Ordinanza di Cassazione Civile Sez. L Num. 7075 Anno 2024
Civile Ord. Sez. L Num. 7075 Anno 2024
Presidente: COGNOME NOME
Relatore: COGNOME NOME
Data pubblicazione: 15/03/2024
ORDINANZA
sul ricorso iscritto al n. 27602/2018 R.G. proposto da:
NOME, elettivamente domiciliata in INDIRIZZO, presso lo studio dell’AVV_NOTAIO rappresentata e difesa dall’AVV_NOTAIO -ricorrente principale- contro
RAGIONE_SOCIALE, in persona del Ministro p.t., rappresentato e difeso ope legis dall’Avvocatura Generale dello Stato presso i cui Uffici domicilia in Roma, alla INDIRIZZO
–
contro
ricorrente
e
ricorrente incidentale
–
avverso SENTENZA di CORTE D’APPELLO BOLOGNA n. 543/2018 depositata il 30/05/2018, RG n. 411/2017.
Udita la relazione svolta nella camera di consiglio del 09/02/2024 dal Consigliere NOME COGNOME.
FATTI DI CAUSA
1. La Corte d’Appello di RAGIONE_SOCIALE , con la sentenza 543 del 2018, in parziale riforma della sentenza n. 388/08 del Tribunale di RAGIONE_SOCIALE quantificava il risarcimento del danno professionale in favore di NOME COGNOME nella somma di euro 78.176,70, oltre accessori di legge, e condannava ques t’ultima alla restituzione al RAGIONE_SOCIALE della maggior somma erogata in esecuzione della sentenza appellata.
2. La AVV_NOTAIO. COGNOME, dirigente AVV_NOTAIOitetto dipendente dal RAGIONE_SOCIALE fino al 2002, alla quale era stato riconosciuto con provvedimento del 14 ottobre 2012 del Commissario ad acta ‘l’incarico di Soprintendete per RAGIONE_SOCIALE a far tempo dal 4 novembre 1991 fino alla data del provvedimento di incarico ‘, con conseguente diritto alle differenze stipendiali e alla ricostruzione della carriera, a seguito di ottemperanza per l’esecuzione d ella sentenza del TAR per l’ Emilia, sede RAGIONE_SOCIALE, n. 764 del 2000, rispetto alla quale era interposto appello dall’Amministrazione, aveva agito dinanzi al Tribunale di RAGIONE_SOCIALE, attesa la statuizione di giurisdizione dell’AGO contenuta nella sentenza n. 1564/13 del TAR Emilia, per il risarcimento del danno subito causa del comportamento elusivo dell’Amministrazione .
Il Tribunale di RAGIONE_SOCIALE, accertata la responsabilità del suddetto RAGIONE_SOCIALE per la mancata esecuzione delle pronunce del giudice amministrativo attributive dell’incarico di Soprintendente ai Beni Ambientali e Architettonici di RAGIONE_SOCIALE, condannava lo stesso al
pagamento del danno emergente nella misura di euro 145.253,00 e al risarcimento del danno alla vita di relazione e alla professionalità nella misura di euro 149.652,54, oltre rivalutazione monetaria ed interessi legali dal 20 settembre 2002 al saldo. Rigettava la domanda fondata sul diniego della revoca delle dimissioni rassegnate.
La Corte d’Appello (appello principale del RAGIONE_SOCIALE e appello incidentale della lavoratrice) con la sentenza n. 1653 del 2014 dichiarava il difetto di giurisdizione dell’AGO per quanto riferibile agli atti anteriori al 1° luglio 1998, respingeva quanto al resto la domanda della lavoratrice e rigettata l’appello incidentale.
La lavoratrice proponeva ricorso per cassazione.
Questa Corte, con la sentenza n. 7305/17, dichiarava la giurisdizione del giudice ordinario anche per il periodo anteriore al 30 giugno 1998 e rinviava la causa alla Corte d’Appello.
