Ordinanza di Cassazione Civile Sez. L Num. 19187 Anno 2025
Civile Ord. Sez. L Num. 19187 Anno 2025
Presidente: COGNOME
Relatore: COGNOME NOME COGNOME
Data pubblicazione: 12/07/2025
La Corte di Appello di Ancona ha rigettato il gravame proposto da NOME COGNOME (ex dipendente ASUR, cessata dal servizio per invalidità dal 10.4.2008) avverso la sentenza del Tribunale di Macerata, che aveva respinto la sua domanda, volta ad ottenere il risarcimento del danno da perdita della chance di vedersi corrispondere importi pensionistici maggiori di quelli percepiti.
La COGNOME era stata licenziata in data 22.10.1999 ed aveva ottenuto una dichiarazione giudiziale di nullità del licenziamento che le aveva consentito di essere reimmessa in servizio dal 18.10.2006; tuttavia la sentenza n. 791/2011 della Corte di Appello di Ancona aveva irrimediabilmente pregiudicato il versamento dei contributi nel periodo di mancata prestazione lavorativa.
La Corte territoriale ha ritenuto che il Tribunale avesse travisato i contenuti della domanda proposta dalla COGNOME, risultando dal ricorso di primo grado che la causa petendi dell’azione era costituita dal licenziamento nullo, e non dall’omesso versamento contributivo.
Ha ritenuto che proprio l’esatta individuazione della fonte di responsabilità fatta valere in giudizio imponesse la conferma della sentenza sotto altro profilo, rimasto del tutto estraneo ai contenuti della decisione, e non coperto da giudicato implicito.
Ha in particolare evidenziato che il licenziamento viziato, quale fatto illecito posto a base della domanda, aveva già formato oggetto di impugnativa giudiziale, poi sfociata nella sentenza n. 791/2011, nella quale erano stati esaminati e valutati tutti i riflessi pregiudizievoli del recesso datoriale contra ius denunciati in quella sede dalla lavoratrice, tanto che il giudice di appello, avendo ritenuto inapplicabile l’att. 18 della legge n. 300/1970, aveva ravvisato l’insussistenza dei presupposti per il risarcimento del danno da omesso versamento contributivo.
Ha ritenuto che fosse onere della lavoratrice formulare, nell’ambito dell’impugnativa del licenziamento, anche la richiesta risarcitoria del pregiudizio ravvisabile nella perdita della possibilità di ricostruire la posizione contributiva nel periodo dal 1999 al 2006.
Richiamati i principi espressi dalla giurisprudenza di legittimità sull’infrazionabilità del giudizio di liquidazione del danno ogniqualvolta il medesimo sia riconducibile al medesimo fatto generatore che assurge ad esclusiva causa petendi , ha rilevato che nel caso di specie il fatto illecito, unico, era costituito dal licenziamento ed ha escluso che il danno da perdita della possibilità di ricostruzione della posizione contributiva, utile all’erogazione di maggiori importi pensionistici, all’epoca dell’impugnativa del licenziamento si atteggiasse quale danno futuro ed eventuale.
Per tali assorbenti ragioni ha ritenuto infondata la domanda proposta dalla COGNOME nel giudizio di primo grado.
Avverso tale sentenza la COGNOME ha proposto ricorso per cassazione, sulla base di due motivi.
ASUR Marche ha resistito con controricorso, illustrato da memoria.
DIRITTO
Con il primo motivo il ricorso denuncia violazione e falsa applicazione dell’art. 24 Cost., dell’art. 113, comma primo, cod. proc. civ. e dell’art. 1223 cod. civ., in relazione all’art. 360, comma primo, n. 3, cod. proc. civ.
Critica la sentenza impugnata per avere erroneamente applicato il principio di diritto stabilito da Cass. n. 4090/2017.
Sostiene che l’interesse oggettivo della COGNOME alla proposizione della domanda di risarcimento del danno da perdita della chance di percepire un più elevato trattamento pensionistico in un giudizio diverso da quello riguardante il licenziamento era emerso dalla sentenza n. 791/2011 della Corte di Appello di Ancona, che aveva per la prima volta stabilito, ai sensi dell’art. 113, comma primo, cod. proc. civ., l’inapplicabilità dell’art. 18 della legge n. 300/1970 e dunque la legittimità dell’omesso ve rsamento dei contributi nel periodo intercorrente tra il licenziamento e la reintegra.
