Ordinanza di Cassazione Civile Sez. L Num. 6758 Anno 2024
Civile Ord. Sez. L Num. 6758 Anno 2024
Presidente: COGNOME NOME
Relatore: NOME COGNOME
Data pubblicazione: 13/03/2024
ORDINANZA
sul ricorso 11626-2022 proposto da:
COGNOME NOME, elettivamente domiciliato in ROMA, INDIRIZZO, presso lo studio dell’avvocato NOME COGNOME, che lo rappresenta e difende unitamente all’avvocato NOME COGNOME;
– ricorrente –
contro
RAGIONE_SOCIALE (già RAGIONE_SOCIALE.), in persona del legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliata in ROMAINDIRIZZO, presso lo studio dell’avvocato NOME COGNOME, rappresentata e difesa dagli avvocati NOME COGNOME, NOME;
– controricorrente –
avverso la sentenza n. 3796/2021 della CORTE D’APPELLO di ROMA, depositata il 26/10/2021 R.G.N. 3667/2019;
udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del 23/01/2024 dal AVV_NOTAIO.
R.G.N. 11626/2022
COGNOME.
Rep.
Ud. 23/01/2024
CC
RILEVATO CHE
la Corte d’Appello di Roma ha respinto l’appello proposto da NOME COGNOME avverso la sentenza del Tribunale della stessa sede di rigetto delle domande proposte contro RAGIONE_SOCIALE dirette, in via principale, all’accertamento della nullità del contratto di apprendistato tra le parti (cessato il 2.1.2010 a seguito di disdetta del 22.12.2009) per assenza del necessario scopo formativo, alla declaratoria di permanente sussistenza del rapporto di lavoro, alla condanna della società alla riammissione nel posto di lavoro e al pagamento delle differenze retributive, ovvero, in via subordinata al risarcimento del danno;
2. la Corte distrettuale ha osservato che:
con sentenza n. 1741/2013 il Tribunale di Roma aveva parzialmente accolto l’originaria domanda proposta dal medesimo lavoratore nei confronti della medesima società, accertando, previa declaratoria dell’illegittimità del contratto di apprendistato, l’esistenza di un rapporto di lavoro subordinato e condannato la società al pagamento delle differenze retributive correlate al superiore livello di inquadramento invocato, ma non aveva statuito la riammissione o reintegrazione, perché era stato impugnato l’atto risolutivo come licenziamento, mentre si trattava di un atto di disdetta da rapporto lavorativo a termine, con cui era stata comunicata al dipendente la scadenza del termine stesso;
detta sentenza era stata confermata dalla Corte d’Appello di Roma con sentenza n. 4888/2016, sottolineando la differenza tra licenziamento e disdetta e la conseguente inapplicabilità all’azione tesa ad accertare l’illegittimità del termine apposto al contratto di lavoro della tutela di cui alle leggi n. 604/1966 e n. 300/1970;
dato atto che la sentenza della Corte d’Appello del 2016 non era stata oggetto di ricorso per cassazione, con la sentenza qui gravata n. 3796/2021 veniva confermata la sentenza del Tribunale di Roma n. 4465/2019, richiamando il principio secondo cui l’autorità del giudicato copre sia il dedotto sia il deducibile;
per la cassazione di quest’ultima sentenza ricorre il lavoratore con unico articolato motivo, illustrato da memoria; resiste la società con controricorso; al termine della camera di consiglio, il Collegio si è riservato il deposito dell’ordinanza;
CONSIDERATO CHE
parte ricorrente censura la sentenza impugnata per violazione e falsa applicazione dei principi che governano l’autorità della cosa giudicata, e, in particolare, falsa applicazione ( ex art. 360, n. 3, c.p.c.) dell’art. 2909 c.c. alla domanda proposta nel secondo giudizio e nullità della sentenza ( ex art. 360, n. 4, c.p.c.) in relazione agli artt. 345 e 112 c.p.c. e 2909 c.c.; argomenta che, atteso che la nullità del contratto di apprendistato era già stata accertata e dichiarata nel primo giudizio, l’inammissibilità in quella sede della domanda di riammissione non ne precludeva la riproposizione in un successivo giudizio, tanto più sulla base dell’affermazione, contenuta nella prima sentenza d’appello, dell’applicabilit à della disciplina generale della nullità, che consente al lavoratore in qualsiasi tempo di far valere l’illegittimità del termine e chiedere l’accertamento della perdurante sussistenza del rapporto, con condanna del datore di lavoro a riammetterlo in servizio;
il ricorso non è fondato;
nella sentenza gravata è stato osservato che la frase sottolineata dalla difesa ricorrente sull’azionabilità ‘in
qualsiasi momento’ fosse riferita in astratto all’azione di accertamento di nullità del termine (questione anch’essa, peraltro, superata dalla legislazione successiva) rispetto alle decadenze stabilite per l’impugnativa del recesso, ma fosse estranea al pr incipio dell’estensione del giudicato esplicito e implicito controversa nel presente giudizio;
su tale ultima questione (estensione del giudicato nel caso concreto rispetto all’azione di nullità del termine nel rapporto di lavoro subordinato in astratto) la Corte di merito si è conformata alla consolidata giurisprudenza di questa Corte, circa la differenza tra la domanda di declaratoria di nullità del termine e quella di illegittimità del recesso, a partire da Cass. S.U. n. 14381/2002 (e successive conformi);
