Sentenza di Cassazione Civile Sez. L Num. 34292 Anno 2024
Civile Sent. Sez. L Num. 34292 Anno 2024
Presidente: COGNOME
Relatore: COGNOME NOME
Data pubblicazione: 24/12/2024
SENTENZA
sul ricorso 27842-2019 proposto da:
COGNOME NOME, elettivamente domiciliato in INDIRIZZO, presso lo studio dell’avvocato NOME COGNOME, rappresentato e difeso dall’avvocato NOME COGNOME;
– ricorrente –
contro
RAGIONE_RAGIONE_SOCIALE, in persona del Presidente e legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliato in ROMA, INDIRIZZO, presso l’Avvocatura RAGIONE_RAGIONE_SOCIALE dell’RAGIONE_RAGIONE_SOCIALE, rappresentato e difeso dagli avvocati NOME COGNOME, NOME COGNOME, NOME COGNOME, NOME COGNOME;
– controricorrente –
Oggetto
RAGIONE_SOCIALE di RAGIONE_SOCIALE, ultime tre mensilità retribuzione, solidarietà cessionario azienda
R.G.N. 27842/2019
COGNOME.
Rep.
Ud. 15/10/2024
PU
avverso la sentenza n. 1434/2018 della CORTE D’APPELLO di MILANO, depositata il 19/03/2019 R.G.N. 1649/2016; udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 15/10/2024 dal Consigliere AVV_NOTAIO. NOME COGNOME; udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale AVV_NOTAIO COGNOME che ha concluso per il rigetto del ricorso; udito l’avvocato NOME COGNOME per delega verbale avvocato NOME COGNOME; udito l’avvocato NOME COGNOME per delega verbale avvocato NOME COGNOME.
FATTI DI CAUSA
Con sentenza depositata il 19.3.2019, la Corte d’appello di Milano, in riforma della pronuncia di primo grado, ha rigettato la domanda di NOME COGNOME volta a condannare l’RAGIONE_RAGIONE_SOCIALE, quale gestore del RAGIONE_SOCIALE di RAGIONE_SOCIALE, a corrispondergli le ultime tre mensilità di retribuzione maturate alle dipendenze di RAGIONE_RAGIONE_SOCIALE (poi denominata RAGIONE_RAGIONE_SOCIALE).
I giudici territoriali, in particolare, hanno dapprima dato atto che l’impresa debitrice aveva affittato l’azienda a RAGIONE_RAGIONE_SOCIALE e che quest’ultima, essendo tre mesi dopo intervenuto il fallimento della cedente, era receduta dal contratto d’affitto, retrocedendo così l’azienda alla società fallita, dalla quale l’aveva poi riacquisita a titolo d efinitivo, contestualmente alla stipula, in data 7.6.2013, di un accordo sindacale ex art. 47, l. n. 428/1990, con cui si era convenuto che restassero in capo alla cedente i debiti maturati dai lavoratori ceduti alle sue dipendenze e per i quali l’assicura to si era già insinuato nel passivo fallimentare; indi, hanno ritenuto che, alla stregua della giurisprudenza di questa Corte e di altri precedenti di merito, non sussistessero i presupposti per l’intervento del RAGIONE_SOCIALE.
Avverso tale pronuncia NOME COGNOME ha proposto ricorso per cassazione, deducendo due motivi di censura, successivamente illustrati con memoria. L’RAGIONE_RAGIONE_SOCIALE ha resistito con controricorso, parimenti poi illustrato con memoria. La causa è stata rimessa alla pubblica udienza, a seguito di infruttuosa trattazione camerale, con ordinanza del 28.3.2024. In vista della pubblica udienza, il Pubblico ministero e l’RAGIONE_RAGIONE_SOCIALE hanno depositato memoria.
