Ordinanza di Cassazione Civile Sez. 2 Num. 22792 Anno 2025
Civile Ord. Sez. 2 Num. 22792 Anno 2025
Presidente: COGNOME
Relatore: NOME
Data pubblicazione: 07/08/2025
ORDINANZA
sul ricorso 29046 – 2019 proposto da:
RAGIONE_SOCIALE in persona del legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliata in Roma, INDIRIZZO presso lo studio dell’avv. NOME COGNOME, rappresentata e difesa dall’avv. NOME COGNOME giusta procura in calce al ricorso, con indicazione degli indirizzi pec;
– ricorrente –
contro
COGNOME NOMECOGNOME elettivamente domiciliato in Roma, presso la cancelleria della Corte di Cassazione e presso il domicilio digitale dell’avv. NOME COGNOME dal quale è rappresentato e difeso, giusta procura allegata al controricorso, con indicazione de ll’ indirizzo pec;
– controricorrente e ricorrente incidentale –
avverso la sentenza della CORTE D’APPELLO DI FIRENZE n. 458/2019, pronunciata in data 5/2/2019 e pubblicata in data 27/2/2019; udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del 12/12/2024 dal consigliere NOME COGNOME lette le memorie delle parti.
FATTI DI CAUSA
Con atto di citazione notificato il 10 febbraio 2005, l’architetto NOME COGNOME convenne in giudizio la società RAGIONE_SOCIALE chiedendone la condanna al pagamento, in suo favore, del compenso dovutogli, scomputati gli acconti ricevuti, per l ‘ attività professionale prestatale.
In particolare, egli rappresentò che nel dicembre del 1995, era stato incaricato dalla società di progettare e curare la realizzazione di un fabbricato polifunzionale su un terreno in proprietà nel comune di Signa (Firenze); il 3 marzo 1997 era stato sottoscritto un accordo con cui era stato pattuito un compenso forfettario di £. 220.000.000, di cui erano stati corrisposti £.50.000.000; questo primo progetto era stato depositato presso il comune di Signa il 28 giugno 1997, non seguito dal rilascio di alcuna concessione; dopo pochi mesi, quindi, egli aveva elaborato un secondo progetto, depositato e seguito dal rilascio di una concessione, mai tuttavia ritirata dalla società.
I rapporti con la controparte si erano successivamente deteriorati e la società aveva interrotto ogni pagamento e gli aveva contestato l’inadempimento all’obbligo di progettare un’opera di valore inferiore a cinque miliardi di lire.
Costituendosi, la società eccepì il difetto di legittimazione attiva dell’attore , sostenendo che il contratto fosse stato stipulato con lo studio associato «RAGIONE_SOCIALE COGNOME RAGIONE_SOCIALE COGNOME» e chiese comunque, in riconvenzionale, di dichiarare la risoluzione del contratto d’opera per inadempimento o, in subordine, l’ annullamento per dolo o, in ulteriore
subordine, l’annullamento per errore essenziale, oltre al risarcimento dei danni, alla restituzione di quanto corrisposto come compenso; in particolare, la convenuta dedusse che il secondo progetto non costituiva una prestazione differente e autonoma, ma unicamente la modifica del primo progetto allo scopo di emendarne gli errori e rappresentò che comunque l’opera rimaneva irrealizzabile anche in esito alle modifiche.
Con sentenza n. 2108/2010, il Tribunale di Firenze, in parziale accoglimento della domanda principale, condannò la società al pagamento della somma di Euro 160.091,69, oltre interessi.
