in ordine alla collocazione temporale della scientia decoctionis in tale epoca, piuttosto che dal marzo 2012, in considerazione dell’anomalia della dinamica dei pagamenti, data la genericità delle circostanze addotte dal fallimento a sostegno della doglianza.
RAGIONE_SOCIALE ha proposto ricorso per la cassazione di questa sentenza prospettando due motivi di doglianza, ai quali ha resistito con controricorso il fallimento di RAGIONE_SOCIALE, il quale, a sua volta, ha proposto ricorso incidentale, affidato a tre motivi.
Entrambe le parti hanno depositato le memorie ex art. 380 bis.1
c.p.c.
RAGIONI DELLA DECISIONE
Il primo motivo del ricorso principale denuncia, ai sensi dell’art. 360, comma 1, n. 4, c.p.c., la violazione dell’art. 5, comma 1 -bis, d. lgs. 28/2010: tale norma, che prevede l’improcedibilità della domanda giudiziale che non sia stata preceduta da un tentativo obbligatorio di mediazione per le controversie in materia di contratti bancari e finanziari, doveva trovare applicazione – a dire della banca ricorrente -anche nel caso di specie, in quanto la declaratoria di inefficacia richiesta riguardava contratti bancari di finanziamento e incideva direttamente sugli stessi, in quanto l’eventuale accoglimento della domanda avrebbe comportato un inadempimento contrattuale di cui i soggetti finanziati sarebbero stati chiamati a rispondere.
Il motivo non è fondato.
L’art. 5, comma 1, d. lgs. 28/2010 stabilisce che ‘ chi intende esercitare in giudizio un’azione relativa a una controversia in materia di condominio, diritti reali, divisione, successioni ereditarie, patti di famiglia, locazione, comodato, affitto di aziende, risarcimento del danno derivante da responsabilità medica e sanitaria e da diffamazione con il mezzo della stampa o con altro mezzo di pubblicità, contratti assicurativi, bancari e finanziari, RAGIONE_SOCIALE in partecipazione, consorzio, franchising, opera, rete, somministrazione, società di persone e subfornitura, è tenuto preliminarmente a esperire il procedimento di mediazione ai sensi del presente capo ‘.
La giurisprudenza di questa Corte (cfr. Cass. Sez. 1, 21/10/2022, n. 31209, Rv. 666120 -01, Cass. 15200/2018) ha già avuto modo di chiarire che la norma, laddove prevede l’esperimento della mediazione come condizione di procedibilità per le liti riguardanti i contratti bancari e finanziari, contiene un chiaro richiamo, non altrimenti alterabile, alla disciplina dei contratti bancari contenuta nel codice civile e nel TUB (d.lgs. n. 385 del 1993), nonchè alla contrattualistica involgente gli strumenti finanziari di cui al TUF (d.lgs. n. 58 del 1998) e non è estensibile a ipotesi diverse come quella in esame, ove parte attrice non ha proposto una domanda volta all’applicazione di tale disciplina, ma ha richiesto la declaratoria di inefficacia di alcuni pagamenti, con riferimento alle regole proprie dell’azione revocatoria fallimentare o ordinaria o degli atti eccedenti l’ordinaria amministrazione compiuti nel corso del concordato senza l’autorizzazione del tribunale.
Simili azioni, volte alla conservazione della garanzia patrimoniale e avendo solo l’effetto di rendere insensibile, nei confronti dei creditori concorsuali, l’atto dispositivo a contenuto patrimoniale del debitore, senza incidere sulla validità inter partes dell’atto stesso, non rientrano fra le controversie assoggettate alla condizione di procedibilità della domanda consistente nel previo esperimento del
procedimento di mediazione ex art. 5, comma 1-bis, d. lgs. 28/2010 (Cass. Sez. 2, 23/09/2021, n. 25855, Rv. 662258 – 01).
Con il secondo motivo del ricorso principale è stata dedotta la violazione dell’art. 360, comma 1, n. 4, c.p.c. in relazione agli artt. 342, 324 e 329 c.p.c.
