Sentenza di Cassazione Civile Sez. L Num. 9539 Anno 2024
Civile Sent. Sez. L Num. 9539 Anno 2024
Presidente: COGNOME NOME
Relatore: COGNOME
Data pubblicazione: 09/04/2024
SENTENZA
sul ricorso 31736-2021 proposto da:
COGNOME NOME, domiciliato in ROMA, INDIRIZZO, presso la CANCELLERIA DELLA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE, rappresentato e difeso dall’AVV_NOTAIO NOME COGNOME;
– ricorrente –
contro
RAGIONE_SOCIALE, in persona del legale rappresentante pro tempore, domiciliata in ROMA, INDIRIZZO, presso la CANCELLERIA DELLA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE, rappresentato e difeso dall’AVV_NOTAIO NOME COGNOME;
– controricorrente –
avverso la sentenza n. 373/2021 della CORTE D’APPELLO di L’AQUILA, depositata il 10/06/2021 R.G.N. 510/NUMERO_DOCUMENTO; udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza
del 13/02/2024 dalla Consigliera NOME COGNOME;
R.NUMERO_DOCUMENTO.N. NUMERO_DOCUMENTO
COGNOME.
Rep.
Ud. 13/02/2024
COGNOME.
Rep.
Ud. 13/02/2024
PU
udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale per
AVV_NOTAIO COGNOME, che ha concluso l’inammissibilità e in subordine il rigetto del ricorso; udito l’AVV_NOTAIO.
Fatti di causa
La Corte d’Appello di L’Aquila ha accolto l’appello della RAGIONE_SOCIALE e, in riforma della pronuncia di primo grado, ha respinto la domanda proposta da NOME COGNOME e volta ad ottenere il risarcimento del danno conseguente ad un precedente licenziamento (23.2.2010) giudicato nullo con sentenza della Corte d’appello di Reggio Calabria n. 570/2016.
La Corte territoriale, per quanto ancora rileva, ha accertato: che con l’originario ricorso di impugnativa del licenziamento il lavoratore aveva chiesto la condanna della società alla reintegra e al risarcimento del danno pari alla retribuzione globale di fatto dal giorno del recesso fino a quello di effettiva reintegra; che con la sentenza (non definitiva) n. 570/2016 la Corte d’appello di Reggio Calabria aveva dichiarato nullo il licenziamento intimato al lavoratore nel 2010 e aveva condannato la RAGIONE_SOCIALE spa al risarcimento del danno, pari alle retribuzioni dovute per il periodo dalla data del recesso fino al deposito del ricorso introduttivo del giudizio di primo grado (2012), rigettando ogni altra domanda (diversa dal risarcimento del danno biologico per cui aveva disposto la prosecuzione del giudizio); che la sentenza d’appello aveva quindi respinto la domanda risarcitoria per il periodo successivo al deposito del ricorso di primo grado e contro tale statuizione il lavoratore non aveva proposto ricorso in cassazione, con conseguente formazione del giudicato sul punto, idoneo a precludere la proposizione della domanda nel presente giudizio.
Avverso tale sentenza NOME COGNOME ha proposto ricorso per cassazione affidato ad un unico motivo. La RAGIONE_SOCIALE ha resistito con controricorso. All’udienza camerale originariamente fissata, per la quale ciascuna parte aveva depositato memoria, la causa è stata rinviata a nuovo ruolo per la trattazione in pubblica udienza, in vista della quale entrambe le parti hanno depositato una nuova memoria.
Ragioni della decisione
Con l’unico motivo di ricorso è dedotto error in iudicando per motivazione contraddittoria circa un fatto controverso e decisivo per il giudizio, rappresentato dall’accertamento contenuto nella sentenza del Tribunale di Chieti, riformata dalla sentenza d’appello ora impugnata, secondo cui il ricorso introduttivo di primo grado relativo al procedimento di impugnativa del licenziamento intimato nel 2010 (oggetto della sentenza del tribunale di Palmi e della Corte d’appello di Reggio Calabria) includeva unicamente la domanda di risarcimento danni fino al deposito del ricorso e non fino alla reintegra e che pertanto nessun giudicato si era formato, per effetto della sentenza della Corte d’appello di Reggio Calabria n. 570/2016, sul rigetto della domanda di risarcimento per il periodo compreso tra il deposito del ricorso (2012) e la effettiva reintegra (2016).
Il motivo di ricorso è inammissibile per più profili.