Per quel che qui ancora rileva, i l Tribunale rigettò l’ecce zione di difetto di legittimazione attiva di NOME COGNOME escluse che il secondo progetto costituisse rimedio agli errori del primo progetto e lo considerò quale variante sostitutiva il cui corrispettivo era da calcolare applicando le tariffe vigenti all’epoca e riconobbe la maggiorazione chiesta dal professionista per l’interruzione dell’incarico , seguita alla scelta del committente di non ritirare la concessione e quindi di non utilizzare il progetto approvato; infine, riconobbe uno specifico importo da liquidare all’architetto per l’attività di analisi e progettazione svolta per edificare un secondo lotto di terreno, pure di proprietà della società, confinante con quello su cui sarebbe sorta l’opera principale; per tale secondo progetto l’ importo fu quantificato nella somma di Euro 14.225,19.
Con sentenza n. 458/2019, la Corte di appello di Firenze, adita dalla società RAGIONE_SOCIALE confermò la legittimazione attiva dell’appellato che aveva personalmente svolto l’attività professionale, dichiarò inammissibile per tardività la produzione in giudizio, da parte dell’appellante , della fattura n. 64/98, attestante un ulteriore pagamento «a saldo» in favore dell’architetto , confermò che il secondo progetto non era stato causato dalla necessità di correggere il primo,
ma era seguito alla sopravvenienza di un nuovo contesto di pianificazione territoriale.
La Corte ridusse, tuttavia, l’importo spettante, rilevando che il Tribunale non aveva considerato che il corrispettivo, pari a £. 220.000.000, era stato concordato dalle parti nel contratto del 3 marzo 1997 per l’intera attività da svolgere fino al completamento dell’opera, incluso il progetto iniziale e che, in conseguenza, doveva essere detratto, dall’importo finale , il compenso previsto per le attività programmate ma non eseguite; ritenne, invece, di determinare il compenso dell’attività di redazione del nuovo progetto in applicazione delle tariffe professionali vigenti all’epoca, nella complessiva misura di Euro 67.583,23, perché le modifiche apportate al secondo progetto costituivano una variante non ordinaria; affermò, infine, che l’importo complessivo liquidato in Euro 101.121,57 doveva intendersi come comprensivo della maggiorazione per le prestazioni accessorie svolte.
In conseguenza, accertò e quantificò il credito di NOME COGNOME per il compenso dell’ attività svolta in favore della società RAGIONE_SOCIALE, nella misura complessiva di Euro 67.551,87, al netto degli acconti già versati dalla società, pari ad Euro 33.569,70, oltre agli interessi legali dalla data di messa in mora e condannò NOME COGNOME alla restituzione di quanto percepito in eccesso, oltre agli interessi legali dalla data di pagamento al saldo, confermando nel resto la sentenza appellata e condannando la società RAGIONE_SOCIALE al pagamento del 50% delle spese legali del secondo grado di giudizio, determinate per detta parte in Euro 6.850,00 per compensi professionali, oltre il rimborso spese generali, IVA e CPA come per legge, compensando il residuo.
Avverso questa sentenza ha proposto ricorso per cassazione la società RAGIONE_SOCIALE affidandolo a quattro motivi; NOME COGNOME ha resistito con controricorso e proposto ricorso incidentale
per un unico motivo, a cui la società ha resistito con controricorso; entrambe le parti hanno depositato memorie.
RAGIONI DELLA DECISIONE
Con il primo motivo, RAGIONE_SOCIALE ha denunciato, in riferimento al n. 5 del comma I dell’art. 360 cod. proc. civ., l’omesso esame della intestazione della fattura n. 6/69 e della fattura n.7/2003.
