Ordinanza di Cassazione Civile Sez. L Num. 27370 Anno 2024
Civile Ord. Sez. L Num. 27370 Anno 2024
Presidente: COGNOME NOME
Relatore: COGNOME NOME
Data pubblicazione: 22/10/2024
ORDINANZA
sul ricorso 33876-2019 proposto da:
COGNOME NOME, quale coniuge erede di COGNOME NOME, originario ricorrente, elettivamente domiciliata in INDIRIZZO, presso lo studio dell’AVV_NOTAIO, che la rappresenta e difende;
– ricorrente –
contro
REGIONE PUGLIA, in persona del Presidente pro tempore , elettivamente domiciliata in ROMAINDIRIZZO, presso lo studio dell’AVV_NOTAIO NOME COGNOME, rappresentata e difesa dall’AVV_NOTAIO NOME COGNOME;
– controricorrente –
avverso la sentenza n. 816/2019 della CORTE D’APPELLO di BARI, depositata il 22/05/2019 R.G.N. 1742/2016;
Oggetto
R.G.N. 33876/NUMERO_DOCUMENTO
COGNOME.
Rep.
Ud. 25/09/2024
CC
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udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del 25/09/2024 dal AVV_NOTAIO NOME COGNOME.
RILEVATO CHE
La Corte di Appello di Bari, confermando la decisione di primo grado del Tribunale della medesima città, rigettava la domanda con cui COGNOME NOME, previo accertamento del subito demansionamento, chiedeva la condanna della parte datoriale, Regione Puglia, al risarcimento del danno, patrimoniale e non patrimoniale.
Il rigetto della domanda da parte del Tribunale, confermata in appello, era motivata dal rilievo che in un precedente giudizio nr. 15068/2008 il lavoratore aveva già adito l’autorità giudiziaria, prospettando le medesime condotte demansionanti alla base anche del presente contenzioso, chiedendo la reintegra negli incarichi dirigenziali precedentemente ricoperti o il conferimento di incarichi dirigenziali maggiormente confacenti alla sua professionalità oltre alla condanna della Regione Puglia al risarcimento del danno non patrimoniale.
Conclusivamente il Tribunale di Bari, nella sentenza poi confermata da quella di appello, qui gravata dal ricorso per cassazione, rigettava la domanda del lavoratore, ritenendo violato il principio del divieto del frazionamento del credito cristallizzato nella pronunzia delle Sezioni Unite della Cassazione n. 23726/2007.
La pronuncia della Corte territoriale, nel confermare quella di prime cure, precisava altresì, in adesione all’orientamento manifestato dal giudice di legittimità in Cass. n. 4090/2017 , che ‘le domande aventi ad oggetto diversi e distinti diritti di credito, benché relativi ad un medesimo rapporto di durata tra le parti,
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possono essere proposte in separati processi, ma, ove le suddette pretese creditorie, oltre a far capo ad un medesimo rapporto tra le stesse parti, siano anche, in proiezione, inscrivibili nel medesimo ambito oggettivo di un possibile giudicato o, comunque, fondate sullo stesso fatto costitutivo sì da non poter essere accertate separatamente se non a costo di una duplicazione di attività istruttoria e di una conseguente dispersione della conoscenza dell’identica vicenda sostanziale le relative domande possono essere formulate in autonomi giudizi solo se risulti in capo al creditore un interesse oggettivamente valutabile alla tutela processuale frazionata (…)’.
Avverso detta pronunzia presenta ricorso il lavoratore, articolato in due motivi.
Resiste con controricorso la Regione Puglia.
Entrambe le parti depositano memorie.
CONSIDERATO CHE
In via preliminare di deve dare atto che, nel corso del giudizio di legittimità, deceduto NOME COGNOME, originario ricorrente, si costituiva, con memoria, ex art. 111 c.p.c. NOME COGNOME, coniuge del de cuius , legittimata in virtù delle risultanze del certificato di morte dell’originario ricorrente depositato in atti.
Con il primo mezzo viene dedotta la violazione e falsa applicazione degli artt. 2 e 111 Cost., dell’art. 88 c.p.c. e dell’art. 1218 c.c., in relazione all’art. 360, primo comma, nn. 3 e 4, per avere la sentenza di appello erroneamente affermato che nella specie è stato violato il principio di infrazionabilità del credito, tanto in ragione della notazione che solo nel presente giudizio è stato richiesto, per la prima volta, oltre al risarcimento del
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danno non patrimoniale anche il risarcimento di quello patrimoniale.