RAGIONI RAGIONE_RAGIONE_SOCIALE DECISIONE
Con il primo motivo, il ricorrente denuncia violazione e falsa applicazione del combinato disposto degli artt. 2112 c.c. e 47, l. n. 428/1990, per avere la Corte di merito ritenuto che non sussistessero i presupposti per l’indennizzabilità a carico del RAGIONE_SOCIALE di RAGIONE_SOCIALE delle ultime tre retribuzioni maturate alle dipendenze del datore di lavoro sottoposto a procedura concorsuale in ragione dell’avvenuta cessione d’azienda, ancorché la solidarietà tra cedente e cessionario fosse stata esclusa per effetto di un accordo sindacale stipulato ex art. 47, l. n. 428/1990, in deroga all’art. 2112 c.c.: ad avviso di parte ricorrente, infatti, soccorrerebbe in specie l’art. 5 della Direttiva 2001/23/CE, che, in caso di cessione d’azienda, esclude la solidarietà fra cedente e cessionario ove il cedente sia stato sottoposto a procedura fallimentare o ad analoga procedura d’insolvenza in vista della liquidazione dei beni.
Con il secondo motivo, analoghe censure sono ripetute per violazione e falsa applicazione della legge n. 297/1982, dell’art. 2112 c.c. e degli artt. 2 e 5, d.lgs. n. 80/1992: ad avviso di parte ricorrente, infatti, la definitività dello stato passivo dell’ azienda cedente, nel quale egli si era insinuato per i RAGIONE_SOCIALE relativi alle ultime tre mensilità rivendicate dal RAGIONE_RAGIONE_SOCIALE di RAGIONE_SOCIALE, implicherebbe di necessità l’accollo al RAGIONE_SOCIALE
medesimo delle obbligazioni già gravanti sul datore di lavoro fallito ed escluse dal regime di solidarietà.
I motivi possono essere trattati congiuntamente, stante l’intima connessione delle censure, e sono infondati.
Come ricordato dal Pubblico ministero nella sua requisitoria e rimarcato dall’RAGIONE_RAGIONE_SOCIALE nella memoria dep. ex art. 378 c.p.c., questa Corte, a far data da Cass. n. 19277 del 2018, ha consolidato un orientamento, relativamente all’intersecarsi di vicende circola torie di un’azienda e sottoposizione a procedura concorsuale di alcuno dei datori di lavoro cedenti e/o cessionari, con contestuale richiesta di intervento del RAGIONE_RAGIONE_SOCIALE, al quale anche in questa sede va data continuità.
Va premesso, al riguardo, che il diritto del lavoratore di ottenere la corresponsione delle ultime tre mensilità di retribuzione dallo speciale RAGIONE_SOCIALE di cui all’art. 2, l. n. 297/1982, si configura come il diritto di credito a una prestazione previdenziale, distinto e autonomo rispetto al credito retributivo vantato nei confronti del datore di lavoro e rimasto insoddisfatto, che si perfeziona al verificarsi della condizione di insolvenza del datore di lavoro e all’accertamento dell’esistenza e della misura del credito in sede di ammissione al passivo ovvero all’esito di una procedura esecutiva (così Cass. n. 17643 del 2020).
È stato inoltre precisato che la definitività dello stato passivo, mentre impedisce all’RAGIONE_RAGIONE_SOCIALE di opporre eccezioni derivanti da ragioni volte a contestare l’esistenza o l’entità del credito in ragione del concreto atteggiarsi del rapporto di lavoro, non pre clude all’RAGIONE_SOCIALE di contestare i presupposti d’intervento del RAGIONE_SOCIALE e gli elementi costitutivi della propria obbligazione previdenziale, che resta appunto autonoma rispetto a quella del datore di lavoro, oramai accertata in maniera incontrovertibile (Cass. n. 19277 del 2018, cit.): le risultanze dello stato passivo
non sono infatti opponibili all’RAGIONE_RAGIONE_SOCIALE in ordine agli elementi soggettivi e oggettivi al cui ricorrere venga ad esistenza l’obbligo della tutela previdenziale (Cass. n. 38696 del 2021), ché altrimenti, in considerazione dell’estraneità dell’ente al rapporto di lavoro e alle procedure esecutive (anche concorsuali) intentate dal lavoratore nei confronti del datore di lavoro, verrebbe ad essere vulnerato il diritto dell’ente alla difesa in giudizio, sancito per tutti dall’art. 24 Cost. (così, espressamente, ancora Cass. n. 19277 del 2018, cit.).
