Sentenza di Cassazione Civile Sez. 2 Num. 13317 Anno 2025
Civile Sent. Sez. 2 Num. 13317 Anno 2025
Presidente: NOME COGNOME
Relatore: NOME COGNOME
Data pubblicazione: 19/05/2025
SENTENZA
sul ricorso 19685-2019 proposto da:
COMUNE DI ANCONA, elettivamente domiciliato in ROMA, alla INDIRIZZO presso lo studio dell’avvocato NOME COGNOME rappresentato e difeso dell’avvocato NOME COGNOME giusta procura in calce al ricorso;
-ricorrente –
contro
NOMECOGNOME NOME COGNOME quest’ultimo anche come difensore di se stesso, rappresentati e difesi dall’avvocato NOME COGNOME presso il cui studio
elettivamente domiciliano in ROMA al INDIRIZZO giusta procura a margine del controricorso;
-controricorrenti –
avverso l’ordinanza n. 2873/2019 del TRIBUNALE di ANCONA depositata il 18 aprile 2019;
udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 15 maggio 2025 dal Consigliere Dott. NOME COGNOME
lette le conclusioni del Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore Generale, dott. NOME COGNOME che ha concluso per il rigetto del ricorso;
lette le memorie delle parti;
udito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore Generale, dott. NOME COGNOME che ha concluso per il rigetto del ricorso;
udito l’avvocato NOME COGNOME per il ricorrete e l’avvocato NOME COGNOME per i controricorrenti;
MOTIVI IN FATTO ED IN DIRITTO DELLA DECISIONE
Gli avvocati NOME COGNOME e NOME COGNOME, con ricorso per decreto ingiuntivo, chiedevano al Tribunale di Ancona di ingiungere al Comune di Ancona il pagamento della somma di euro 42.160,33 a titolo di compenso per l’attività professionale svolta, in relazione alla difesa del Comune nel procedimento dinanzi alla Corte di Cassazione, definito con la sentenza n. 12260/2016.
Avverso il decreto ingiuntivo n. 1042/2018, emesso in accoglimento del ricorso, il Comune di Ancona proponeva opposizione, eccependo la nullità e chiedendo di conseguenza la
revoca del decreto e, in via subordinata, previa denuncia dell’eccessivo ammontare delle somme richieste, la riduzione in proporzione delle effettive prestazioni svolte e delle tariffe concretamente applicabili.
In particolare, il Comune eccepiva, in via preliminare, l’improponibilità e la inammissibilità dell’azione per abuso del processo, nonché il proprio difetto di legittimazione ex art. 191 TUEL per mancanza di copertura finanziaria.
L’ente locale poi, oltre a contestare il quantum domandato, offriva il pagamento di una somma in via transattiva.
Con comparsa di risposta gli opposti si costituivano in giudizio e chiedevano il rigetto dell’opposizione.
A seguito del mutamento di rito, il Tribunale adito in composizione collegiale, con ordinanza n. 2783 del 18 aprile 2019, nel rigettare il merito dell’opposizione, accertava l’avvenuto pagamento in corso di causa da parte del Comune di una somma a titolo di acconto, revocava il decreto ingiuntivo e condannava l’Ente al pagamento della restante somma, pari ad € 15.833,43.
In primo luogo, il giudice di prime cure escludeva la sussistenza di un comportamento qualificabile come abuso del processo da parte degli avvocati COGNOME in quanto la pretesa oggetto dell’ingiunzione opposta aveva una causa petendi e soggetti coinvolti diversi rispetto agli altri giudizi e tutte le controversie separatamente instaurate avevano ad oggetto l’accertamento di fatti distinti, difettando pertanto il requisito principale del fenomeno dell’abuso processuale.