Secondo la ricorrente, la Corte d’appello avrebbe erroneamente stabilito che il compenso della variante avrebbe dovuto essere calcolato in base alle tariffe professionali vigenti all’epoca, a causa della non applicabilità della convenzione del 3 marzo 1997 : l’ errore sarebbe conseguenza dell’omessa valutazione della causale della fattura n.6/1999, «a saldo per prestazioni professionali inerenti a progetto variante» e della fattura n.7/2003, «porzione di trance prevista per concessione edilizia» (così testualmente), entrambe poste a fondamento dell’ appello sul punto; dal contenuto delle causali di queste fatture la Corte territoriale avrebbe dovuto agevolmente riconoscere l’esistenza di un accordo tra le parti anche sulla liquidazione del compenso per la variante e il suo avvenuto integrale pagamento; in particolare, il fatto che il professionista avesse emesso delle note «a saldo» dimostrerebbe che egli stesso aveva ritenuto le ulteriori prestazioni rese per la modifica del progetto iniziale definitivamente pagate e ancora pienamente efficace il contratto di conferimento di incarico intercorso; il compenso dovuto non potrebbe, pertanto, che essere quello convenuto tra le parti, in quanto, ai sensi dell’art. 2233 cod. civ. , l’accordo delle parti prevale sulla liquidazione dei compensi secondo tariffa; non vi sarebbe alcuna prova che l’originario contratto sia stato risolto, se non un ‘ errata presunzione del consulente tecnico, secondo cui il fatto che la variante modificasse il progetto iniziale avrebbe comportato inevitabilmente il superamento del conferimento dell’incarico del 3 marzo 1997 .
1.1. Il motivo è infondato.
Preliminarmente, deve rilevarsi che, diversamente da quanto eccepito dal controricorrente, non è applicabile alla fattispecie, ratione temporis , la preclusione della censura riferita al vizio ex n. 5 del comma primo dell’art. 360 cod. proc. civ., come posta dall’ art. 348 ter, comma V, cod. proc. civ., nella formulazione introdotta dall’art. 54 d.l. 22 giugno 2012, n. 83, conv., con modif., in l. 7 agosto 2012, n. 134, per essere stato l’appello introdotto nel 20 11.
I due fatti di cui sarebbe stato omesso l’esame, tuttavia, risultano comunque non decisivi rispetto alla motivazione della sentenza impugnata.
La Corte d’appello , richiamando la motivazione del Tribunale, ha ritenuto che la pattuizione del 3 marzo 1997 sul compenso doveva intendersi riferita soltanto al primo progetto presentato il 28 giugno 1997 e non a quello presentato in data 22 settembre 1998. Sul punto, esplicitamente ha affermato «di dovere condividere le motivazioni con le quali il giudice di primo grado, sulla base delle risultanze della CTU richiamate e trascritte in sentenza, ha statuito che sia il primo che il secondo progetto, costituenti l’attività svolta dal professionista, non presentavano errori progettuali e che, in particolare, l’ulteriore attività svolta dal professionista che aveva portato al deposito di un nuovo progetto, esaminato ed esitato dal Comune di Signa con il rilascio della relativa concessione edilizia, non era stata svolta, come assunto dall’appellante, per porre rimedio ad errori del primo progetto , ma su espressa richiesta della committente che aveva inteso sfruttare a proprio favore le ulteriori possibilità edificatorie medio tempore intervenute». Ha, quindi, rimarcato che «il c.t.u., dopo avere descritto il diverso contesto della pianificazione territoriale in cui si inserivano le due versioni progettuali elaborate dall’ arch. NOME COGNOME e, dopo avere confrontato il primo progetto, depositato presso il Comune di
Signa, con il secondo progetto, sviluppato a seguito della variazione dei parametri urbanistici e nuovamente depositato in Comune, il cui iter si era concluso con il rilascio della concessione, ha concluso affermando che ‘l e motivazioni della redazione del secondo progetto non possono essere ricercate nella necessità di adeguamento del primo a causa dell’errata previsione delle altezze utili interne dei vari vani o di conseguire il rispetto della normativa antincendio od infine dell’ulteriore normativa in materia di parcheggi o spazi a verde».
Pertanto, la Corte d’appello ha motivato la inapplicabilità dell’accordo sul compenso, stipulato in data 3 marzo 1997, al secondo progetto, sul riscontro in fatto dell’ autonomia del primo progetto che ne è stato oggetto, come già aveva ritenuto il Giudice di primo grado.