Occorre anzitutto ricordare che le Sezioni unite (Cass. SS.UU. n. 8053 e n. 8054 del 2014) hanno sancito come l’anomalia motivazionale, implicante una violazione di legge costituzionalmente rilevante, integri un error in procedendo che comporta la nullità della sentenza solo nei casi di “mancanza assoluta di motivi sotto l’aspetto materiale e grafico”, di “motivazione apparente”, di “contrasto irriducibile fra affermazioni inconciliabili”, di “motivazione perplessa ed obiettivamente incomprensibile”, esclusa qualunque
rilevanza del semplice difetto di ‘sufficienza’ della motivazione; si è ulteriormente precisato che di “motivazione apparente” o di “motivazione perplessa e incomprensibile” può parlarsi laddove essa non renda “percepibili le ragioni della decisione, perché consiste di argomentazioni obiettivamente inidonee a far conoscere l’iter logico seguito per la formazione del convincimento, di talché essa non consenta alcun effettivo controllo sull’esattezza e sulla logicità del ragionamento del giudice” (Cass. SS.UU. n. 22232 del 2016; v. pure Cass. SS.UU. n. 16599 del 2016). Pertanto, chi ricorre per cassazione può dedurre la nullità della sentenza solo laddove la motivazione della stessa -avuto riguardo naturalmente alla ricostruzione dei fatti e non alle questioni di diritto – presenti i vizi radicali così delineati. Nel caso di specie, è sufficiente ripercorrere il testo della pronuncia per rilevare come la Corte distrettuale abbia dato ampiamente conto delle ragioni che hanno orientato il suo convincimento. Non solo, la parte ricorrente neppure ha attribuito alla motivazione della sentenza vizi radicali idonei a provocarne la nullità, avendo denunciato la insufficienza e contraddittorietà della stessa per omesso esame di quanto accertato nella sentenza di primo grado, che aveva accolto il ricorso del lavoratore.
7. Su quest’ultimo profilo, è utile considerare che, come statuito dalle Sezioni Unite citate, il vizio di omesso esame deve riguardare un fatto, inteso nella sua accezione storicofenomenica, principale (ossia costitutivo, impeditivo, estintivo o modificativo del diritto azionato) o secondario (cioè dedotto in funzione probatoria), la cui esistenza risulti dal testo della sentenza o dagli atti processuali e che abbia carattere decisivo. Non solo quindi la censura non può investire argomenti o profili giuridici, ma il riferimento al fatto secondario non implica che possa denunciarsi, ai sensi
dell’art. 360 comma 1, n. 5 c.p.c., anche l’omesso esame di determinati elementi probatori. Nel caso di specie, l’omesso esame non concerne un fatto, inteso in senso storico, bensì l’interpretazione degli atti processuali, ed esattamente l’interpretazione del separato ricorso di impugnativa del licenziamento nonché della sentenza pronunciata dalla Corte d’appello di Reggio Calabria.
Ora, pure a prescindere dal rilievo di omessa trascrizione, anche solo parziale, e di omesso deposito, in allegato al ricorso per cassazione, degli atti processuali e della sentenza d’appello su cui le censure si fondano, va ribadito che l’interpretazio ne degli atti processuali dà luogo ad un giudizio di fatto, riservato al giudice di merito, non risultando dedotta nella specie né la violazione dei canoni ermeneutici e neppure vizi riconducibili alla violazione dell’art. 112 c.p.c. (su cui v. Cass. n. 20716 del 2018; n. 8069 del 2016; n. 16164 del 2015; Cass. S.U. n. 8077 del 2012). Inoltre, in ordine al giudicato esterno formatosi tra le stesse parti in un diverso giudizio (nella specie, sentenza della Corte d’appello di Reggio Calabria), non solo non è dedotta la violazione dell’art. 2909 c.c. ma le censure mosse in nessun modo spiegano perché il giudice di merito avrebbe errato nell’interpretare il giudicato e risultano, pertanto, prive del necessario requisito di specificità (v. Cass. 17175 del 2020).
Le considerazioni finora svolte conducono alla declaratoria di inammissibilità del ricorso.
La regolazione delle spese del giudizio di legittimità segue il criterio di soccombenza, con liquidazione come in dispositivo.
L’inammissibilità del ricorso costituisce presupposto processuale per il raddoppio del contributo unificato, ai sensi dell’art. 13, comma 1 quater, del d.P.R. n. 115 del 2002 (cfr. Cass. S.U. n. 4315 del 2020).
La Corte dichiara inammissibile il ricorso. Condanna il ricorrente alla rifusione delle spese del giudizio di legittimità che liquida in euro 5.500,00 per compensi professionali, euro 200,00 per esborsi, oltre spese forfettarie nella misura del 15% e accessori come per legge.
Ai sensi dell’art. 13, co. 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento da parte del ricorrente dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso a norma del comma 1 bis dello stesso art.13, se dovuto.
Così deciso nell’udienza del 13 febbraio 2024