In merito all’eccezione di difetto di legittimazione passiva del Comune per mancata copertura finanziaria per le delibere di incarico, il Tribunale rilevava la sua infondatezza non solo perché risultava un impegno di spesa provvisorio dai decreti depositati dal Comune, ma anche perché la nullità prevista per la mancata previsione della spesa e della sua copertura non concerne anche le deliberazioni relative alla partecipazione degli Enti comunali a controversie giudiziarie, basate, come nel caso di specie, sulla sussistenza di un valido contratto scritto tra i difensori e il Comune.
Nel merito riteneva che la domanda degli opposti, in relazione alla difesa svolta ed alle attività difensive prestate in favore dell’opponente, fosse congrua, anche in considerazione del valore della controversia per la quale era stata prestata l’attività professionale.
Il decreto doveva però essere revocato in quanto nella pendenza del giudizio di opposizione il Comune aveva versato delle somme in favore degli opposti, il che imponeva la condanna dell’opponente al pagamento di quanto ancora dovuto, determinato nell’importo sopra indicato.
Per la cassazione di tale ordinanza il Comune di Ancona ha proposto ricorso sulla base di nove motivi.
Gli avvocati NOME COGNOME e NOME COGNOME resistono con controricorso.
Il Pubblico Ministero ha depositato conclusioni scritte.
Entrambe le parti hanno depositato memorie in prossimità dell’udienza.
3. Il primo motivo di ricorso denuncia, ai sensi dell’art. 360, co. 1, n. 5, c.p.c., l’omesso esame di un fatto decisivo oggetto di discussione tra le parti consistente nell’esistenza di un rapporto fiduciario ultraventennale durante il quale lo studio legale dei controricorrenti sarebbe stato incaricato dal Comune di difenderlo nelle controversie giudiziarie inerenti alla vicenda Longarini -Piano di Ricostruzione di Ancona, fatto rilevante per l’accoglimento dell’eccezione sull’abuso del processo.
In particolare, a parere del ricorrente, il compenso richiesto dai professionisti, oggetto del presente giudizio, farebbe intrinsecamente parte di un unico rapporto fiduciario, essendo le diverse azioni giudiziarie proposte in altre sedi afferenti alla stessa vicenda storica.
Il Tribunale avrebbe pertanto errato nel rigettare l’eccezione di abuso del processo, avendo i controricorrenti indebitamente parcellizzato i crediti maturati all’interno di tale rapporto fiduciario, in assenza di alcun interesse oggettivo al loro frazionamento in distinte azioni giudiziarie.
Il secondo motivo di ricorso denuncia l’omesso esame di un fatto decisivo oggetto di discussione tra le parti in relazione all’art. 360, co. 1, n. 5, c.p.c. consistente nella mancata valutazione da parte del Tribunale della identità di soggetti tra le diverse cause azionate dai professionisti ed aventi ad oggetto la richiesta di compenso. In particolare, a parere del ricorrente, il Tribunale avrebbe erroneamente ritenuto che il compenso richiesto dagli avvocati COGNOME fosse relativo ad un giudizio pendente tra soggetti diversi da quelli della vicenda COGNOME, mentre invece, come risultava allegato dal Comune e ritualmente provato in
giudizio, anche il compenso oggetto del presente giudizio era inerente ad un ricorso in Cassazione anch’esso relativo alla medesima vicenda giudiziaria (Longarini).
Il motivo lamenta altresì la nullità dell’ordinanza in relazione all’art. 360, co. 1, n. 4, c.p.c. in violazione dell’art. 132, co. 1, n. 4, c.p.c. per irriducibile contraddittorietà della motivazione, avendo il giudice di prime cure erroneamente affermato la diversità di soggetti tra il giudizio oggetto dei compensi richiesti e le altre cause azionate in altra sede. A parere del ricorrente, il Tribunale, nel rigettare l’eccezione sull’abusivo frazionamento del credito, avrebbe fondato la propria decisione sull’erroneo assunto che il giudizio oggetto del compenso richiesto non fosse ‘relativo a cause con COGNOME‘ per poi però riconoscere l’identità di soggetti solo in un secondo momento nello stesso provvedimento decisorio.
