Ordinanza di Cassazione Civile Sez. 2 Num. 557 Anno 2025
Civile Ord. Sez. 2 Num. 557 Anno 2025
Presidente: COGNOME
Relatore: COGNOME
Data pubblicazione: 09/01/2025
Oggetto: Equa riparazione
ORDINANZA
sul ricorso iscritto al n. 07719/2023 R.G. proposto da
RAGIONE_SOCIALE rappresentata e difesa dall’avv. NOME COGNOME ed elettivamente domiciliata a ll’ indirizzo PEC del difensore iscritto nel REGINDE;
-ricorrente –
contro
MINISTERO DELLA GIUSTIZIA, in persona del ministro pro tempore , rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, presso la quale in Roma, INDIRIZZO, è domiciliata;
-controricorrente –
Avverso il decreto n. 1033/2022 del 14/9/2022 reso dalla Corte d’Appello di Messina e non notificato;
udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del 9 luglio 2024 dalla dott.ssa NOME COGNOME
Rilevato che:
Con ricorso ex art. 2, legge n. 89 del 2001, la RAGIONE_SOCIALE chiese che venisse determinato e liquidato il danno non patrimoniale in ragione del mancato rispetto del termine ragionevole di cui all’art. 6 CEDU, esponendo che in data 11 maggio 1991 la allora RAGIONE_SOCIALE, fusa per incorporazione nella RAGIONE_SOCIALE, aveva depositato domanda di ammissione al passivo del fallimento di RAGIONE_SOCIALE, dichiarato con sentenza del Tribunale di Patti n. 5 del 28 gennaio 1991, che il credito vantato era stato ammesso allo stato passivo in data antecedente al 10 dicembre 1992 e che la procedura concorsuale era stata chiusa con decreto del Tribunale di Patti del 19 novembre 2021, sicché il ritardo era stato pari a 28 anni e 11 mesi.
Il consigliere delegato aveva rigettato la domanda, evidenziando come, alla data della fusione per incorporazione avvenuta nel 1992, non fosse decorso il termine di sei anni ritenuto ragionevole dalla legge n. 89 del 2001 e che non risultava che la società incorporante, odierna ricorrente, avesse spiegato intervento nella procedura concorsuale, sicché non spettava alcun indennizzo né iure successionis , stante il mancato decorso dei sei anni, né iure proprio , stante il mancato intervento dell’incorporante nella procedura fallimentare.
La fase di opposizione si concluse col decreto n. 1033/2022 del 20 settembre 2022, con il quale la Corte d’Appello di Messina rigettò l’opposizione condividendo le argomentazioni del giudice designato.
Contro il predetto decreto, la RAGIONE_SOCIALE propone ricorso per cassazione affidato a tre motivi, illustrati anche con memoria. Il Ministero della Giustizia resiste con controricorso.
Considerato che :
1.1 Con il primo motivo, si lamenta la violazione e/o falsa applicazione degli artt. 158 e 276 cod. proc. civ., nonché la nullità del decreto, in relazione a ll’art. 360, primo comma, n. 4, cod. proc. civ., perché all’unica udienza cartolare per il ricorso in opposizione del 12 settembre 2022 il collegio era composto dai dottori NOME COGNOMEpresidente), NOME COGNOME e NOME COGNOME (relatore), come si legge nel verbale, mentre all’esito dell’udienza il decreto era stato emesso dal collegio in diversa composizione, giacché al posto di NOME COGNOME risultava NOME COGNOME
1.2 Il primo motivo è infondato.
Questa Corte ha già avuto modo di affermare che la paternità della decisione, in virtù del combinato disposto di cui agli artt. 132 e 276 cod. proc. civ., deve essere attribuita esclusivamente al giudice o al collegio che ha elaborato la decisione stessa, occorrendo che nell’epigrafe della sentenza-documento venga riportato il nominativo del giudice o dei giudici che abbiano assunto la decisione, e che è necessario che i membri del collegio nominativamente indicati nell’intestazione della sentenza coincidano con i nomi di coloro che hanno assistito all’udienza di discussione (nella specie, come risulta dal verbale dell’udienza collegiale del 12/9/2022, Presidente COGNOME NOME, consigliere NOME COGNOME Consigliere COGNOME Umberto) e hanno trattenuto la causa in decisione, stante il principio dell’identità dell’organo presente all’udienza di discussione con quello deliberante (in questi termini, Cass., Sez. 2, 12/5/2020, n. 8782; anche Cass., Sez. 2, 23/03/2006, n. 6564; Cass., Sez. 1, 13/09/2006, n. 19662).