D’altra parte, le condizioni di intervento del RAGIONE_RAGIONE_SOCIALE di RAGIONE_SOCIALE per ciò che concerne le ultime tre mensilità di retribuzione risultano tassativamente indicate dall’art. 2, l. n. 297/1982, emanato in attuazione della Direttiva 80/987/CEE, e presuppongono che sia stato dichiarato insolvente ed ammesso alle procedure concorsuali il datore di lavoro che è tale al momento della cessazione del rapporto di lavoro (Cass. n. 24889 del 2019): scopo della direttiva europea è infatti l’assicurazione di una copertura d el RAGIONE_RAGIONE_SOCIALE insoddisfatti che siano maturati in quel determinato periodo di tempo in cui si può ragionevolmente presumere che l’inadempimento datoriale sia conseguenza della sua condizione di insolvenza, non anche la copertura di un qualsiasi inadempimento verificatosi in danno del lavoratore (così, in motivazione, Cass. n. 24889 del 2019, cit.); ed è per contro evidente che, ammettendo l’intervento del RAGIONE_SOCIALE anche in fattispecie come quella per cui è causa, in cui il rapporto di lavoro è proseguito alle dipendenze del cessionario e il lavoratore ceduto ha semplicemente rinunciato alla solidarietà passiva di quest’ultimo per i RAGIONE_SOCIALE maturati alle dipendenze del cedente, lo si graverebbe del pagamento di una prestazione che non può considerarsi dovuta, perché ad essere fallito è colui che
non è più datore di lavoro del lavoratore assicurato, di talché, mancando in radice il legame necessariamente postulato dalla Direttiva 80/987/CEE tra l’insolvenza datoriale e l’inadempimento del credito retributivo, si verrebbe necessariamente a sviare il patrimonio del RAGIONE_RAGIONE_SOCIALE di RAGIONE_SOCIALE dalla causa che ne ha determinato l’istituzione, in contrasto con la precisa lettera dell’art. 2, comma 8°, l. n. 297/1982, che vieta d’impiegare le disponibilità del RAGIONE_SOCIALE ‘al di fuori della finalità istituzionale del fon do stesso’ (così da ult. Cass. n. 37789 del 2022).
Contrari argomenti non possono trarsi dal fatto che la rinuncia alla solidarietà passiva del cessionario abbia avuto luogo in esecuzione di un accordo sindacale concluso ex art. 47, l. n. 428/1990: l’intervento del RAGIONE_RAGIONE_SOCIALE di RAGIONE_SOCIALE costituisce infatti ade mpimento di un’obbligazione pubblica che trova nella legge di derivazione comunitaria la propria disciplina e non può che rimanere insensibile ad eventuali pattuizioni intercorse tra le parti private con cui -in deroga alla RAGIONE_SOCIALE apprestata dall’art. 2112 c.c. -si sia esclusa la solidarietà dell’impresa cessionaria, trattandosi di res inter alios actae (così da ult. Cass. n. 6842 del 2023). Ed è appena il caso di aggiungere che non giova a parte ricorrente richiamare l’art. 5 della Direttiva 2001/23/CE, concernente il ravvicinamento delle legislazioni degli Stati membri relative al mantenimento dei diritti dei lavoratori in caso di trasferimento di imprese o di parti di imprese, atteso che questa Corte ha già chiarito, sulla scorta della giurisprudenza della Corte di Giustizia dell’Unione Europea, che gli ambiti delle tutele previste dalla Direttiva 987/80/CEE e dalla Direttiva 2001/23/CE si pongono tra loro in netta alternativa, la prima intendendo proteggere i lavoratori subordinati in caso di insolvenza del datore di lavoro e la seconda garantire i diritti dei
lavoratori in caso di trasferimenti di imprese, stabilimenti o loro parti (così specialmente Cass. nn. 39698 del 2021 e 1861 del 2022, che in motivazione hanno rimarcato come deponga chiaramente in tal senso la previsione dell’art. 5, comma 2, lett. a) , della Direttiva 2001/23/CE, secondo cui la possibilità che gli Stati membri introducano deroghe al principio che gli obblighi del cedente sono normalmente trasferiti al cessionario dipende per un verso dall’assoggettamento del cedente ad una procedura di insolvenza gestita da una pubblica autorità e dall’altro che tale procedura metta capo ‘ad una protezione almeno equivalente a quella prevista nelle situazioni contemplate dalla direttiva 80/987/CEE’).