Il terzo motivo di ricorso denuncia l’omesso esame di un fatto decisivo oggetto di discussione tra le parti in relazione all’art. 360, co. 1, n. 5, c.p.c. consistente nell’aver gli odierni controricorrenti, nello stesso giorno depositato due distinti ricorsi per decreto ingiuntivo relativi, entrambi, a crediti per compensi professionali afferenti agli stessi incarichi professionali.
A parere del ricorrente, se il giudice di prime cure avesse valutato tale fatto, avrebbe accolto l’eccezione sull’abuso del processo.
Il quarto motivo di ricorso denuncia, ai sensi dell’art. 360, co. 1, n. 3, c.p.c., la violazione o falsa applicazione degli artt. 1175 e 1375 c.c., anche in relazione all’art. 2 Cost. e dell’art. 111 Cost., per aver il Tribunale errato nel rigettare l’eccezione di abusivo frazionamento del credito sulla base dell’omesso esame di un
fatto decisivo in relazione all’art. 360, co. 1, n. 5, c.p.c., consistente nel frazionamento abusivo da parte degli avvocati della richiesta di compensi tutti inerenti ad un unico rapporto fiduciario ultraventennale e tutti afferenti alla medesima vicenda (Longarini, Piano di RAGIONE_SOCIALE di Ancona). Secondo il ricorrente, il compenso richiesto dai professionisti, oggetto del presente giudizio, farebbe intrinsecamente parte di un unico rapporto fiduciario, essendo tutte le diverse azioni giudiziarie proposte in altra sede afferenti alla medesima vicenda giudiziaria avverso la stessa controparte.
I controricorrenti avrebbero indebitamente parcellizzato i crediti maturati all’interno di tale rapporto fiduciario, in assenza di alcun interesse oggettivo al loro frazionamento in distinte azioni giudiziarie.
I motivi, che possono essere congiuntamente esaminati per la loro connessione, sono manifestamente infondati.
In primo luogo deve escludersi la stessa ammissibilità della deduzione del vizio di omesso esame, atteso che i fatti decisivi, di cui sarebbe stata omessa la disamina, e cioè la sostanziale identità ed unitarietà del rapporto professionale instaurato con gli opposti, sono stati specificamente e puntualmente esaminati dal giudice di merito, che ha escluso che potesse ravvisarsi un’unitaria causa petendi alla base delle domande autonomamente azionate dagli avvocati COGNOME avendo invece ritenuto che l’eserc izio in via autonoma delle pretese creditorie si giustificasse per la diversità dei presupposti delle azioni intraprese (stante la diversità dei contratti di patrocinio di volta in volta intervenuti tra il Comune ed i difensori) e nella diversità dei
soggetti coinvolti nella varie liti e nella diversa veste nella quale il Comune aveva partecipato ai diversi giudizi (così pag. 6 dell’ordinanza impugnata).
Del pari deve escludersi che ricorra la nullità della sentenza per difetto assoluto di motivazione, in quanto la motivazione del provvedimento impugnato risulta ampiamente satisfattiva del principio del cd. minimo costituzionale della motivazione (Cass. S.U. n. 8053/2014), essendo le pretese irriducibili contraddizioni segnalate dal ricorrente costituire nella tesi del Comune piuttosto la conseguenza del dissenso della valutazione in fatto operata dal Tribunale rispetto alla diversa ricostruzione dei rapporti ritenuta invece corretta da parte della difesa dell’ente locale.