secondo tale orientamento costante, nell’ipotesi di scadenza di un contratto a termine illegittimamente stipulato, e di comunicazione al lavoratore, da parte del datore di lavoro, della conseguente disdetta, non sono applicabili né la norma di cui all’art. 6 della legge 15 luglio 1966, n. 604, né quella di cui all’art. 18 della legge 20 maggio 1970, n. 300, ancorché la conversione del rapporto a termine in rapporto a tempo indeterminato dia egualmente al dipendente il diritto di riprendere il suo posto e di ottenere il risarcimento del danno qualora ciò gli venga negato; infatti, mentre la tutela prevista dall’art. 18 cit. attiene a una fattispecie tipica, disciplinata dal legislatore con riferimento al recesso del datore di lavoro, e presuppone l’esercizio della relativa facoltà con una manifestazione unilaterale di volontà di determinare l’estinzione del rapporto, una simile manifestazione non è configurabile nel caso di disdetta con la quale il datore di lavoro, allo scopo di evitare la rinnovazione tacita del contratto, comunichi la scadenza del termine, sia pure invalidamente apposto, al dipendente, sicché lo svolgimento delle prestazioni cessa in ragione della esecuzione che le parti danno ad una clausola nulla; ne
consegue che, al dipendente che cessi l’esecuzione della prestazione lavorativa per attuazione di fatto del termine nullo non spetta la retribuzione finché non provveda ad offrire la prestazione stessa, determinando una situazione di “mora accipiendi” del datore di lavoro, situazione, questa, che non è di per sé integrata dalla domanda di annullamento del licenziamento illegittimo con la richiesta di reintegrazione nel posto di lavoro; in base allo stesso principio si deve escludere anche il diritto del lavoratore ad un risarcimento del danno commisurato alle retribuzioni perdute per il periodo successivo alla scadenza, così come, dalla regola generale di effettività e corrispettività delle prestazioni nel rapporto di lavoro, deriva che, al di fuori di espresse deroghe legali o contrattuali, la retribuzione spetta soltanto se la prestazione di lavoro viene eseguita, salvo che il datore di lavoro versi in una situazione di mora accipiendi nei confronti del dipendente;
osserva inoltre il Collegio che il giudicato, esplicito e implicito, sul cd. dedotto e deducibile non si forma su singoli punti della motivazione, ma sulla complessiva portata del giudicato; tale interpretazione della portata del giudicato, sia esso interno od esterno, va effettuata alla stregua di quanto stabilito nel dispositivo della sentenza e nella motivazione che la sorregge, potendo farsi riferimento, in funzione interpretativa, alla domanda della parte solo in via residuale qualora, all’esito dell’esame degli elementi dispositivi ed argomentativi di diretta emanazione giudiziale, persista un’obiettiva incertezza sul contenuto della statuizione (cfr. Cass. n. 21165/2019); sicché, qualora due giudizi tra le stesse parti si riferiscano al medesimo rapporto giuridico ed uno di essi sia stato definito con sentenza passata in giudicato, l’accertamento così compiuto in ordine alla situazione giuridica ovvero alla soluzione di questioni di fatto e di diritto relative ad un punto fondamentale comune
ad entrambe le cause, formando la premessa logica indispensabile della statuizione contenuta nel dispositivo della sentenza, preclude il riesame dello stesso punto di diritto accertato e risolto, anche se il successivo giudizio abbia finalità diverse da quelle che hanno costituito lo scopo ed il “petitum” del primo (cfr. Cass. n. 25269/2016; v. anche Cass. n. 41895/2021);
va altresì rilevato che la giurisprudenza di legittimità ha chiarito che l’interpretazione del giudicato esterno può essere effettuata anche direttamente dalla Corte di cassazione con cognizione piena, nei limiti, però, in cui il giudicato sia riprodotto nel ricorso per cassazione, in forza del principio di autosufficienza di questo mezzo di impugnazione, con la conseguenza che, qualora l’interpretazione che abbia dato il giudice di merito sia ritenuta scorretta, il ricorso deve riportare il testo del giudicato che si assume erroneamente interpretato, con richiamo congiunto della motivazione e del dispositivo, atteso che il solo dispositivo non può essere sufficiente alla comprensione del comando giudiziale (Cass. n. 5508/2018, conf. a Cass. n. 26627/2006);
alla stregua dei suesposti motivi il ricorso deve, pertanto, essere respinto;
in ragione della soccombenza parte ricorrente deve essere condannata alla rifusione delle spese del presente giudizio, liquidate come da dispositivo, in favore di parte controricorrente, con distrazione al difensore dichiaratosi antistatario;
al rigetto dell’impugnazione consegue il raddoppio del contributo unificato, ove dovuto nella ricorrenza dei presupposti processuali;
La Corte rigetta il ricorso.
Condanna parte ricorrente alla rifusione delle spese del presente giudizio, che liquida in € 4.000 per compensi, € 200 per esborsi, spese generali al 15%, accessori di legge, da distrarsi.
Ai sensi dell’art. 13 comma 1 quater del d.p.r . n. 115 del 2002, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso, a norma del comma 1 bis dello stesso art. 13, se dovuto.
Così deciso nell’Adunanza camerale del 23 gennaio 2024.