La lavoratrice riassumeva il giudizio e, riproponendo l’appello incidentale, chiedeva l’accoglimento delle ulteriori domande:
risarcimento del danno patrimoniale non patrimoniale a seguito dell’illegittimo allontanamento dalla sede di lavoro eletta, da quella di residenza, della dequalificazione e del trattamento vessatorio di cui era stata fatta oggetto, e per ottenere, previa declaratoria di illegittimo diniego della revoca delle dimissioni e previo accertamento del suo diritto a rimanere in servizio fino al 1° aprile 2004, il pagamento delle differenze maturate sulla retribuzione ,sulla indennità di buona uscita e sul trattamento pensionistico.
Il RAGIONE_SOCIALE resisteva all’appello e come già con il precedente appello principale, impugnava la sentenza di primo grado nella parte in cui aveva affermato l’illegittimità della condotta datoriale.
La Corte d’Appello con la sentenza n. 543 del 2018 ha in primo luogo disatteso l’eccezione di improcedibilità dell’appello del RAGIONE_SOCIALE, in quanto lo stesso in sede di riassunzione aveva formulato
le stesse conclusioni, salvo quella sulla giurisdizione, formulate nel precedente atto di appello.
Ha quindi rigettato l’appello del RAGIONE_SOCIALE, atteso che lo stesso non aveva dato esecuzione alle varie pronunce immediatamente esecutive dei giudici amministrativi a favore della lavoratrice, in forza delle quali la già menzionata avrebbe dovuto essere assegnata alla sede di RAGIONE_SOCIALE all’epoca della prima domanda, nel 1991. Sussisteva pertanto la responsabilità di natura contrattuale del RAGIONE_SOCIALE che non vi aveva ottemperato e che doveva rispondere dei danni cagionati alla lavoratrice la quale solo con il provvedimento il Commissario a d acta del 2002, emesso dopo la risoluzione del rapporto di lavoro aveva ottenuto l’incarico.
Sussisteva, pertanto la responsabilità contrattuale della P.A. che non vi aveva dato ottemperanza, e che doveva rispondere dei danni cagionati alla lavoratrice, la quale solo con il provvedimento del Commissario ad acta del 14/10/2002, emesso dopo la risoluzione del rapporto di lavoro, aveva ottenuto retroattivamente a far tempo dal 4 novembre 1991, il riconoscimento dell’incarico di Soprintendete per i B.A.A. di RAGIONE_SOCIALE.
La Corte d’Appello con riguardo all’appello incidentale della lavoratrice ha statuito quanto segue.
Con riguardo al danno emergente, la sentenza del Tribunale doveva essere confermata in relazione alle spese vive, dovendosi disattendere sia le censure della lavoratrice che del RAGIONE_SOCIALE.
Il giudice d’appello non ha riconosciuto la somma di 512.000 euro a titolo di indennità di missione per tutto il periodo in cui la lavoratrice si era spostata dalla propria residenza di RAGIONE_SOCIALE. Ed infatti la prestazione fuori sede è dettata da esigenze temporanee e ha una durata limitata e non può essere attribuita al lavoratore a fini risarcitori per il riconoscimento ex post di una diversa sede di servizio.
Ha riformato la liquidazione del risarcimento del danno a titolo di danno alla vita di relazione e alla professionalità sotto due profili.
In primo luogo, il Tribunale aveva riconosciuto l’esistenza di danno biologico ed esistenziale in senso lato, in assenza di qualsiasi allegazione al riguardo e di prova; né poteva riconoscersi danno ex art. 2087, cod. civ.
In secondo luogo, avevo utilizzato come metodo per il risarcimento del danno il criterio adottato dalla giurisprudenza per la liquidazione del danno professionale nella sua componente patrimoniale (percentuale della retribuzione).
Condivideva la decisione del Tribunale in relazione al lamentato demansionamento, sia quale mancato accrescimento professionale sia come perdita di chance .