‘La nullità della sentenza deliberata da giudici diversi da quelli che hanno assistito alla discussione’, prosegue Cass., Sez. 2, 12/5/2020, n. 8782, ‘può essere perciò dichiarata solo quando vi sia la prova della diversità tra il collegio deliberante e quello che
abbia, invece, assistito alla discussione della causa, come risultante dal verbale d’udienza, il quale fa fede fino a querela di falso dei nomi dei giudici componenti il collegio e della riserva, espressa dagli stessi giudici a fine udienza, di prendere la decisione in camera di consiglio’, ingenerando il verbale di udienza di discussione ‘la presunzione della deliberazione della sentenza da parte degli stessi giudici che hanno partecipato all’udienza collegiale, ulteriormente avvalorata dalla circostanza che, ai sensi dall’art. 276 cod. proc. civ., tra i compiti del presidente del collegio vi è quello di controllare che i giudici presenti nella camera di consiglio siano quelli risultanti dal verbale dell’udienza di discussione (Cass., Sez. 3, 06/07/2010, n. 15879), restando la composizione del collegio altrimenti, comunque, individuabile alla stregua delle regole dettate dagli artt. 113 e 114 disp. att. cod. proc. civ. (arg. da Cass. Sez. 1, 02/10/2019, n. 24585)’, senza che rilevi la presenza in udienza di altri giudici che non abbiano concorso alla deliberazione.
Orbene, la nullità della sentenza deliberata da giudici diversi da quelli che hanno assistito alla discussione, che è insanabile e rilevabile d’ufficio ai sensi dell’art. 158 cod. proc. civ., può però essere dichiarata soltanto quando vi sia la prova della non partecipazione al collegio deliberante di un giudice che aveva invece assistito alla discussione della causa; tale prova non può evincersi dalla sola omissione, nell’intestazione della sentenza, del nominativo del giudice non tenuto alla sottoscrizione, quando esso sia stato invece riportato nel verbale dell’udienza di discussione, sia perché l’intestazione della sentenza non ha una sua autonoma efficacia probatoria, riproducendo i dati del verbale d’udienza, sia perché da quest’ultimo, facente fede fino a querela di falso dei nomi dei giudici componenti il collegio e della riserva espressa degli stessi giudici a fine udienza di prendere la decisione in camera di consiglio, nasce la presunzione della
deliberazione della sentenza da parte degli stessi giudici che hanno partecipato all’udienza collegiale, ulteriormente avvalorata dalla circostanza che, ai sensi dall’art. 276 cod. proc. civ., tra i compiti del presidente del collegio vi è quello di controllare che i giudici presenti nella camera di consiglio siano quelli risultanti dal verbale dell’udienza di discussione, sicché l’omissione, nell ‘ intestazione della sentenza, del nome di un giudice indicato, invece, nel predetto verbale, si presume determinata da errore materiale emendabile ai sensi degli artt. 287 e 288 cod. proc. civ. (Cass., Sez. 3, 6/7/2010, n. 15879).
Alla stregua di tali principi, deve, dunque, escludersi che, in assenza di prova sulla diversità della composizione del collegio giudicante, come risultante dal verbale di udienza, avente efficacia di atto pubblico (Presidente COGNOME NOME COGNOME, consigliere NOME COGNOME Consigliere COGNOME COGNOME), rispetto al collegio indicato nell’epigrafe del decreto ( Presidente COGNOME NOME COGNOME consigliere NOME COGNOME Consigliere COGNOME COGNOME), possa profilarsi la dedotta nullità, con conseguente infondatezza della censura.