La ricorrente censura la sentenza impugnata nella parte in cui -con riferimento ai pagamenti successivi alla proposizione della domanda di concordato presentata dalla RAGIONE_SOCIALE rispetto ai quali la sentenza di primo grado aveva accolto l’azione ex art. 67 comma 2° L.F. – la Corte territoriale ha affermato che, essendosi la banca limitata a criticare l’accoglimento dell’azione proposta ex art. 67, comma 2, L.F. sotto il profilo soggettivo, senza nulla eccepire sotto quello oggettivo, i canoni imposti dall’art. 342 c.p.c. le impedivano di rilevare l’inconfigurabilità dell’azione accolta in primo grado in ragione del fatto i pagamenti compiuti dalla società poi fallita, avendo dato luogo ad adempimento del terzo ex art. 1180 c.c., costituivano atti a titolo gratuito non suscettibili di revoca ex art. 67, comma 2, L.F.
In particolare, espone la ricorrente che la formazione di un giudicato interno per mancata impugnazione può verificarsi solo con riferimento a capi che siano completamente autonomi perché fondati su distinti presupposti di fatto e di diritto, dovendosi tenere presente che la minima unità suscettibile di acquisire la stabilità di giudicato interno è contraddistinta dalla sequenza logica fatto -norma – effetto giuridico, che individua la statuizione che affermi l’esistenza di un fatto sussumibile sotto una norma che ad esso ricolleghi un dato effetto giuridico.
L’impugnazione, motivata in ordine anche ad uno solo degli elementi di tale sequenza, impedirebbe la formazione del giudicato interno e riaprirebbe per intero l’esame di tale minima statuizione, consentendo al giudice dell’impugnazione di riconsiderarla tanto in punto di diritto quanto in punto di fatto.
Ne consegue che, ad avviso della ricorrente, la mancata proposizione di un motivo d’appello volto a censurare il ricorrere del presupposto oggettivo dell’azione revocatoria fallimentare, relativo all’effettuazione (nel periodo semestrale sospetto) da parte del debitore poi fallito di pagamenti che avevano dato luogo all’estinzione di debiti liquidi ed esigibili, non impedisce che ‘detta impugnativa, ancorchè limitata al solo presupposto necessario di fatto soggettivo, investiva necessariamente il giudice d’appello della decisione sull’intera questione del ricorrere nella specie di pagamenti revocabili ex art. 67 comma 2° L.F., e consentiva allo stesso di riconsiderarla nella sua interezza…’.
7. Il motivo è infondato.
Va preliminarmente osservato che le Sezioni Unite di questa Corte, nella sentenza n. 27199/2017, hanno enunciato il principio di diritto secondo cui ‘ Gli artt. 342 e 434 c.p.c., nel testo formulato dal d.l. n. 83 del 2012, conv. con modif. dalla l. n. 134 del 2012, vanno interpretati nel senso che l’impugnazione deve contenere, a pena di inammissibilità, una chiara individuazione delle questioni e dei punti contestati della sentenza impugnata e, con essi, delle relative doglianze, affiancando alla parte volitiva una parte argomentativa che confuti e contrasti le ragioni addotte dal primo giudice, senza che occorra l’utilizzo di particolari forme sacramentali o la redazione di un progetto alternativo di decisione da contrapporre a quella di primo grado, tenuto conto della permanente natura di ‘revisio prioris instantiae’ del giudizio di appello, il quale mantiene la sua diversità rispetto alle impugnazioni a critica vincolata’ .
Nell’articolato iter logico -argomentativo, le Sezioni Unite hanno, in primo luogo, ribadito che la funzione tipica dell’appello quale mezzo di gravame caratterizzato dall’effetto devolutivo, non però automatico né generale ed invero limitato dai motivi di gravame (secondo il noto brocardo tantum devolutum quantum appellatum ),
già delineata nel vigente codice di rito fin dal suo testo originario, è stata rafforzata ed ulteriormente ribadita proprio dalla riforma di cui alla L. 353/1990; si è accentuato dopo tale intervento il carattere di revisio prioris instantiae del giudizio d’appello piuttosto che quello di novum iudicium . Ciò implica che si tratta, pertanto, di un’impugnativa avverso la sentenza piuttosto che di un rimedio introduttivo di un giudizio sul rapporto controverso: la cognizione del giudice resta così circoscritta alle questioni dedotte dall’appellante (anche incidentale) attraverso la prospettazione e, quindi, la deduzione di specifiche censure senza che al giudice di secondo grado sia assegnato il compito di ‘ripetere’ il giudizio di primo grado, rinnovando la cognizione dell’intero materiale di causa e pervenendo ad una nuova decisione che involga ‘tutti’ i punti già dibattuti in prima istanza.