Si deve piuttosto aggiungere che non induce a diverse conclusioni la disciplina che, successivamente ai fatti per cui è causa, è stata dettata dal comma 5bis dell’art. 47, l. n. 428/1990 (per come introdotto dall’art. 368, comma 4, lett. d) , d.lgs. n. 14/2019, c.d. codice della crisi d’impresa), secondo cui ‘nelle ipotesi previste dal comma 5, non si applica l’articolo 2112, comma 2, del codice civile e il trattamento di fine rapporto è immediatamente esigibile nei confronti del cedente dell ‘azienda’ anche da parte ‘dei lavoratori che passano senza soluzione di continuità alle dipendenze dell’acquirente’, tenendo luogo ‘la data del trasferimento’ di quella ‘della cessazione del rapporto di lavoro’: fermo restando che il codice della crisi d’impresa e dell’i nsolvenza, in linea generale, non è applicabile alle procedure aperte prima della sua entrata in vigore e che le sue norme possono se del caso rappresentare un utile criterio interpretativo degl’istituti della legge fallimentare solo allorché, nello specifico caso considerato, si riscontri una linea di continuità tra il regime vigente e quello a venire (così Cass. S.U. n. 8504 del 2021), è sufficiente nella specie rilevare che il
comma 5bis ha introdotto una previsione in chiara e consapevole discontinuità con il diritto vivente siccome sopra ricostruito, all’evidente scopo di sancire, a determinate condizioni, l’immediata esigibilità del credito nei confronti del cedente dell’azienda e di e quiparare ad una cessazione del rapporto di lavoro il trasferimento dei lavoratori all’impresa cessionaria; e in disparte la possibilità (già paventata da Cass. n. 6842 del 2023, cit.) che la nuova disciplina possa surrettiziamente mettere capo ad un inammissibile aiuto di Stato, è evidente che da essa non si può ricavare alcun utile spunto ermeneutico per l’interpretazione di quella previgente (cfr. in tal senso Cass. n. 37789 del 2022, già cit.).
Il ricorso, pertanto, va rigettato. La complessità delle questioni trattate, che nella giurisprudenza di questa Corte hanno trovato univoca composizione solo in epoca posteriore alla notifica del ricorso per cassazione, giustifica la compensazione delle spese del giudizio di legittimità, mentre, tenuto conto del rigetto del ricorso, va dichiarata la sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello, ove dovuto, previsto per il ricorso.
P. Q. M.
La Corte rigetta il ricorso. Compensa le spese.
Ai sensi dell’art. 13, comma 1 -quater , d.P.R. n. 115/2002, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento da parte del ricorrente dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello, ove dovuto, per il ricorso, a norma del comma 1bis dello stesso art. 13.
Così deciso in Roma, nella camera di consiglio del 15.10.2024.