Ciò posto, per giurisprudenza consolidata, il mancato esame di un documento può essere denunciato per cassazione soltanto nel caso in cui determini l’omissione di motivazione su un punto decisivo della controversia e, segnatamente, quando il documento non esaminato offra la prova di circostanze di tale portata da invalidare, con un giudizio di certezza e non di mera probabilità, l’efficacia delle altre risultanze istruttorie che hanno determinato il convincimento del giudice di merito, di modo che la ratio decidendi venga a trovarsi priva di fondamento (cfr., tra le tante, Sez. 6 – 5, n. 19150 del 28/09/2016; Sez. 1 n. 16583 del 13/06/2024).
Spetta, infatti, in via esclusiva al giudice di merito il compito di individuare le fonti del proprio convincimento, di controllare l’attendibilità e la concludenza delle prove, di scegliere, tra le complessive risultanze del processo, quelle ritenute maggiormente idonee a dimostrare la veridicità dei fatti ad essi sottesi, dando, così, liberamente prevalenza all’uno o all’altro dei mezzi di prova.
Conseguentemente, per potersi configurare il vizio di motivazione su un punto decisivo della controversia, è necessario un
rapporto di causalità fra la circostanza che si assume trascurata e la soluzione giuridica data alla controversia, tale da far ritenere che quella circostanza, se fosse stata considerata, avrebbe portato ad una diversa soluzione della vertenza.
Ebbene, le causali delle due fatture non presentano questo carattere di decisività, sol che si consideri il loro collegamento come prospettato dalla stessa società ricorrente: invero, la causale della seconda fattura, la n. 7/2003, emessa dopo circa cinque anni dalla redazione del secondo progetto e comunque collegata alla fattura n. 6/99 nella prospettazione della stessa società ricorrente, giustifica il pagamento come «porzione di trance prevista per concessione edilizia»: lo stesso utilizzo dei termini «porzione» e « tranche » esclude allora che il termine «saldo per prestazioni professionali inerenti a progetto variante» utilizzato nella prima e precedente causale, collegata secondo la stessa prospettazione in ricorso, significhi inequivocabilmente l’avvenuto pagamento di tutto quanto dovuto.
In tal senso, la motivazione in fatto sulla autonomia di regolamentazione dei due progetti e sulla spettanza, per il secondo, di un compenso secondo tariffa non risulta adeguatamente censurata.
1.2. Con il secondo motivo, la società ha sostenuto, in riferimento al n. 4 del comma I dell’art. 360 cod. proc. civ., la violazione e falsa applicazione degli articoli 115 e 116 cod. proc. civ.
Secondo la ricorrente, laddove si ritenga che la Corte abbia tenuto conto della fattura n. 6/99, la stessa sarebbe caduta in un errore di percezione, che a differenza dell’errore di valutazione, è suscettibile di formare oggetto di ricorso per Cassazione, in quanto violerebbe l’art. 115 cod. proc. civ., norma che vieta di fondare la decisione su prove reputate assenti ma in realtà offerte; l ‘errore di percezione sarebbe ravvisabile nell’avere la Corte territoriale definito il pagamento della fattura n. 6/99 come acconto piuttosto che saldo; se la Corte d’appello
avesse invece riconosciuto che la fattura era a saldo, avrebbe concluso per l’esistenza di un accordo tra le parti circa la liquidazione del compenso per la variante e per il conseguente avvenuto pagamento integrale della variante stessa. L’art. 11 6 cod. proc. civ. sarebbe stato, quindi, violato nella misura in cui il Giudice non ha deciso sulla base delle prove proposte dalle parti, ovvero ne ha travisato il contenuto a causa di una valutazione non qualificabile come «prudente».
2.1. Anche questo motivo è inammissibile, in quanto si risolve in una richiesta di rivalutazione dei fatti raccolti nel giudizio di merito, preclusa a questa Corte.