Tale dimensionamento era configurabile solo nel periodo da dicembre 1996 a settembre 2002, e cioè nel periodo in cui la lavoratrice aveva ricoperto le funzioni di Ispettore centrale e di Direttore del Museo nazionale di Castel Sant’Angelo, atteso che questi incarichi non potevano essere ritenuti equivalenti alle funzioni di Sovrintendente di RAGIONE_SOCIALE, dovendosi rapportare il parametro retributivo a 70 mesi, arrotondati per eccesso.
La Corte d’Appello rigettava il motivo di ricorso relativo alla revoca delle dimissioni e al relativo risarcimento del danno.
Per la cassazione della sentenza di appello ricorre la lavoratrice prospettando tre motivi di ricorso.
Resiste il RAGIONE_SOCIALE con controricorso e ricorso incidentale articolato in due motivi.
In prossimità dell’adunanza camerale, il difensore della lavoratrice ha dichiarato l’intervenuta morte della ricorrente, successivamente all’instaurazione del giudizio di legittimità.
RAGIONI DELLA DECISIONE
Preliminarmente si rileva che nel giudizio di cassazione, in considerazione della particolare struttura e della disciplina del procedimento di legittimità, non è applicabile l’istituto dell’interruzione del processo, con la conseguenza che la morte di una delle parti, intervenuta dopo la rituale instaurazione del giudizio, non assume alcun rilievo, né consente agli eredi di tale parte l’ingresso nel processo (Cass. n. 1757/2016). Di talché la comunicazione della morte della parte, effettuata dal difensore, non determina l’interruzione del processo di legittimità.
Con il primo motivo di ricorso è dedotta la violazione ai sensi dell’art. 360, n.3, cod. proc. civ. degli artt. 392, 393,434, cod. proc. civ.
Assume la ricorrente che solo lei provvedeva a riassumere il giudizio e quindi a ripresentare l’appello (incidentale) pro -parte avverso la sentenza del Tribunale di RAGIONE_SOCIALE, mentre il RAGIONE_SOCIALE si era limitato a costituirsi in giudizio chiedendo il rigetto della domanda della lavoratrice.
3. Il motivo non è fondato
Il giudizio di rinvio si caratterizza come giudizio rescissorio ai fini di colmare il vuoto aperto, nella controversia di merito, dalla pronuncia di cassazione, ed in esso le parti conservano la stessa posizione processuale del precedente procedimento, ed il ” thema decidendum ” è definito dalla pronuncia rescindente. Da ciò consegue che la riassunzione si caratterizzi come un mero atto di impulso processuale, posto che il giudizio, nei termini fissati dalla pronuncia della Suprema Corte, va considerato pendente fin dal momento della pubblicazione di questa, e le parti sono ricollocate nella posizione che avevano assunto nel giudizio conclusosi con la sentenza annullata (Cass., n. 6828 del 1998, cfr., Cass. n. 2309 del 2007, n. 37200 del 2022).
Nel giudizio di rinvio le parti conservano la stessa posizione processuale assunta nel procedimento in cui fu pronunciata la sentenza annullata, ed ogni riferimento a domande ed eccezioni pregresse, nonché, in genere, alle difese svolte, ha l’effetto di richiamare univocamente ed integralmente domande, eccezioni e difese già spiegate nel giudizio originario (Cass., nn. 23073 del 2014, 30529 del 2017).
Nella specie, il giudice di appello ha fatto corretta applicazione di tali principi, non ritenendo che, intervenuta la costituzione del RAGIONE_SOCIALE nel giudizio di appello riassunto dalla lavoratrice (già appellante incidentale), la mancanza di autonoma riassunzione deter minasse una rinuncia all’appello (già principale) da parte del RAGIONE_SOCIALE, che reiterava le difese contenute nel precedente atto di appello (pag. 9 della sentenza ) e riproponeva tutte le conclusioni rassegnate nel precedente atto di appello (pag. 5 della sentenza di appello).