2.1 Col secondo motivo, si lamenta la violazione e/o falsa applicazione dell’art. 2504 cod. civ., in relazione agli artt. 360, primo comma, n. 3, cod. proc. civ., perché i giudici d’appello avevano escluso il diritto della ricorrente all’equa riparazione, sia iure successionis , non essendo ancora decorso, al momento della incorporazione, il termine di durata ragionevole della procedura concorsuale (sei anni), sia iure proprio , non essendo essa intervenuta nella procedura, senza considerare però che la fusione per incorporazione, anche ante novella, non dava luogo ad una successione a titolo particolare, come pareva arguirsi da tale motivazione, ma ad una successione a titolo universale mediante il subentro ex lege in tutte le posizioni sostanziali e processuali dell’incorporata.
2.2 Il secondo motivo è parimenti infondato.
Va, innanzitutto, premesso come, in tema di equa riparazione, occorra distinguere tra successione a titolo particolare nel diritto controverso e successione a titolo universale: nel primo caso, l’alienante e il successore a titolo particolare non potranno che riferire la pretesa indennitaria per violazione del termine ragionevole del processo alla diversa durata della rispettiva presenza nel giudizio presupposto, non essendo loro consentito di avvalersi dell’altrui diritto all’indennizzo, sommando i periodi di rispettiva competenza, atteso che, continuando il processo tra le parti originarie in virtù del principio stabilito dall’art. 111 cod. proc. civ., il primo mantiene la sua legittimazione attiva ( ad causam ) e la conserva anche nel caso di intervento, ai sensi del medesimo art. 111, terzo comma, cod. proc. civ., del secondo, avente legittimazione distinta e non sostitutiva, ma autonoma (tra le tante, Cass., Sez. 2, 28/2/2020, n. 5529; Cass., Sez. 2, 22/1/2015, n. 1200; Cass., Sez. 1, 12/4/2006, n. 8515); nel secondo caso, invece, per il riconoscimento dell’indennizzo spettante agli eredi, i quali abbiano agito sia iure haereditatis sia iure proprio , non può assumersi come riferimento temporale l’intero procedimento, ma è necessario procedere ad una ricostruzione analitica delle diverse frazioni temporali, al fine di valutarne separatamente la ragionevole durata, restando preclusa la possibilità di cumulare il danno sofferto dal dante causa e quello personalmente patito dagli eredi in seguito al loro intervento in giudizio (Cass., Sez. 2, 8/5/2023, n. 12096; Cass., Sez. 6-2, 27/5/2015, n. 10986; Cass., Sez. 6-2, 20/11/2014, n. 24711), in quanto, pur esistendo un processo, difetta la parte che dalla sua irragionevole durata possa ricevere nocumento (Cass., Sez. 2, 6-2, 21/6/2021, n. 17685), senza che sia possibile equiparare la posizione dell’erede a quella del contumace, atteso che l’ineliminabile presupposto per la
legittimazione all’indennizzo è la durata irragionevole del giudizio, incidente soltanto su chi è chiamato ad assumere, al suo interno, la qualità di parte (Cass., Sez. 6-2, 3/2/2017, n. 3001), e senza che assuma rilevanza la continuità della posizione processuale dell’erede rispetto a quella del dante causa prevista dall’art. 110 cod. proc. civ., giacché il sistema sanzionatorio delineato dalla CEDU e tradotto in norme nazionali dalla legge n. 89 del 2001 non si fonda sull’automatismo di una pena pecuniaria a carico dello Stato, ma sulla somministrazione di sanzioni riparatorie a beneficio di chi dal ritardo abbia ricevuto danni patrimoniali o non patrimoniali, mediante indennizzi modulabili in relazione al concreto patema subito, il quale presuppone la conoscenza del processo e l’interesse alla sua rapida conclusione (Cass., Sez. 2, 19/2/2014, n. 4003; Cass., Sez. 1, 23/6/2011, n. 13803; Cass., Sez. 1, 20/1/2011, n. 1309; Cass., Sez. 1, 4/11/2009, n. 23416).