2. Il motivo è infondato.
In tema di abusivo frazionamento del credito, le Sezioni Unite di questa Corte hanno chiarito che ‘Le domande aventi ad oggetto diversi e distinti diritti di credito, anche se relativi ad un medesimo rapporto di durata tra le parti, possono essere proposte in separati processi. Se tuttavia i suddetti diritti di credito, oltre a far capo ad un medesimo rapporto di durata tra le stesse parti, sono anche, in proiezione, inscrivibili nel medesimo ambito oggettivo di un possibile giudicato o comunque ‘fondati’ sul medesimo fatto costitutivo -sì da non poter essere accertati separatamente se non a costo di una duplicazione di attività istruttoria e di una conseguente dispersione della conoscenza di una medesima vicenda sostanziale- le relative domande possono essere proposte in separati giudizi solo se risulta in capo al creditore agente un interesse oggettivamente valutabile alla tutela processuale frazionata. Ove la necessità di siffatto interesse (e la relativa mancanza) non siano state dedotte dal convenuto, il giudice che intenda farne oggetto di rilievo dovrà indicare la relativa questione ai sensi dell’art. 183 cod. proc. civ. e, se del caso, e se del caso, riservare la decisione assegnando alle parti termine per memorie ai sensi dell’art. 101 comma 2 c.p.c.’ (Cass SU n. 4090/2017).
Con la sentenza n. 7299/2025 le stesse Sezioni Unite hanno recentemente ribadito che i diritti di credito i quali, oltre a fare capo ad un medesimo rapporto di durata tra le stesse parti, sono anche in proiezione iscrivibili nel medesimo ambito oggettivo di un possibile giudicato oppure fondati sul medesimo o su analoghi fatti costitutivi il cui accertamento separato si traduca in un inutile e ingiustificato dispendio dell’attività processuale, non possono essere azionati in separati giudizi, a meno che non si accerti la titolarità, in capo al creditore, di un apprezzabile interesse alla tutela processuale frazionata, in mancanza del quale la domanda abusivamente frazionata deve essere dichiarata improponibile, impregiudicato il diritto alla sua riproposizione unitaria.
Si è dunque attenuta a tali principi la Corte territoriale, avendo escluso che il danno da perdita della possibilità di ricostituzione della posizione contributiva (a sua volta utile all’erogazione di maggiori importi pensionistici ) si atteggiasse,
all’epoca dell’impugnativa di licenziamento, quale danno futuro ed eventuale non suscettibile di risarcimento, ed avendo rilevato che sin da allora apparivano ben evidenti le conseguenze negative che la mancata prestazione lavorativa nel periodo di riferimento avrebbe prodotto rispetto alla posizione previdenziale della dipendente.
Peraltro la COGNOME non poteva dare per scontato l’accoglimento della domanda ex art. 18 legge n. 300/1970 proposta nel precedente giudizio ed aveva comunque l’onere di impugnare sul punto la sentenza n. 791/2011 della Corte di Appello di Ancona, che ha ritenuto nullo il licenziamento intimato alla COGNOME nell’ottobre in data 22.10.1999, ha considerato in essere il rapporto dal recesso alla riammissione in servizio ed ha riconosciuto il diritto della COGNOME a percepire le retribuzioni dalla lettera di messa in mora del 3.11.1999 alla riammissione in servizio.
Nel caso di specie non si verte dunque in tema di ‘interesse oggettivo’, inteso come un interesse non di mero fatto, ritenuto meritevole di tutela dall’ordinamento e tale da giustificare il frazionamento della domanda.
Con il secondo motivo il ricorso denuncia violazione e falsa applicazione dell’art. 116 cod. proc. civ., in relazione all’art. 360, comma primo, n. 5, cod. proc. civ.
Lamenta l’omessa valutazione di documenti il cui apprezzamento avrebbe condotto con certezza alla quantificazione del danno.