Ha priorità logico giuridica, rispetto all’esame degli altri motivi del ricorso principale, l’esame del ricorso incidentale proposto dall’Amministrazione.
Con il primo motivo del ricorso incidentale è dedotto ai sensi dell’art. 360, n. 3, cod. proc. civ., violazione e falsa applicazione dell’art. 2043 , cod. civ.
Dalla esposizione della censura emerge che la doglianza di violazione dell’art. 2043, cod. civ., per mancanza del danno ingiusto, si fonda su una più ampia deduzione di infondatezza della domanda in quanto il diritto azionato non era venuto in essere in ragione del giudicato amministrativo sfavorevole alla lavoratrice e retroattivo.
Il Consiglio di Stato con la sentenza n. 867/2006, aveva ritenuto del tutto legittimo l’operato dell’Amministrazione nella nomina a soprintendete B.RAGIONE_SOCIALE. di RAGIONE_SOCIALE dell’AVV_NOTAIO. COGNOME e non dell’AVV_NOTAIO. COGNOME, con retroattiva cancellazione delle sentenze
cautelari e di merito amministrative che erano state rese a favore dell’AVV_NOTAIO. COGNOME.
La sentenza di merito del TAR, anche se posta in esecuzione dal Commissario ad acta , era provvisoria e non definitiva, ed era stata travolta dalla sentenza del Consiglio di Stato, come le sentenze per l’esecuzione in sede di ottemperanza.
Con il secondo motivo di ricorso è censurata la statuizione relativa alla quantificazione del risarcimento (vizio ex art. 360, n. 5, cod. proc. civ., apparente motivazione su un punto decisivo della controversia che ha formato oggetto di discussione tra le parti).
I suddetti motivi devono essere trattati congiuntamente in ragione della loro connessione.
Il primo motivo del ricorso incidentale è fondato, e a tale fondatezza segue l’accoglimento del secondo motivo sulla liquidazione del danno.
7.1. Va premesso che secondo la costante giurisprudenza di questa Corte (v., Cass., S.U., n. 13916 del 2006, Cass. n. 1534 del 2018, n. 12754 del 2022) nel giudizio di cassazione, il giudicato esterno è, al pari del giudicato interno, rilevabile d’ufficio, non solo qualora emerga da atti comunque prodotti nel giudizio di merito, ma anche nell’ipotesi in cui il giudicato si sia formato successivamente alla pronuncia della sentenza impugnata. Si tratta infatti di un elemento che non può essere incluso nel fatto, in quanto, pur non identificandosi con gli elementi normativi astratti, è ad essi assimilabile, essendo destinato a fissare la regola del caso concreto, e partecipando quindi della natura dei comandi giuridici, la cui interpretazione non si esaurisce in un giudizio di mero fatto.
Nella specie viene in rilievo la sentenza del Consiglio di Stato n. 867 del 2006, pronunciata tra le odierne parti, richiamata da entrambe come definitivo assestamento delle posizioni delle parti dinanzi al G.A., nonché nella sentenza Cass. S.U., n.7305 del 2017
di cui il RAGIONE_SOCIALE nel ricorso incidentale, espressamente e senza successive avverse contestazioni, assume il passaggio in giudicato.
7.2. Occorre ricordare che la vicenda in esame ha come antefatto logico e giuridico il giudizio svoltosi dinanzi al TAR per l’ Emilia, sede di RAGIONE_SOCIALE, che è proseguito dinanzi al Consiglio di Stato in grado di appello, con cui la lavoratrice impugnava il provvedimento con cui il RAGIONE_SOCIALE in sede di riedizione del potere (a seguito di annullamento di precedente provvedimento amministrativo) aveva reiterato la nomina di altro aspirante nell’incarico di Soprintendente B.A.A. di RAGIONE_SOCIALE.