Si sostiene al riguardo che, in ragione della diversità dei crediti e del fatto costitutivo degli stessi (essendo il danno patrimoniale completamente diverso da quello patrimoniale), poteva essere proposta per ciascuno di essi un’azione diversa. Si evidenzia la conformità dell’assunto agli insegnamenti di Sez. Un. n. 4090 del 2017 in cui si è, infatti, esclusa la violazione del principio di infrazionabilità dei crediti sulla base del rilievo che il lavoratore aveva agito nei due distinti processi per due crediti diversi, benché relativi al medesimo rapporto di durata tra le parti, nella specie al rapporto di lavoro: il primo credito, infatti, si ricorda, atteneva al t.f.r., il secondo, invece, al premio di fedeltà, ovvero due crediti fondati su fatti costitutivi diversi. Si sottolinea, infine, che l’inadempimento della Regione non è stato nemmeno esaminato nel primo giudizio, in quanto il rigetto della domanda è stato determinato esclusivamente dalla omessa allegazione di fatti relativi ai danni non patrimoniali.
Con il secondo motivo viene denunziata la violazione e falsa applicazione degli artt. 2 e 111 Cost., dell’art. 88 c.p.c e dell’art. 1218 c.c., in relazione all’art. 360, primo comma, nn. 3 e 4 c.p.c. per avere il giudice di appello erroneamente affermato la violazione del principio di infrazionabilità del credito in carenza di un interesse oggettivo a far valere separatamente le pretese creditorie.
Si rimarca, invece, nel motivo che detto interesse sussiste sia perché i fatti costitutivi sono diversi, sia perché il danno patrimoniale è in parte (con riguardo ai danni patrimoniali relativi alla differenza dell’indennità di fine rapporto e dell’assegno pensionistico) maturato solo alla fine del rapporto
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avvenuto il 30.4.2012 e, quindi, dopo la proposizione del primo ricorso.
I due motivi stante l’intima connessione possono essere trattati congiuntamente.
Preliminarmente osserva il Collegio, in adesione al costante orientamento del giudice di legittimità sul punto, che ‘ in tema di risarcimento dei danni da responsabilità civile, l’unitarietà del diritto al risarcimento ed il suo riflesso processuale sull’ordinaria infrazionabilità del giudizio di liquidazione comportano che, quando un soggetto agisca in giudizio per chiedere il risarcimento dei danni a lui cagionati da un dato comportamento del convenuto, la domanda si deve riferire a tutte le possibili voci di danno originate da quella condotta. Ne consegue che, laddove nell’atto introduttivo siano indicate specifiche voci di pregiudizio, a tale indicazione deve riconoscersi valore meramente esemplificativo dei vari profili di pregiudizio dei quali si intenda ottenere il ristoro, a meno che non si possa ragionevolmente ricavarne la volontà attorea di escludere dal ‘petitum’ le voci non menzionate’ ( cfr. Cass. n. 15523/2019, ma anche la precedente Cass. n. 17879/2011, rv. 619359-01). In tema di risarcimento dei danni da responsabilità civile, il danneggiato, a fronte di un unitario fatto illecito produttivo di danni a cose e persone, non può, insomma, frazionare la tutela giudiziaria, agendo separatamente per le singole poste risarcitorie, né mediante riserva di farne valere ulteriori e diverse in altro procedimento, trattandosi di condotta che aggrava la posizione del danneggiante-debitore, ponendosi in contrasto con il generale dovere di correttezza e buona fede e risolvendosi in un abuso dello strumento processuale, salvo che risulti in capo all’attore un interesse oggettivamente valutabile alla tutela processuale frazionata ( cfr. in tal senso Cass. n.
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8217/2024, rv. 670624-01, in conformità con la precedente Cass. n. 17019/2018, rv. 649441-02).
Sul principio dell’unitarietà della domanda risarcitoria riposa quindi l’orientamento secondo il quale – all’evidente scopo di contemperare gli interessi in rilievo e di non arrecare pregiudizio al danneggiato – la domanda risarcitoria, pur in assenza di una specifica ed espressa manifestazione di volontà dell’attore, comprende tutti i possibili pregiudizi eziologicamente riconducibili all’inadempimento o al fatto illecito.
La conseguenza di tale ricostruzione è che, per un verso, alle indicazioni delle voci contenute nell’atto introduttivo deve riconoscersi valore meramente esemplificativo e, per altro verso, che la domanda di risarcimento del danno si intende estesa anche ai pregiudizi che eventualmente si produrranno nel corso del giudizio ( cfr. ancora le già ricordate Cass. n. 11789/2017, rv. 619359-01 e Cass. n. 15523/2019, rv. 65431001 ma anche Cass. n. 2038/2019, rv. 65225101, Cass. n. 9453/2013, rv. 626117-01).
La ricostruzione del sistema nei termini innanzi illustrati opera il pieno contemperamento tra il principio di unitarietà della domanda di risarcimento del danno e necessaria integralità dello stesso, senza che alcun pregiudizio abbiano a soffrire danneggiante e danneggiato, anzi in un bilanciamento degli interessi di entrambe le parti.