La modifica normativa introdotta con il D.L. n. 83/2012 – che ha riscritto il testo degli artt. 342 e 434 del codice di rito – ha mantenuto i tradizionali connotati dell’atto di appello, per come esigono che le questioni e i punti contestati della sentenza impugnata siano chiaramente enucleati e con essi le relative doglianze, essendosi limitata a recepire e tradurre in legge ciò che la giurisprudenza di questa Corte aveva affermato sin dalla sentenza n. 16/2000, ovvero che l’atto di impugnazione che non risponda ai requisiti sopra stabiliti incorre nella sanzione dell’inammissibilità.
Effettuata questa doverosa premessa, assolutamente coerente con l’impostazione dell’atto di appello quale revisio prioris instantiae, come detto rafforzata dalle riforme introdotte dalla L. 353/1990 e dal D.L. n. 83/2012, è il principio enunciato dalla giurisprudenza di questa Corte sin dalla sentenza n. 10734/2002 (conf. 18095/2004; 2973/2006; 3379/2009; 44/2011; 1377/2016; 9202/2018; 30129/2024), ovvero che ‘L’effetto devolutivo preclude al giudice d’appello esclusivamente di estendere le sue statuizioni a punti non
ricompresi, neanche implicitamente, nel tema esposto nei motivi d’impugnazione, mentre non impedisce che la decisione si fondi su ragioni che, pur non specificamente fatte valere dall’appellante, siano tuttavia in rapporto di diretta connessione con quelle espressamente dedotte, costituendone necessario antecedente logico e giuridico’. Questo vuol dire, leggendo a contrariis il principio, che al giudice d’appello è assolutamente precluso estendere i propri accertamenti e le proprie statuizioni ai punti non ricompresi, neanche implicitamente, nel tema esposto nei motivi d’impugnazione, salvo che si tratti di questioni in rapporto di diretta connessione con quelle espressamente dedotte, costituendone necessario antecedente logico e giuridico.
Appare a tale stregua corretta e rispettosa del disposto dell’art. 342 c.p.c., e dell’effetto devolutivo dell’appello ad esso connaturato e così riepilogato, l’affermazione della sentenza impugnata secondo cui ‘la chiara individuazione delle questioni e dei punti contestati della decisione gravata, se da un lato rende ammissibile l’appello, dall’altro, circoscrive l’ambito dell’impugnazione, delimitandola entro i confini delle critiche e espressamente e motivatamente dedotte’.
Nel caso di specie, è pacifico, avendolo la parte ricorrente espressamente ammesso anche nel ricorso, che nell’atto di appello le critiche alla sentenza di primo grado fossero circoscritte al solo profilo della scientia decoctionis , non essendo stato invece, in alcun modo, investito il giudice d’appello del tema di indagine relativo all’elemento oggettivo dell’azione revocatoria fallimentare e, quindi, alla natura dei pagamenti posti in essere dalla fallita o dal terzo, quali atti estintivi dei debiti della Banca.