Il TAR Emilia emetteva la sentenza n. 764/2000 favorevole alla lavoratrice, la cui esecuzione non veniva sospesa. Poiché l’Amministrazione non vi dava esecuzione, seguiva il giudizio di ottemperanza con la nomina del Commissario ad acta, che con atto del 4 ottobre 2002 attribuiva alla lavoratrice l’incarico con effetto retroattivo dal 4 novembre 1991.
Nelle more del giudizio di appello dinanzi al Consiglio di Stato, proposto dal RAGIONE_SOCIALE avverso la suddetta sentenza TAR Emilia n. 764 del 2000, la lavoratrice ha agito dinanzi al Tribunale ordinario di RAGIONE_SOCIALE per il risarcimento del danno subito a causa del comportamento elusivo dell’Amministrazione che non aveva dato esecuzione alle decisioni a sé medesima favorevoli del giudice amministrativo e non aveva conferito illo tempore l’incarico in questione.
L’appello dinanzi al Consiglio di Stato veniva definito con la sentenza n. 867 del 2006 che ha accolto l’impugnazione del RAGIONE_SOCIALE e ha respinto il ricorso di primo grado n. 141 del 2000, della COGNOME, in riforma della sentenza gravata n. 764 del 2000, e con la caducazione delle sentenze n. 288 del 2001 e n. 1564 del 2003, adottate in sede di ottemperanza.
7.3. Va considerato che la doverosa esecuzione della sentenza del TAR non determina alcuna acquiescenza dell’Amministrazione alle sue statuizioni – tranne nel caso in cui emerga l’esplicita volontà di accettare la sentenza di primo grado – atteso che, in questi casi, il comportamento della parte attuativo della pronuncia sfavorevole è necessitato in quanto, essendo la stessa esecutiva, vi è l’obbligo di conformarvisi, salvo che il giudice di appello non ne sospenda l’esecutività, diversamente esponendosi all’esecuzione coattiva sotto il controllo e la vigilanza del giudice (Cons. Stato, Sezione V, n. 11307 del 2023, Sezione IV, n. 1757 del 2011). Né a maggior ragione acquiescenza può discendere dall’esecuzione in sede di ottemperanza.
7.4. Va rilevato che il Consiglio di Stato, con la sentenza n. 867 del 2006, ha riformato la sentenza del TAR Emilia, sede RAGIONE_SOCIALE, n. 764 del 2000 e ha rigettato il ricorso con cui la RAGIONE_SOCIALE aveva impugnato il decreto n. 10962 del 22 novembre 1999, con cui il RAGIONE_SOCIALE, a seguito dell’annullamento in sede giurisdizionale del precedente decreto ministeriale 14 ottobre 1996, aveva confermato altro AVV_NOTAIOitetto nelle funzioni di Sovrintendente B.A.A. di RAGIONE_SOCIALE.
Il Consiglio di Stato ha esplicitato che ciò comportava la caducazione delle sentenze n. 288 del 2001 e n. 1564 del 2003, rese in sede di ottemperanza per la nomina del Commissario ad acta , di talché con la sentenza del Consiglio di Stato veniva ripristinata, con effetti ex tunc , l’originaria mancata attribuzione dell’incarico.
Si ricorda in proposito la giurisprudenza amministrativa secondo cui l ‘ RAGIONE_SOCIALE procedimentale svolta dalla Amministrazione in esecuzione di una pronuncia ottemperata solo in via doverosa, è travolta dall’effetto espansivo esterno della sentenza di appello (Cons. Stato, Sezione IV, n. 196 del 2019).
L’adeguamento agli effetti provvisori di una sentenza di primo grado appellata e non sospesa dal Consiglio di Stato, consentirà soltanto la cautela della situazione giuridica soggettiva azionata in attesa dell’approfondito esame, proprio della sede di merito, delle questioni sollevate dalle parti, componenti il thema decidendum ancora da risolvere in sede giurisdizionale (v., Cons. Stato, Sezione VII, n. 2348 del 2023).