Richiama la documentazione allegata al ricorso e all’atto di appello, tra cui la comunicazione dell’INPDAP del 5.12.2011 e la consulenza tecnica di parte.
4. Il motivo è inammissibile.
Innanzitutto la censura non si confronta con il decisum .
La sentenza impugnata non ha infatti escluso la riduzione del trattamento previdenziale, ma ha ritenuto l’infrazionabilità delle domande.
L ‘omesso esame di mezzi istruttori non rientra comunque nel paradigma dell’art. 360, comma primo, n. 5 cod. proc. civ.
Inoltre l ‘omesso esame di cui all’art. 360, comma primo, n. 5 cod. proc. civ. non può riguardare mezzi istruttori (v. ex multis Cass. 20 giugno 2024, n. 17005).
Tale disposizione ha introdotto nell’ordinamento un vizio specifico denunciabile per cassazione, relativo all’omesso esame di un fatto storico, principale o secondario, ossia ad un preciso accadimento o ad una precisa circostanza in senso storico naturalistico, la cui esistenza risulti dagli atti processuali che hanno costituito oggetto di discussione tra le parti, avente carattere decisivo (vale a dire che, se esaminato, avrebbe determinato un esito diverso della controversia).
Secondo il consolidato orientamento di questa Corte, è peraltro inammissibile il ricorso per cassazione che, sotto l’apparente deduzione del vizio di violazione o falsa applicazione di norme di legge, di mancanza assoluta di motivazione e di omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio o di omessa pronuncia miri, in realtà, ad una rivalutazione dei fatti storici operata dal giudice di merito, così da realizzare una surrettizia trasformazione del giudizio di legittimità in un nuovo, non consentito, terzo grado di merito (vedi, per tutte: Cass. S.U. 27 dicembre 2019, n. 34476 e Cass. 14 aprile 2017, n. 8758).
Con il terzo motivo il ricorso denuncia violazione e falsa applicazione degli artt. 91 e 92 cod. proc. civ., ai sensi dell’art. 360, comma primo, n. 3 cod. proc. civ.
Sostiene che la sostituzione integrale della motivazione costituisce soccombenza e legittima la compensazione delle spese di lite del giudizio di primo grado.
6. Il motivo è inammissibile.
La soccombenza è determinata dall’esito della lite e la sentenza impugnata ha rigettato il gravame proposto dalla COGNOME, confermando l’infondatezza della sua pretesa.
Questa Corte ha infatti chiarito che parte soccombente è quella che abbia azionato una pretesa accertata come infondata o abbia resistito ad una pretesa fondata, dando causa al processo o alla sua protrazione (Cass. n. 16431/2019).
Deve inoltre rammentarsi che la denuncia di violazione della norma di cui all’art. 91, comma 1, c.p.c., in sede di legittimità trova ingresso solo quando le spese siano poste a carico della parte integralmente vittoriosa ( ex multis : Cass. n. 18128 del 2020 e Cass. n. 26912 del 2020) e che la compensazione delle
spese processuali, di cui all’art. 92 c od. proc. civ., costituisce esercizio di un potere discrezionale del giudice di merito (v., per tutte, Cass. SS. UU. n. 20598 del 2008).
Il ricorso va pertanto rigettato.
Le spese seguono la soccombenza e sono liquidate come in dispositivo.
Sussistono le condizioni per dare atto, ai sensi dell’art. 13, comma 1 quater , del d.P.R. n.115 del 2002, dell’obbligo, per parte ricorrente, di versare l’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per l’impugnazione integralmente rigettata, se dovuto.
PQM
La Corte rigetta il ricorso e condanna parte ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di legittimità, che liquida in € 200,00 per esborsi ed in € 4.000,00 per competenze professionali, oltre al rimborso spese generali nella misura del 15% e accessori di legge;
dà atto della sussistenza dell’obbligo per parte ricorrente, ai sensi dell’art. 13, comma 1 quater , del d.P.R. n.115 del 2002, di versare l’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per l’impugnazione integralmente rigettata, se dovuto.
Così deciso in Roma, nella camera di consiglio della Sezione Lavoro della Corte