Ne consegue che, correttamente, il giudice d’appello non ha inteso -né poteva estendere l’ambito della sua cognizione ad un profilo, qual è quello oggettivo dell’azione revocatoria, che non ha nessun rapporto di connessione diretta, non costituendo certo antecedente
logico e giuridico del punto della decisione, con la scientia decoctionis , unico oggetto del gravame. Infatti, ben diversa è la questione relativa alla individuazione e alla natura dei pagamenti revocabili, così come la ricostruzione dell’operazione triangolare coinvolgenti nella vicenda i terzi, rispetto a quella della consapevolezza da parte del creditore dello stato di insolvenza (di un diverso soggetto, e cioè proprio) del debitore poi fallito al momento in cui riceve i pagamenti. Così come, in generale e quale espressione del medesimo principio, la impugnazione di alcuni capi soltanto della sentenza implica acquiescenza parziale ex art.329 co. 2 c.p.c., «atteso che il giudice deve accertare anche d’ufficio quali siano i limiti oggettivi dell’impugnazione» (Cass. 3664/2013, 33/2008, 9141/2007).
Infine, va osservato che le argomentazioni svolte dalla ricorrente in ordine ai limiti del giudicato interno sono nella fattispecie irrilevanti, finendo con l’essere meramente nominalistiche, posto che ciò che conta è che, sull’elemento oggettivo dell’azione revocatoria fallimentare, la corte di merito ha chiaramente evidenziato che ne era irrimediabilmente precluso l’esame, secondo i canoni processuali imposti dall’art. 342 c.p.c. e, per l’effetto di tale corretta interpretazione della norma sull’accesso selettivo riservato all’appello, il giudicato sul punto del tutto diverso da quello attinente all’elemento soggettivo – appariva la coerente conseguenza opposta alle doglianze della parte, trattandosi di punto decisivo della statuizione impugnata suscettibile di acquisire forza di giudicato interno in assenza di contestazione (Cass. 9202/2018, 30129/2024).
Né si può invero affermare che i punti trascurati fossero ‘coessenziali’, se non nella ovviamente del tutto diversa prospettiva dell’accoglimento complessivo della domanda, ma non anche nella individuazione del ‘fatto’, posto che la ricostruzione dell’operazione involgente l’atto del terzo e la sua portata
depauperatrice del patrimonio della fallita hanno integrato la natura solutoria di un atto, di rilevanza economica assunta dal diritto concorsuale necessaria ad integrare un preciso e conchiuso elemento costitutivo dell’azione, a sua volta per quanto detto -di inquadramento giuridico ‘secondo le norme fallimentari’ e di derivato ‘effetto’ da esse scaturenti, all’insegna della menzionata veste di atto solutorio racchiuso nella qualificazione finale di ‘pagamento’. Ben separato e autonomo restava invero l’altro elemento, afferente alla relazione dell’ accipiens addirittura con il diverso soggetto, il debitore e circoscritto ad un altro fatto, cioè la conoscenza dello stato d’insolvenza del secondo in capo al primo in occasione del compimento degli atti già autonomamente ricostruiti (oltre ai precedenti sopra cit., Cass. 3035/2024).
8.1 Il primo motivo del ricorso incidentale denuncia, ai sensi dell’art. 360, comma 1, n. 3, c .p.c., la violazione e falsa applicazione degli artt. 1180 c.c. e 65 L.F.: la valutazione di gratuità od onerosità di un negozio non dipende dalla mera verifica dell’esistenza o meno di una controprestazione a favore del solvens , ma richiede l’apprezzamento dell’interesse sotteso all’intera operazione; la causa concreta deve allora considerarsi onerosa tutte le volte in cui il terzo riceva un vantaggio per la sua prestazione (dal debitore, dal creditore o anche da altri), così da recuperare anche indirettamente la prestazione adempiuta ed elidere quel pregiudizio cui l’ordinamento pone rimedio con l’inefficacia ex lege .
Occorreva allora considerare che nel caso di specie i pagamenti erano stati effettuati dalla società poi fallita senza l’intento di arricchire indirettamente i noleggiatori o la banca, ma per acquistare e conservare la proprietà dei veicoli a cui si riferivano i finanziamenti.