Le Sezioni unite hanno chiarito che il travisamento del contenuto oggettivo della prova ricorre in caso di svista concernente il fatto probatorio in sé e non di verifica logica della riconducibilità dell’informazione probatoria al fatto probatorio (Sez. U, Sentenza n. 5792 del 05/03/2024): la ricorrente ha proprio lamentato questo secondo vizio, prospettando che il travisamento rifletta la lettura del fatto probatorio individuato nella causale della fattura n.6/99.
Questo vizio, allora, secondo la interpretazione del travisamento offerta dalle Sezioni Unite, trova il suo istituzionale rimedio nell’impugnazione ai sensi dell’art. 360, n. 4 o n. 5, cod. proc. civ., a seconda che si tratti di fatto processuale o sostanziale.
Come già chiarito al punto 1.1., tuttavia, nella specie non sussiste alcun vizio ex n. 5 perché la causale delle fatture non ha significato univoco e decisivo.
2.2. Quanto, poi, alla violazione degli art. 115 e 116 cod. proc. civ., per dedurre la violazione dell’art. 115 cod. proc. civ., occorre denunciare che il giudice, in contraddizione espressa o implicita con la prescrizione della norma, abbia posto a fondamento della decisione prove non introdotte dalle parti, ma disposte di sua iniziativa fuori dei poteri officiosi riconosciutigli: la diversa doglianza che egli, nel valutare
le prove proposte dalle parti, abbia attribuito maggior forza di convincimento ad alcune piuttosto che ad altre è, invece inammissibile perché questa attività valutativa è consentita dall’art. 116 cod. proc. civ..
La censura di violazione dell’art. 116 cod. proc. civ. è, a sua volta, ammissibile soltanto ove si alleghi che il giudice, nel valutare una prova o, comunque, una risultanza probatoria, non abbia operato – in assenza di diversa indicazione normativa -secondo il suo «prudente apprezzamento», nel senso che o abbia attribuito alla prova il valore che il legislatore attribuisce a una differente risultanza probatoria (come, ad esempio, valore di prova legale), oppure, qualora la prova sia soggetta ad una specifica regola di valutazione, abbia dichiarato di valutare la stessa secondo il suo prudente apprezzamento.
Nessuna delle due ipotesi ricorre nella fattispecie, perché è stato, invece, dedotto l’esercizio non corretto del «prudente apprezzamento» della prova, sicché in tale ipotesi la censura è ammissibile, ai sensi del novellato art. 360, I comma, n. 5, cod. proc. civ., soltanto nei rigorosi limiti in cui ancora è consentito il sindacato di legittimità sui vizi di motivazione (Sez. U, n. 20867 del 30/09/2020; Sez. 6 – 2, Ordinanza n. 27847 del 12/10/2021): ancora una volta, tuttavia, questo vizio è stato già escluso al richiamato punto 1.1.
3. Con il terzo motivo, la ricorrente ha lamentato, in riferimento al n. 4 del comma I dell’art. 360 cod. proc. civ., la violazione e falsa applicazione dell’art. 345 cod. proc. civ., nella formulazione introdotta dall’art. 46, comma 18, della l. 18 giugno 2009, n. 69, precedente la ulteriore modifica del 2012: la Corte d’appello avrebbe dovuto provvedere all’acquisizione e alla valutazione del la fattura n. 64/98, attestante un pagamento di lire 20.000.000 per onorari e spese in conto a prestazioni professionali, come ritrovata in corso di causa, perché non era stato possibile produrla tempestivamente e comunque
perché indispensabile; in tal senso, la Corte territoriale avrebbe infondatamente escluso la decisività in riferimento a dichiarazioni rese dai procuratori delle parti nell’udienza dell’8/11/2011, quando ancora non era stato reperito il documento.
3.1. Il motivo è infondato, seppure la motivazione della Corte d’appello dev’e ssere integrata.
Dalla lettura della sentenza, invero, la produzione della fattura oggetto della presente censura è avvenuta all’udienza del 5/12/2017, cioè all’udienza in cui, dopo la rimessione sul ruolo per l’integrazione della indagine tecnica, era conferito incarico al c.t.u.