Pertanto, manca l’attribuzione del bene della vita della cui tardiva attribuzione la lavoratrice si duole.
Né è corretta, in ragione dei principi sopra richiamati, l’affermazione della ricorrente che la pronuncia del Consiglio di Stato n. 867 del 2006 non poteva modificare la situazione pregressa già formatasi sulla base delle pronunce cautelari (v. pag. 4 del ricorso), atteso che dette sentenze sono state espressamente caducate dal Consiglio di Stato.
Elementi di segno diverso non possono trarsi dalla sentenza n. 7305 del 2017 delle Sezioni Unite civili che si sono pronunciate sul motivo di ricorso relativo alla giurisdizione -con assorbimento di tutti gli altri motivi e rinvio al giudice di appello- escludendo il giudicato esterno sulla giurisdizione e affermando la giurisdizione del G.O. anche per il periodo anteriore al 30 giugno 1998.
La sentenza delle Sezioni Unite n. 7305 del 2017, pronunciando sulla giurisdizione, ha affermato che: ‘(…) si tratta di un giudizio nel quale le pretese risarcitorie avanzate fin ricorso introduttivo non possono dirsi collegate solo “occasionalmente” al rapporto di lavoro della dirigente con il RAGIONE_SOCIALE, ma risultano invece avere in questo rapporto di lavoro la loro causa: a) diretta – come per i vari rimborsi spese richiesti e per i danni da demansionamento, non a caso da accertare facendo riferimento ai compiti lavorativi in concreto svolti, a prescindere dalla permanenza della qualifica (Cass. 26 novembre 2008, n. 28274) – oppure b) indiretta, come accade
per i danni richiesti per il comportamento vessatorio (…) della RAGIONE_SOCIALE, consistito nel non dare tempestiva esecuzione alle sentenze favorevoli alla dirigente.
Ad avviso della ricorrente, tutta la vicenda dimostrava una condotta della P.A. lesiva dei diritti dell’interessata, protrattasi per moltissimi anni e per la quale la dirigente aveva potuto far valere pretese risarcitorie solo dopo avere ottenuto – con provvedimento del Commissario ad acta del 14 ottobre 2002 cit. – la ricostruzione della carriera con efficacia retroattiva (dal 4 novembre 1991) ‘.
La pretesa risarcitoria di natura contrattuale era fondata sulla lesione del diritto al conferimento dell’incarico , che tuttavia l’esito conclusivo del giudizio amministrativo, che la ricorrente ha posto come antefatto della costituzione del diritto azionato, ha escluso.
7.5. Di talché erroneamente il giudice di appello, nel decidere la controversia si è limitato a considerare le sentenze cautelari e di merito del TAR, e non la sentenza del Consiglio di Stato n. 867 del 2006 (allegata dal RAGIONE_SOCIALE nel corso del giudizio di primo grado, pag. 5, sentenza S.U. n. 7305 del 2017, che ne riporta anche in sintesi il contenuto decisorio) che le medesime riformava e caducava, non riconoscendo alla lavoratrice il bene della vita per la cui attribuzione aveva agito dinanzi al giudice amministrativo, e per le conseguenze risarcitorie dinanzi al giudice ordinario.
Può passarsi all’esame dei restanti motivi del ricorso principale.
Con il secondo motivo è dedotta la erronea e falsa applicazione degli artt. 1218, 1223 e 2697, cod. civ., art. 360, n.3, cod. proc. civ.
Viene censurata la statuizione di appello che ha disatteso la domanda della lavoratrice relativa al quantum debeatur in relazione a vari profili:
9.1. riconoscimento indennità di missione in quanto nella specie veniva in rilievo un risarcimento derivante da un danno che aveva avuto uno svolgimento temporale condizionato dai tempi giudiziali e processuali e non dalle esigenze delle amministrazioni. Sottostanti ad una missione.