Orbene, nel regime anteriore alla riforma prevista dal d.lgs. 17/1/2003, n. 6, che ha introdotto l’art. 2505bis cod. civ., il fenomeno della fusione o incorporazione di società realizzava una successione universale, corrispondente alla successione universale mortis causa , produttiva di effetti, tra loro indipendenti, dell’estinzione della società incorporata e della contestuale sostituzione, nella titolarità dei rapporti giuridici attivi e passivi facenti capo a questa, della nuova persona giuridica, e postulava la sussistenza di un soggetto risultante o incorporante, dando luogo alla confusione dei rispettivi patrimoni delle società preesistenti (Cass., Sez. 1, 19/10/2006, n. 22489; Cass., Sez. L, 20/9/2010, n. 19847; Cass., Sez. 2, 25/2/2011, n. 4740; si veda però anche Cass., Sez. 1, 26/1/2016, n. 1376, secondo cui la fusione, per unione o incorporazione, ante 2004, pur dando luogo ad un fenomeno successorio, si diversifica, tuttavia, dalla successione mortis causa perché la modificazione
dell’organizzazione societaria dipende esclusivamente dalla volontà delle società partecipanti, sicché quella che viene meno non è pregiudicata dalla continuazione di un processo del quale era perfettamente a conoscenza, né alcun pregiudizio subisce l ‘ incorporante – o la società risultante dalla fusione -, che può intervenire nel processo ed impugnare la decisione sfavorevole, neppure applicandosi, a dette fusioni, la disciplina dell’interruzione di cui agli artt. 299 e segg. cod. proc. civ.), mentre successivamente all’introduzione del ridetto art. 2505 -bis , cod. civ., si è passati da una prima interpretazione del dettato normativo, in virtù della quale la fusione tra società non determinava, nelle ipotesi di fusione per incorporazione, l’estinzione della società incorporata, ma si risolveva in una vicenda meramente evolutivo-modificativa dello stesso soggetto giuridico, che conservava la propria identità, pur in un nuovo assetto organizzativo (in tal senso, Cass., Sez. Un., 8/2/2006, n. 2637), ad una successiva più recente, frutto di un ripensamento del precedente da parte delle sezioni unite, secondo cui la fusione per incorporazione «estingue la società incorporata» (Cass., Sez. U, 30/7/2021, n. 21970), dando cioè luogo ad un fenomeno (non evolutivo-modificativo, ma, appunto) estintivosuccessorio (vedi anche Cass., Sez. 1, 18/5/2023, n. 13685).
In sostanza, secondo l’evoluzione giurisprudenziale sopra citata, tanto prima, quanto dopo l’entrata in vigore della riforma del 2003, la fusione anche per incorporazione, come nella specie, produceva e produce un fenomeno di tipo successorio, analogo a quella della successione mortis causa , sicché è a quest’ultima ipotesi che occorre far riferimento nell’applicazione della legge n. 89 del 2001.
Ciò significa che, in caso di fusione societaria, realizzandosi un fenomeno di tipo estintivo-successorio, la società incorporante, al fine di ottenere il riconoscimento dell’indennizzo da equa
riparazione ai sensi della legge n. 89 del 2001, può agire sia iure successionis con riguardo all’indennizzo maturato dall’incorporata per l’eccessiva protrazione del giudizio , sia iure proprio onde ottenere quello dovuto per l’ulteriore durata della medesima procedura, con decorrenza , in quest’ultimo caso, dalla formale assunzione della qualità di parte, sicché, non potendosi assumere come riferimento temporale l’intero procedimento, deve procedersi ad una ricostruzione analitica delle diverse frazioni temporali, al fine di valutarne separatamente la ragionevole durata, senza che possa cumularsi il danno sofferto dall’incorporata e quello patito personalmente dall’incorporante che sia intervenuta in giudizio.
Alla luce di tali principi, deve allora ritenersi corretto il ragionamento svolto dai giudici di merito, i quali, distinguendo i due titoli, sono pervenuti alla conclusione che l’equa riparazione non spettasse iure successionis in quanto la procedura si era chiusa entro i sei anni, né iure proprio in quanto l’istante non era intervenuta nella procedura, con conseguente infondatezza della censura.