Questa produzione, allora, risulta certamente tardiva e inammissibile anche per l’art. 345 cod. proc. civ. nella formulazione posteriore alla riforma del 2009 e anteriore alla nuova modifica operata nel 2012.
Questa Corte, invero, ha già stabilito che i documenti, quand’anche in ipotesi indispensabili , possono essere prodotti in sede di gravame, purché la produzione avvenga, a pena di decadenza, mediante specifica indicazione nell’atto introduttivo del secondo grado di giudizio, salvo che la loro formazione sia successiva e la loro produzione si renda necessaria in ragione dello sviluppo assunto dal processo (Cass. Sez. 2, Ordinanza n. 12574 del 10/05/2019 con numerosi richiami; in ultimo, non mass., Sez. 2, n. 30792 del 2023; Sez. 1, n. 23881 del 2023). Resta operante, infatti, anche nell’ipotesi dell’art. 345, comma III cod. proc. civ., nel testo applicabile ratione temporis , la necessità, in base alle norme previste dagli artt. 163 e 166, richiamati dagli artt. 342, comma I, e 347, comma I, cod. proc. civ., che i nuovi documenti (i quali, peraltro, possono avere ad oggetto tanto un fatto già allegato in primo grado, quanto, come nella specie, un fatto nuovo, vale a dire allegato per la prima volta in appello perché sopravvenuto o perché, pur preesistente, divenuto rilevante solo grazie
al tenore della sentenza di primo grado) siano prodotti, a pena di decadenza, mediante specifica indicazione degli stessi nell’atto introduttivo del giudizio di secondo grado.
Con il quarto motivo, infine, la società ha sostenuto, in riferimento al n. 3 del comma I dell’art. 360 cod. proc. civ., la violazione e falsa applicazione degli articoli 336, 91 e 92 cod. proc. civ., per non avere la Corte d’appello proceduto, pur riducendo l’ammontare del compenso dovuto al professionista, a riformare anche la statuizione sulle spese di primo grado che aveva condannato la società alla refusione integrale delle spese.
4.1. All’esame di questo motivo deve procedersi dopo lo scrutinio di fondatezza del ricorso incidentale, perché quest’ultimo risulta logicamente preordinato.
Con l’unico motivo di ricorso incidentale , NOME COGNOME ha denunciato la nullità della sentenza, ex n. 4 del comma primo dell’art. 360 cod. proc. civ., perché la Corte d’appello, nel provvedere al ricalcolo del compenso spettante, ha del tutto omesso di valutare che, come rappresentato nelle seconde memorie conclusionali, la condanna al pagamento del compenso di Euro 14.225,19, riconosciuto dal primo Giudice per l’attività di rilievo e progettazione di massima per il lotto confinante, non era stato oggetto di impugnazione e, perciò, era passata in giudicato.
5.1. Il motivo è fondato. ll giudicato esterno, al pari di quello interno, risponde alla finalità d’interesse pubblico di eliminare l’incertezza delle situazioni giuridiche e di rendere stabili le decisioni, sicché il suo accertamento non costituisce patrimonio esclusivo delle parti; pertanto il giudice al quale ne risulti l ‘ esistenza non è vincolato dalla posizione assunta da queste ultime in giudizio, potendo procedere al suo rilievo e valutazione anche d ‘ ufficio, in ogni stato e grado del processo (Cass. Sez. L, n. 8607 del 03/04/2017; Sez. 1, n. 15627 del
27/07/2016). In tal senso, il rilievo della sussistenza di un giudicato interno può essere anche sollecitato in comparsa conclusionale quando, come nella specie, non implichi l’allegazione di un fatto nuovo ma unicamente l’esame degli atti processuali allo scopo di valutare l’impugnazione di tutti i capi della sentenza impugnata.