8.2 Il secondo motivo del ricorso incidentale lamenta, ai sensi dell’art. 360, comma 1, n. 3, c .p.c., la violazione e falsa
applicazione degli artt. 1180 c.c. e 67, comma 1, n. 2, L.F.: la ricorrente, una volta ribadito che la valutazione di gratuità od onerosità di un negozio va compiuta con esclusivo riguardo alla causa concreta, ha sostenuto che i pagamenti effettuati da RAGIONE_SOCIALE alla banca erano atti a titolo oneroso, sia perché erano stati effettuati per acquistare e conservare la proprietà dei veicoli a cui si riferivano i finanziamenti, sia perché erano avvenuti per estinguere anticipatamente le rate del contratto di finanziamento, secondo un meccanismo estraneo alle ordinarie relazioni commerciali e, come tali, costituivano un’operazione anomala.
I due motivi, da trattare congiuntamente per la loro parziale sovrapponibilità, sono inammissibili.
La Corte di merito ha rilevato (a pag. 16 della decisione impugnata) che i pagamenti eseguiti dalla RAGIONE_SOCIALE avevano avuto il carattere della gratuità e, comunque, la relativa qualificazione in questi termini non risultava censurata.
Ora, è ben vero che, in tema di dichiarazione di inefficacia degli atti a titolo gratuito, ai sensi dell’art. 64 L.F., la valutazione di gratuità od onerosità di un negozio va compiuta con esclusivo riguardo alla causa concreta, costituita dalla sintesi degli interessi che lo stesso è concretamente diretto a realizzare, al di là del modello astratto utilizzato, e non può quindi fondarsi sull’esistenza, o meno, di un rapporto sinallagmatico e corrispettivo tra le prestazioni sul piano tipico ed astratto, ma dipende necessariamente dall’apprezzamento dell’interesse sotteso all’intera operazione da parte del “solvens”, quale emerge dall’entità dell’attribuzione, dalla durata del rapporto, dalla qualità dei soggetti e soprattutto dalla prospettiva di subire un depauperamento, collegato o meno ad un sia pur indiretto guadagno ovvero ad un risparmio di spesa. Pertanto, nell’ipotesi di estinzione da parte del terzo, poi fallito, di un’obbligazione preesistente cui egli sia estraneo, l’atto solutorio può dirsi gratuito, ai predetti effetti solo quando dall’operazione – sia essa a struttura
semplice perché esaurita in un unico atto, sia a struttura complessa, in quanto si componga di un collegamento di atti e di negozi -il terzo non tragga nessun concreto vantaggio patrimoniale, avendo egli inteso così recare un vantaggio al debitore; mentre la causa concreta deve considerarsi onerosa tutte le volte che il terzo riceva un vantaggio per questa sua prestazione dal debitore, dal creditore o anche da altri, così da recuperare anche indirettamente la prestazione adempiuta ed elidere quel pregiudizio, cui l’ordinamento pone rimedio con l’inefficacia ex lege (Cass. Sez. U., 18/03/2010, n. 6538, Rv. 612300 – 01).
La Corte d’appello, tuttavia, non ha compiuto affermazioni contrarie a questo principio, ma ha attribuito al creditore beneficiario del pagamento l’onere di provare che il disponente abbia ricevuto un vantaggio in seguito al compimento dell’atto che ha posto in essere, in quanto perseguiva un suo interesse economicamente apprezzabile, e ha rilevato che nessuna allegazione e prova in questo senso è stata fornita, in particolare circa l’esistenza di un’espromissione o di un accollo.
Ambedue i mezzi, dunque, risultano inammissibili, sia perché non considerano, né tanto meno contestano, il riparto dell’onere della prova compiuto dalla Corte distrettuale, sia perché mirano a superare la constatazione -appartenente al merito della controversia e non sindacabile in questa sede di legittimità relativa alla mancata dimostrazione, in adempimento di tale onere, del fatto che il terzo poi fallito avesse ricevuto un qualsiasi vantaggio per la sua prestazione.
10. Il terzo motivo del ricorso incidentale prospetta, ai sensi dell’art. 360, comma 1, n. 3, c.p.c., la violazione o falsa applicazione degli artt. 67, comma 2, L.F. e 2697 c.c., in quanto, diversamente da quanto ritenuto dalla Corte territoriale, già prima della data di pubblicazione della domanda di concordato nel registro delle imprese esistevano numerosi segnali della crisi
finanziaria in cui versava RAGIONE_SOCIALE, che non potevano sfuggire ad un operatore qualificato come RAGIONE_SOCIALE RAGIONE_SOCIALE, quali il fatto che la società fosse stata posta in liquidazione e la dinamica dei pagamenti effettuati dalla società poi fallita, che, pur non essendo obbligata in prima persona, aveva estinto anticipatamente le rate del contratto di finanziamento.