3. Col terzo motivo, la ricorrente lamenta la violazione e/o falsa applicazione degli artt. 3, 23 e 24 Cost., in relazione all’art. 5 -quater , legge n. 89 del 2001, 91, 92 e 96 cod. proc. civ., nonché la violazione dell’art. 6, paragrafo 1, CEDU, l’art. 1 del primo protocollo addizionale e 11 e 117 Cost., in relazione all’art. 360, primo comma, n. 3, cod. proc. civ., perché la Corte d’appello, condannandola al pagamento della somma di € 5.000,00, in applicazione dell’art. 5quater della legge n. 89 del 2001, sul presupposto che la domanda proposta fosse manifestamente infondata in contrasto con la documentazione versata in atti, aveva omesso di considerare l’estraneità, al sistema processuale civile, al principio di uguaglianza e al diritto di agire in giudizio, della creazione e dell’applicazione di questa ulteriore sanzione,
specie quando la domanda riguardi un diritto previsto e tutelato da una Convenzione internazionale cui il giudice interno è tenuto a conformarsi, e, dunque, al di fuori dei presupposti dettati dall’art. 96 cod. proc. civ., nonché la violazione della riserva di legge, stante l’arbitrarietà dell’ an e del quantum di sua applicazione e l’assenza di norme che indichino al giudice dell’equa riparazione i parametri da seguire.
3.2 La censura è inammissibile.
Tale disposizione, che introduce una sanzione processuale, è applicabile non solo quando la domanda sia dichiarata manifestamente infondata, ma anche quando la stessa sia inammissibile per colpa ascrivibile al ricorrente (Cass., Sez. 2, 31/10/2014, n. 23302), senza prevedere però alcun automatismo tra declaratoria d’inammissibilità o rigetto della domanda per manifesta infondatezza ed applicazione della sanzione, in quanto tale decisione rientra nella discrezionalità valutativa del giudice di merito, come dimostra l’uso del verbo servile (“… può”) nel testo della disposizione (Cass., Sez. 6-2, 18/3/2016, n. 5433), senza che ciò contrasti con i principi costituzionali o della CEDU.
Questa Corte ha, infatti, già avuto modo di chiarire come sia indiscutibile che ‘ la prevista possibilità di una sanzione processuale svolga una funzione deterrente, scoraggiando l’uso distorto o incauto dell’istanza indennitaria. Ma tale effetto
dissuasivo è del tutto compatibile con i parametri costituzionali e, in particolare, con il principio di effettività della tutela giurisdizionale. L’uguale ed indiscriminato accesso a qualsivoglia pretesa, quantunque azzardata o altrimenti priva di chance di accoglimento, non è priva di costi sociali, poiché si traduce in un aggravio della funzione giurisdizionale a danno di chi, con maggiori prospettive di fondatezza, ne ha realmente bisogno. Né la parte può opporre una visione atomizzata del proprio interesse particolare, scissa dai doveri di solidarietà sociale che, pure, la Costituzione pone al centro del vivere comune (art. 2 Cost.). Si consideri, infatti, che il costo della funzione giurisdizionale è sostenuto in buona misura dalla collettività e ripartito al suo interno anche a carico di chi non vi ricorra; sicché, in definitiva, proprio la garanzia di effettività della tutela ben può richiedere, in un contesto socio-politico che è compito del solo legislatore apprezzare, misure volte a ridurre il rischio dell’abuso del processo’ ( Cass., Sez. 6-2, 18/3/2016, n. 5433).
Né può dirsi che la previsione di sanzioni in funzione deflattiva possa porsi in contrasto con i principi contenuti nella Convenzione Edu, dovendosi escludere che le stesse possano integrare un’attività dello Stato che “miri alla distruzione dei diritti o delle libertà” riconosciuti dalla Convenzione o ad “imporre a tali diritti e libertà limitazioni più ampie di quelle previste dalla stessa Convenzione ‘.
Deve dunque dichiararsi l’in ammissibilità del motivo in quanto teso alla rivisitazione di una valutazione lasciata alla discrezionalità del giudice di merito.
3. In conclusione, dichiarata l’infondatezza dei primi due motivi e l’inammissibilità del terzo, il ricorso deve essere rigettato. Le spese del giudizio, liquidate come in dispositivo, seguono la soccombenza e devono essere poste a carico della ricorrente
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso;
condanna la ricorrente al pagamento, in favore del controricorrente, delle spese del giudizio di legittimità, che liquida in euro 1.200,00 per compensi, oltre alle spese prenotate a debito e agli accessori di legge.
Così deciso in Roma, nella camera di consiglio della Seconda