L’ordinanza gravata peraltro ha espresso la sua decisione nella piena consapevolezza dei principi affermati da questa Corte in tema di abusivo frazionamento del credito, quali puntualizzati in particolare da Cass. S.U. n. 4090/2017, secondo cui le domande aventi ad oggetto diversi e distinti diritti di credito, benché relativi ad un medesimo rapporto di durata tra le parti, possono essere proposte in separati processi, ma, ove le suddette pretese creditorie, oltre a far capo ad un medesimo rapporto tra le stesse parti, siano anche, in proiezione, inscrivibili nel medesimo ambito oggettivo di un possibile giudicato o, comunque, fondate sullo stesso fatto costitutivo, – sì da non poter essere accertate separatamente se non a costo di una duplicazione di attività istruttoria e di una conseguente dispersione della conoscenza dell’identica vicenda sostanziale – le relative domande possono essere formulate in autonomi giudizi solo se risulti in capo al creditore un interesse oggettivamente valutabile alla tutela
processuale frazionata, e, laddove ne manchi la corrispondente deduzione, il giudice che intenda farne oggetto di rilievo dovrà indicare la relativa questione ex art. 183, c.p.c., riservando, se del caso, la decisione con termine alle parti per il deposito di memorie ex art. 101, comma 2, c.p.c.
Non ignora il Collegio che la successiva giurisprudenza ha in parte ampliato le fattispecie nelle quali è dato invocare il divieto di abusivi frazionamento del credito, essendosi infatti reputato che le domande relative a diritti di credito analoghi per oggetto e per titolo, benché fondati su differenti fatti costitutivi, non possono essere proposte in giudizi diversi, quando i menzionati fatti costitutivi si inscrivano in una relazione unitaria tra le parti, anche di mero fatto, caratterizzante la concreta vicenda da cui deriva la controversia, salvo che l’attore abbia un interesse oggettivo – il cui accertamento compete al giudice di merito – ad azionare in giudizio solo uno ovvero alcuni dei crediti sorti nell’ambito della suddetta relazione unitaria (Cass. n. 14143/2021; Cass. n. 25480/2023; Cass. S.U. n. 7299/2025).
Tuttavia, il presupposto che giustifica tale ampliamento del divieto è sempre correlato all’accertamento in concreto (e che implica evidentemente un giudizio di fatto), circa la possibilità di inserire i vari giudizi per i quali si richiede il compenso in un rapporto di carattere unitario. Nella fattispecie tale accertamento è stato operato dal giudice di merito, con motivazione logica e coerente, che ha sottolineato l’autonomia del giudizio cui afferisce la presente domanda, che era relativo alla pretesa risarcitoria avanzata dai signori COGNOME nei confronti del Comune di Ancona, e che, pur vedendo la partecipazione anche di COGNOME
NOME, era comunque diversa dalle altre cause nelle quali oltre al Comune era presente il detto COGNOME. E’ stata altresì rimarcata la diversità delle varie cause patrocinate sia per le questioni affrontate sia per la diversa posizione che rivestiva il Comune nelle stesse, così che a fronte di tale accertamento viene meno a monte la stessa possibilità di invocare il principio del divieto di abusivo frazionamento del credito, e di riflesso anche la lamentata violazione delle norme in tema di buona fede contrattuale (e ciò anche alla luce del difetto di specificità dei motivi, che reiterano la tesi della sostanziale unitarietà del rapporto in cui si inserivano gli incarichi conferiti agli avvocati COGNOME senza però peritarsi di dettagliare, a fronte della contestazione delle controparti, la pretesa identità delle questioni e della posizione del Comune nei vari giudizi).
5. Il quinto motivo di ricorso denuncia, ai sensi dell’art. 360, co. 1, nn. 3 e 5, c.p.c., la violazione o falsa applicazione degli artt. 191 e 194 TUEL anche in relazione all’allegato n. 4/2 D. Lgs. n. 118/2011 e agli artt. 97 e 119 Cost. per aver rigettato l’eccezione di legittimazione passiva del Comune per mancanza di copertura finanziaria. A parere del ricorrente, il Tribunale avrebbe dovuto accogliere l’eccezione in quanto, in assenza di un previo contratto e senza l’osservanza dei controlli contabil i, il rapporto obbligatorio si sarebbe instaurato direttamente ed esclusivamente tra chi ha fornito la prestazione e l’amministratore o il funzionario inadempiente che l’ha consentita. Pertanto, ai fini del pagamento della prestazione i professionisti avrebbero dovuto rivolgersi al funzionario che, acquisendo l’impegno, non ne aveva dato copertura, difettando l’elemento
della sussidiarietà e di conseguenza qualsiasi responsabilità del Comune.