Dall’esame congiunto della sentenza di primo grado e dell’atto di appello di RAGIONE_SOCIALE prodotti dalla stessa ricorrente, consentito a questa Corte perché la censura involge l’omesso rilievo del giudicato, si rileva che l’unica somma a cui la società appellante è stata condannata era composta, nella sentenza di primo grado, da più addendi a diverso titolo, tra cui la somma di Euro 14.225,19 a compenso del l’attività di rilievo e progettazione di massima per il lotto confinante.
L’atto di appello non contiene alcuna contestazione sulla spettanza di questo importo: in nessuna parte dell’atto di impugnazione si argomenta in merito al riconoscimento e alla quantificazione di un compenso per l’attività di progettazione di massima relativa al lotto confinante.
Per principio consolidato, sia pur con riguardo al testo dell’art. 342, comma 1°, cod. proc. civ., nel testo applicabile ratione temporis , e cioè, come detto, antecedente alle modifiche apportate dal d.l. n. 83 del 2012, conv. con I. n. 134 del 2012, un capo di sentenza può ritenersi validamene impugnato soltanto se l’atto di appello contenga una parte argomentativa che, contrapponendosi alla motivazione della sentenza impugnata, con espressa e motivata censura, miri ad incrinarne il fondamento logico-giuridico (Cass. 12574/2019 cit. con indicazione dei precedenti).
Ciononostante, la Corte d’appello non risulta aver rilevato il giudicato formatosi sulla spettanza della somma di Euro 14.225,19, dovuta a retribuzione «dell’analisi di massima e della progettazione
sommaria del terreno confinante, attività non prodromica e non connessa all’attività che ha avuto ad oggetto il centro polifunzionale» (pag. 11 utimo capoverso della sentenza di primo grado), laddove, in riforma della decisione impugnata, ha liquidato l’importo complessivo di Euro 101.121,57: a pag. 9, punto 5.4, infatti, la Corte territoriale ha riportato soltanto c he all’arch. COGNOME andasse riconosciuto « per l’attività svolta in favore della odierna appellante e oggetto del presente giudizio, un compenso complessivo di euro 101.121,57 e che detto importo deve ritenersi comprensivo, così come risulta dalla espletata c.t.u., della maggiorazione per tutte le prestazioni accessorie svolte, ivi comprese gli onorari per il rilievo del lotto e le altre prestazioni svolte con riferimento al progetto e documentate in atti, quali la redazione dei depliant illustrativi, i contatti con gli acquirenti o conduttori etc.. »
Sul punto, pertanto, la sentenza impugnata deve essere cassata.
Dall’accoglimento del ricorso incidentale deriva, in logica conseguenza, l’assorbimento del quarto motivo di ricorso principale concernente la statuizione sulle spese.
Il ricorso incidentale è, perciò accolto, mentre sono respinti i primi tre motivi di ricorso principale ed è assorbito il quarto motivo; nei limiti dell’accoglimento la sentenza impugnata deve essere cassata, con rinvio alla Corte d’appello di Firenze, in diversa composizione, perché, fermo ogni altro accertamento sul compenso relativo al progetto originale e alla variante, consideri, nella liquidazione finale, la spettanza del compenso di Euro 14.225,19, come riconosciuto in primo grado all’architetto per l’attività di analisi e progettazione svolta per il secondo lotto di terreno confinante, per essere passata in giudicato la relativa statuizione.
Decidendo in rinvio, la Corte d’appello regolerà anche le spese di legittimità.
P.Q.M.
La Corte accoglie il ricorso incidentale, rigettati i primi tre motivi di ricorso principale e assorbito il quarto; cassa la sentenza impugnata nei limiti esposti in motivazione e rinvia alla Corte d’appello di Firenze, in diversa composizione, anche per le spese di legittimità.
Così deciso in Roma, nella camera di consiglio della seconda