Pertanto, il risarcimento del danno doveva essere tale da ristabilire l’equilibrio nella situazione del soggetto, turbato dall’evento lesivo e compensare per equivalente alla perduta integrità. Il giudice di appello non aveva dato rilievo alla circostanza che la lavoratrice era stata tenuta a svolgere il proprio servizio lontano dalla sede di appartenenza.
9.2. Mancato riconoscimento di maggior somme a titolo di danno alla vita di relazione e alla professionalità. La ricorrente censura la statuizione di mancata allegazione e prova del danno in relazione al danno alla vita di relazione e familiare ex art. 2087 cod. civ.
Riporta un breve stralcio della sentenza del Tribunale deducendo che dalla stessa si evinceva l’allegazione di prova idonea e richiama giurisprudenza in materia di danno.
9.3. Rideterminazione risarcimento per mancato accrescimento professionalità. La lavoratrice ripercorre la sentenza di primo grado.
All’accoglimento del primo motivo del ricorso incidentale relativo all’infondatezza della domanda della lavoratrice quanto all’ an del risarcimento, segue il rigetto del secondo motivo del ricorso principale.
Con il terzo motivo di ricorso è dedotto ai sensi dell’art. 360, n. 3, omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti.
È censurata la statuizione che ha rigettato la domanda riferita all’illegittimità della mancata accettazione della revoca delle
dimissioni. Assume che la motivazione è erronea, atteso che la revoca delle dimissioni era stata presentata prima della cessazione del rapporto di lavoro.
12. Il motivo è inammissibile.
La censura, pur formulata nella rubrica ai sensi dell’art. 360, n.3, non si sviluppa secondo il paradigma di tale vizio, non venendo prospettata rispetto alla statuizione di appello la disciplina violata o erroneamente interpretata, non essendo a ciò adeguata la riproduzione di stralci del ricorso di primo grado.
Per altro verso occorre ricordare che l’art. 360, primo comma, n. 5, cod. proc. civ., nell’attuale testo modificato dall’art. 2 del d.lgs. n. 40 del 2006, riguarda un vizio specifico denunciabile per cassazione relativo all’omesso esame di un fatto controverso e decisivo per il giudizio, da intendersi riferito a un preciso accadimento o una precisa circostanza in senso storico-naturalistico, come tale non ricomprendente questioni o argomentazioni, sicché sono inammissibili le censure che, come nella specie, irritualmente, estendano il paradigma normativo a quest’ultimo profilo.
Il ricorso incidentale del RAGIONE_SOCIALE va accolto, il ricorso principale della lavoratrice va rigettato. La sentenza di appello va cassata in relazione al ricorso incidentale accolto, e decidendo nel merito, non essendo necessari ulteriori accertamenti di fatto, va rigettata la originaria domanda proposta da NOME COGNOME.
Le spese del presente giudizio e dei giudizi di merito seguono la soccombenza e sono liquidate come in dispositivo.
PQM
La Corte accoglie il ricorso incidentale, rigetta il ricorso principale, cassa la sentenza impugnata e decidendo nel merito rigetta l’originaria domanda di NOME COGNOME. Condanna NOME COGNOME al pagamento delle spese dei gradi di merito e del giudizio di legittimità liquidate: in euro 11.000,00 per compensi professionali
del primo grado di giudizio, oltre spese prenotate a debito; in euro 10.000,00 per compensi professionali del grado di giudizio di appello oltre spese prenotate a debito; euro 5.500,00 per compensi professionali del presente grado di legittimità, oltre spese prenotate a debito.
Ai sensi dell’art. 13 comma 1 -quater del d.P.R. n. 115 del 2002 dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte della ricorrente principale, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso principale, a norma del comma 1-bis, dello stesso art. 13, se dovuto.
Così deciso in Roma, nella camera di consiglio del 09/2/2024.