Quanto innanzi esposto è foriero di conseguenze anche con riguardo all’efficacia giuridica del giudicato che, come noto, copre il dedotto ed il deducibile. Infatti, l’unitarietà del danno, l’estensione della domanda anche alle poste non espressamente azionate e la ristorabilità dei danni ulteriori che abbiano avuto a verificarsi nel corso del giudizio hanno quale evidente conseguenza l’improponibilità di nuove azioni risarcitorie nelle
quale il fatto generatore (condotta inadempiente o illecita) sia lo stesso posto a fondamento della primigenia domanda oggetto di giudicato.
Alla luce di quanto innanzi, il principio dell’unitarietà del danno e quello connesso dell’infrazionabilità della domanda giudiziaria soffrono eccezioni nelle sole ipotesi in cui la condotta illecita sia perdurante, il danno di cui si chiede il risarcimento sia nuovo ed autonomo (e non mero aggravamento di quello già prodotto) ed eziologicamente riconducibile alla porzione di azione sopravvenuta al giudicato. Tali conclusioni sono perfettamente coerenti con la ricostruzione finora compiuta, oltre che con i principi generali in tema di risarcimento (cfr, anche Cass. n. 7139/2013, rv. 625504-01 e la precedente conforme Cass. S.U. n. 580/2008, rv. 625504-01, nonché Cass. S.U. n. 5023/2010, rv. 612071-01).
Va dunque verificata la ricaduta della ricostruzione innanzi compiuta nel caso qui all’attenzione.
In via preliminare va osservato che, come emerge sia dal ricorso per cassazione ( cfr. pag. 5) che dal controricorso ( cfr. pag. 12), sulla sentenza n. 817/2019 della Corte di Appello di Bari, di rigetto delle domande risarcitorie aventi causa nel medesimo demansionamento, azionate innanzi al Tribunale di Bari nel primo giudizio, recente il n. di R.G. n. 15068/2008, è caduto il giudicato che – come noto – copre il dedotto ed il deducibile.
Conseguentemente, incontestato che il fatto generatore del danno sia lo stesso -il medesimo demansionamento professionale – alla luce di quanto si è illustrato ai punti 6-9, alcun rilievo può assumere la circostanza che nel primo giudizio fosse stato richiesto il risarcimento del solo danno non patrimoniale e non anche quello patrimoniale, atteso che come
si è innanzi detto, la domanda risarcitoria deve intendersi estesa a tutte le voci di danno, assumendo l’indicazione di solo alcune di esse nella domanda giudiziaria mero valore esemplificativo.
Con riguardo alla questione posta nel secondo motivo ovvero l’impossibilità di agire nel primo giudizio per una parte del danno patrimoniale (differenza di indennità di fine rapporto e assegno pensionistico) in quanto esso sarebbe maturato solo all’esito della cessazione del rapporto di lavoro intervenuta nell’anno 2012, laddove il primo giudizio è stato introdotto nell’anno 2008 – deve osservarsi che anche questa doglianza non si confronta con gli insegnamenti del giudice di legittimità innanzi ricordati, secondo i quali solo il perdurare della condotta illecita e la genesi di un nuovo danno possono legittimare la proposizione di un nuovo giudizio risarcitorio, estendendosi la domanda risarcitoria proposta a tutti i danni pur se verificatisi nel corso del giudizio, com’è nel caso in esame.
Ne consegue, allora, che la maturazione del giudicato sulla prima domanda risarcitoria, che ritraeva causa dal medesimo fatto generatore, coprendo il dedotto ed il deducibile -impedisce la proposizione di un secondo giudizio.
Brevemente va anche osservato come nel caso di specie nemmeno rilevano le questioni poste alle Sezioni Unite nell’ordinanza interlocutoria n. 3642 del 2024 che concernono gli effetti processuali della violazione del divieto di frazionamento e non l’ampiezza e la delimitazione dell’istituto.
Conclusivamente, il ricorso è infondato e va rigettato.
Le spese del giudizio di legittimità seguono la soccombenza e si liquidano come in dispositivo.
Ai sensi dell’art. 13, comma 1quater, del d.P.R. n. 115 del 2002, si dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, se dovuto, da parte del ricorrente dell’ulteriore
importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso a norma del comma 1bis , dello stesso art. 13.
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso; condanna parte ricorrente al pagamento in favore della parte controricorrente delle spese del giudizio di legittimità, liquidate in € 200,00 per esborsi, €. 6.000,00 per compensi professionali, oltre spese generali nella misura del 15% ed accessori di legge. Ai sensi dell’art. 13, comma 1 -quater, del d.P.R. n. 115 del 2002, si dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, se dovuto, da parte del ricorrente dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso a norma del comma 1bis , dello stesso art. 13. Roma, così deciso nella camera di consiglio del 25.9.2024