Il motivo è inammissibile ex art. 360 bis, n. 1, c.p.c., avendo il Tribunale deciso la controversia in conformità della giurisprudenza di questa Corte, e senza che il motivo offra argomenti per indurre a rivedere il precedente orientamento.
Deve, infatti, ricordarsi che è stato anche di recente ribadito che non è affetta da nullità la delibera dell’ente locale che affidi l’incarico di difendere in giudizio l’ente ad un avvocato, a causa della omessa indicazione della spesa e dei mezzi per farvi fronte, perché le prescrizioni dettate dalla legge in materia riguardano solo le delibere implicanti un esborso di somme certe e definite, e non sono applicabili nel caso di spesa non determinabile al momento della relativa assunzione (Cass. n. n. 13913/2019; Cass. n. 17056/2017; Cass. n. 21007/2019; Cass. n. 5803/2022; Cass. n. n. 26036/2024; Cass. n. 6942/2023).
6. Il sesto motivo di ricorso denuncia la nullità dell’ordinanza e la violazione e falsa applicazione degli artt. 113 e 115 c.p.c. in relazione all’art. 360, co. 1, nn. 3 e 4, c.p.c. con conseguente violazione dei principi generali in tema di contestazione degli assunti avversari sul valore della lite, per aver il Tribunale erroneamente ritenuto non contestata la determinazione dello scaglione utilizzato come parametro per liquidare il compenso degli avvocati controricorrenti. Secondo il ricorrente, il Tribunale avrebbe dovuto controllare d’ufficio l’esattezza dello scaglione applicato e determinare quello applicabile secondo le regole di diritto.
Il giudice di prime cure avrebbe altresì omesso di considerare il dato testuale della effettiva e intervenuta contestazione del valore di causa -indispensabile per stabilire quale scaglione tariffario applicare -che il ricorrente avrebbe sempre sostenuto essere ‘indeterminato’.
Il settimo motivo di ricorso denuncia la violazione e falsa applicazione degli artt. 10 c.p.c., 2, 4 e 5, D. M. n. 55/2014 in relazione all’art. 360, co. 1, n. 3, c.p.c., per aver il Tribunale riconosciuto, ai fini della liquidazione del compenso richiesto dai professionisti, un errato ed elevato valore della causa, omettendo di prendere in considerazione la manifesta sproporzione tra il petitum della domanda e l’effettivo valore della controversia. In particolare, secondo il ricorrente, il giudice di prime cure, nel liquidare gli onorari a carico del cliente, avrebbe dovuto verificare l’attività difensiva che il legale ha dovuto apprestare, tenuto conto della peculiarità del caso specifico, in modo da stabilire se l’importo oggetto della domanda potesse costituire un parametro di riferimento idoneo ovvero se lo stesso fosse del tutto inadeguato rispetto all’effettivo valore della controversia.
Il ricorrente lamenta altresì il mancato riconoscimento, da parte del giudice di prime cure, del valore indeterminato della controversia, essendo la domanda rivolta contro il Comune di Ancona limitata alla sola questione della sua legittimazione passiva.
I motivi, da esaminare congiuntamente per la loro connessione, sono privi di fondamento.
Infatti, deve reputarsi che il principio di non contestazione ben possa operare anche in relazione all’individuazione del valore
della controversia nelle controversie di liquidazione dei compensi professionali, e ciò nel caso in cui il cliente non contesti il valore sulla scorta del quale il professionista ha individuato lo scaglione di calcolo.
Va però evidenziato che il Tribunale ha comunque proceduto autonomamente alla sua verifica, senza attestarsi al principio di non contestazione.