11. Il motivo è inammissibile, per una concorrente serie di motivi.
In primo luogo, la procedura ricorrente non si confronta con la decisione impugnata, laddove la stessa ha rilevato (a pag. 19) la genericità delle circostanze addotte dal fallimento (anomalia della dinamica dei pagamenti) a sostegno della richiesta di collocazione temporale della scientia decoctionis in epoca anteriore alla pubblicazione della domanda di concordato nel registro delle imprese.
Il che comporta l’inammissibilità della censura, posto che il ricorso per cassazione deve contestare specificamente la ratio decidendi posta a fondamento della pronuncia impugnata (Sez. 6 – 3, Ordinanza n. 19989 del 10/08/2017, Rv. 645361 – 01).
Peraltro, la deduzione in questa sede di circostanze nuove (quali la condizione di liquidazione della società) risulta inammissibile, perché attiene a un profilo -comportante accertamenti in fatto che non è stato affrontato nella sentenza impugnata, cosicché il ricorrente incidentale avrebbe dovuto preliminarmente chiarire se tale allegazione fosse stata effettivamente e tempestivamente devoluta alla cognizione del giudice dell’appello (cfr., fra molte, Cass. 18/10/2013 n. 23675).
12. La Corte territoriale ha ritenuto (a pag. 19) che il rigetto dell’appello rispetto all’azione revocatoria fallimentare introdotta ex art. 67, comma 2, L.F. avesse carattere assorbente delle ulteriori questioni sollevate dalla procedura appellante incidentale con il quarto motivo di ricorso e relative alla domanda presentata in via subordinata ex artt. 2901 c.c. e 66 L.F.
Una simile statuizione comporta l’impossibilità di esaminare le deduzioni compiute, da ultimo, dalla procedura (a pag. 34 del controricorso), con cui sono state riproposte le domande, formulate in primo grado e riproposte in appello, ai sensi degli artt. 66 L.F., 2901 c.c. e 167 L.F.
Invero, nel giudizio di legittimità non possono trovare ingresso, e perciò non sono esaminabili, le questioni sulle quali, per qualunque ragione, il giudice inferiore non si sia pronunciato per averle ritenute assorbite in virtù dell’accoglimento di un’eccezione pregiudiziale; con la conseguenza che, in dipendenza della cassazione della sentenza impugnata per l’accoglimento del motivo attinente alla questione assorbente, l’esame delle ulteriori questioni oggetto di censura va rimesso al giudice di rinvio, salva l’eventuale ricorribilità per cassazione avverso la successiva sentenza che abbia affrontato le suddette questioni precedentemente ritenute superate (cfr. Cass., Sez. U., 15122/2013, Cass. 23558/2014, Cass. 4804/2007).
Le spese di lite si liquidano come in dispositivo, ponendole a carico della ricorrente principale, in ragione della sua soccombenza prevalente in relazione alle questioni trattate, previa compensazione nella misura di due terzi, in considerazione della portata della soccombenza della controricorrente.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso principale.
Dichiara inammissibile il ricorso incidentale.
Condanna la ricorrente principale al pagamento, in favore della controricorrente, delle spese processuali, che liquida, previa compensazione nella misura di 2/3 e pertanto già nella somma finale di € 2.200,00, di cui € 200,00 per esborsi, oltre spese forfettarie nella misura del 15% ed accessori di legge.
Ai sensi dell’art. 13 comma 1 quater del d.P.R. n. 115 del 2002, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento da parte
sia della ricorrente principale che della ricorrente incidentale dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso principale, a norma del comma 1° bis dello stesso articolo 13.
Così deciso in Roma il 15.10.2025
Il Presidente NOME COGNOME