Ciò emerge in maniera evidente dalla lettura della pag. 10 dell’ordinanza, nella quale si ricorda che il valore della controversia era pari ad € 3.492.445,06, come ribadito poi alla successiva pag. 12, nella parte in cui si sottolinea che la richiesta di tale somma, che corrispondeva alle originarie pretese risarcitorie avanzate dai COGNOME, anche nei confronti del Comune di Ancona, era stata sostanzialmente reiterata anche nel giudizio di legittimità, in quanto i motivi di ricorso a tal fine proposti dai danneggiati, miravano non solo ad ottenere la condanna del Comune, il cui difetto di titolarità passiva era stato affermato nelle sedi di merito, ma anche un ampliamento del quantum debeatur , che in sede di appello – ed in misura inferiore rispetto all’iniziale domanda – era stato posto a carico del solo COGNOME.
Ai sensi dell’art. 5, co. 2, del DM n. 55 del 2014, ‘Nella liquidazione dei compensi a carico del cliente si ha riguardo al valore corrispondente all’entità della domanda. Si ha riguardo al valore effettivo della controversia quando risulta manifestamente diverso da quello presunto anche in relazione agli interessi perseguiti dalle parti.’
Non ignora il Collegio che questa Corte ha in passato affermato che, in tema di liquidazione degli onorari dell’avvocato a carico del cliente, ai fini della determinazione del valore della controversia, il giudice è tenuto ad accertarne quello l’effettivo e, qualora esso risulti dalla liquidazione in una misura sensibilmente diversa da quella oggetto della domanda, deve adeguarne l’ammontare al concreto importo oggetto della decisione (cfr. ex multis Cass. n. 28885/2023), ma trattasi di una mera possibilità, rimessa cioè alla valutazione discrezionale del giudice di merito che deve verificare, di volta in volta, l’attività difensiva che il legale ha svolto, tenuto conto delle peculiarità del caso specifico, in modo da stabilire se l’importo oggetto della domanda possa costituire un parametro di riferimento idoneo ovvero se lo stesso si riveli del tutto inadeguato all’effettivo valore della controversia (Cass. n. 18507/2018; Cass. n. 1805/2012; Cass. n. 13229/2010).
Tornando al caso in esame, ove si guardasse al criterio del decisum , poiché all’esito del giudizio di legittimità, di cui alla citata sentenza n. 12260/2016 di questa Corte, era rimasto fermo il rigetto della domanda, lo stesso si paleserebbe evidentemente iniquo per la posizione dei difensori.
Appare, quindi, incensurabile il riferimento al valore della domanda risarcitoria avanzata dagli attori (cd. disputatum ), e ciò proprio alla luce del fatto che nel giudizio di legittimità era rimessa in discussione, non solo la responsabilità del Comune, ma anche l’entità del danno da risarcire, così che la difesa svolta nell’interesse del ricorrente atteneva ad una domanda il cui
valore corrisponde all’importo sulla scorta del quale è stata operata la liquidazione in questo giudizio.
A tali criteri risulta essersi conformato il Tribunale di Ancona, che a pag. 12 ha puntualmente richiamato l’iter del giudizio di legittimità e le posizioni nel medesimo assunte rispettivamente dagli originari attori e dal Comune, sottolineando quindi la correttezza del richiamo nella parcella dei controricorrenti a quello che era l’ammontare inizialmente richiesto in via risarcitoria dai sigg. COGNOME.
L’ottavo motivo di ricorso denuncia la violazione e falsa applicazione degli artt. 4 e 5 del D.M. n. 55/2014 per insussistenza dei presupposti normativi per la liquidazione degli onorari massimi stante l’assenza di novità della questione e la ripetitività della pronuncia tra le stesse parti. A parere del ricorrente, il giudice di prime cure, nel riconoscere ai professionisti i valori massimi previsti dalle tariffe vigenti, avrebbe omesso di considerare che le questioni trattate nel giudizio di Cassazione per il quale era stato richiesto il compenso erano relative essenzialmente al difetto di legittimazione passiva del Comune di Ancona, non ravvisandosi pertanto i requisiti della complessità e del pregio della questione oggetto dell’attività professionale.
Il motivo è inammissibile in quanto attinge una valutazione discrezionalmente rimessa al giudice di merito, ed insindacabile in sede di legittimità ove congruamente motivata.
Questa Corte ha, infatti, ribadito che, in tema di liquidazione delle spese processuali ai sensi del d.m. n. 55 del 2014, l’esercizio del potere discrezionale del giudice, contenuto tra il minimo e il
massimo dei parametri previsti, non è soggetto al controllo di legittimità, attenendo pur sempre a parametri indicati tabellarmente, mentre la motivazione è doverosa allorquando il giudice decida di aumentare o diminuire ulteriormente gli importi da riconoscere, essendo in tal caso necessario che siano controllabili le ragioni che giustificano lo scostamento e la misura di esso (Cass. n. 14198/2022; Cass. n. 89/2021).
Nella fattispecie, non solo la liquidazione è contenuta nei massimi tariffari (essendosi ritenuta necessaria la motivazione solo nel caso in cui si intenda derogare a questi), ma l’ordinanza a pag. 13 ha evidenziato che ‘L’applicazione dei valori massimi infine -applicata dagli avv.ti COGNOME trova la sua diretta e concreta giustificazione nella particolare complessità e pregio dell’opera prestata dai due professionisti, per come emergente dalla documentazione depositata e fra l’altro mai contestata dal Comune (cfr. la documentazione versata in atti e depositata da parte opposta).’
Ritenuto che qui la non contestazione è evidentemente riferita al contenuto dei documenti ed alla loro provenienza ed attinenza alla causa presupposta, emerge chiaramente che il Tribunale abbia autonomamente proceduto al vaglio della rilevanza e del pregio delle prestazioni rese (avendo a pag. 10 anche ricordato i risultati ampiamenti favorevoli del giudizio per la posizione del Comune), il che esclude che l’ordinanza sia suscettibile di censura in parte qua.
Con il nono motivo il ricorrente solleva -in via subordinata all’applicazione al caso di specie dell’orientamento giurisprudenziale sull’insindacabilità in sede di legittimità delle
statuizioni del giudice di merito relative alla liquidazione degli onorari -l’eccezione di incostituzionalità dell’art. 14 D. Lgs. n. 150/2011 per violazione del principio di uguaglianza ex artt. 2 e 111 Cost. anche in relazione all’art. 13 CEDU laddove la stessa norma, impedendo il ricorso in appello, si risolverebbe di fatto in un giudizio in unico grado, andando così a costruire un unicum che priverebbe il ricorrente della propria legittima facoltà di difesa.
Il motivo è manifestamente infondato.
La questione posta è già stata esaminata e reputata manifestamente infondata dalla Corte Costituzionale, con la sentenza n. n. 238/1976.
In tale pronuncia è stato evidenziato che, secondo l’orientamento della giurisprudenza costituzionale (sentenza n. 22 del 1973, con cui sono state dichiarate non fondate le questioni di legittimità costituzionale degli artt. 28, 29 e 30 della legge n. 794 del 1942 sollevate, in riferimento agli artt. 3 e 24, comma secondo, della Costituzione) il procedimento speciale de quo (oggi trasfuso nell’art. 14 del D. Lgs. n. 150/2011) è previsto per la liquidazione delle spese, degli onorari e dei diritti spettanti ad avvocati e procuratori per prestazioni giudiziali in materia civile, e per l’esame e la decisione delle opposizioni proposte a norma dell’art. 645 del codice di procedura civile contro decreti ingiuntivi emessi per i detti crediti, e sempre che da parte del convenuto o dell’opponente non venga contestata l’esistenza del rapporto di patrocinio; in tale procedimento vanno osservate le comuni norme circa l’onere della domanda e della prova, a cui rigorosamente è correlato l’esercizio della potestà giurisdizionale
sotto il profilo istruttorio e quello decisorio; nello stesso procedimento, di indubbia natura contenziosa, sono ammissibili le indagini volte all’accertamento dei fatti dedotti dalle parti e le prove, in particolare quelle orali, per interrogatorio formale e per testimoni e il tutto da svolgersi nelle forme compatibili con la natura camerale del procedimento, ed ovviamente in attuazione del principio generale della idoneità degli atti processuali al raggiungimento del loro scopo; ed infine delle ragioni addotte dalle parti e delle risultanze istruttorie il giudice necessariamente tiene conto nel decidere la controversia e su di esse ha l’obbligo di motivare, in modo succinto ma esauriente, nel provvedimento conclusivo.
Non sussistono pertanto le asserite violazioni degli artt. 3 e 24 della Costituzione perché il relativo trattamento a favore dei professionisti legali, è previsto solo per un determinato e limitato settore del contenzioso tra professionista e cliente, e per questioni, che, essendo relative a prestazioni giudiziali in materia civile e di solito semplici, possono essere decise dal giudice con facilità, e quindi non appare arbitrario né irrazionale che tale trattamento non sia stato esteso a tutti i professionisti di cui all’art. 633 del codice di procedura civile; perché è di conseguenza (e d’altronde manca la tutela costituzionale del doppio grado di giurisdizione) che il procedimento si esaurisca in unico grado.
Alla giurisprudenza costituzionale ha poi successivamente mostrato di aderire anche questa Corte che ha affermato che nella disciplina de qua, che prevede una deroga al principio del doppio grado di giurisdizione, non sussistono profili di illegittimità
costituzionale in riferimento agli artt. 3 e 34, secondo comma, Cost., avuto riguardo al fatto che la Corte Costituzionale, con le sentenze n. 22 del 1973 e n. 238 del 1976, ha già dichiarato non fondate le questioni di legittimità costituzionale degli artt. 28, 29 e 30 della citata legge n. 794 del 1942, in riferimento ai medesimi parametri, sul rilievo che la non impugnabilità del provvedimento conclusivo del procedimento per la liquidazione delle prestazioni giudiziali in materia civile rese dagli avvocati è stata razionalmente intesa negli stretti limiti della non appellabilità del medesimo provvedimento in quanto emanato nell’ambito della materia della liquidazione, e che detto regime, pur escludendo il doppio grado di cognizione di merito – peraltro non riconosciuto dalla Costituzione quale necessaria garanzia del diritto di difesa -, assicura comunque il valido esercizio di tale diritto attraverso la esperibilità del ricorso per cassazione ai sensi dell’art. 111 Cost. (Cass. n. 10190/2000; Cass. n. 6225/2010).
Il ricorso è pertanto rigettato ed al rigetto consegue la condanna del ricorrente al rimborso delle spese del grado, che si liquidano come da dispositivo che segue .
Non ricorrono tuttavia i presupposti anche per la condanna del Comune ex art. 96 c.p.c.
Poiché il ricorso è rigettato, sussistono le condizioni per dare atto -ai sensi dell’art. 1, co. 17, della legge 24 dicembre 2012, n. 228 (Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato -Legge di stabilità 2013), che ha aggiunto il comma 1quater dell’art. 13 del TU di cui al d.P.R. 30 maggio 2002, n. 115 -della sussistenza dei presupposti processuali dell’obbligo di versamento, da parte del ricorrente, di
un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per la stessa impugnazione.
P. Q. M.
La Corte rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al rimborso in favore dei controricorrenti delle spese del presente giudizio che si liquidano in complessivi € 3.200,00, di cui € 200,00 per esborsi, oltre spese generali pari al 15% sui compensi, ed accessori di legge, se dovuti;
ai sensi dell’art. 13, co. 1 -quater , del d.P.R. n. 115/2002, inserito dall’art. 1, co. 17, l. n. 228/12, dichiara la sussistenza dei presupposti processuali per il versamento di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato per il ricorso, a norma del co. 1bis dello stesso art. 13, se dovuto.
Così deciso in Roma, nella camera di consiglio della Seconda