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Fido di fatto: prova e prescrizione prima del 1992

Un istituto di credito ricorre in Cassazione contro la decisione di merito che riconosceva un fido di fatto a un correntista per il periodo ante-1992. La Corte ha dichiarato il ricorso inammissibile, confermando che la prova del fido può essere desunta da presunzioni e fatti concludenti, bloccando così la decorrenza della prescrizione per le rimesse ripristinatorie.

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Pubblicato il 17 settembre 2025 in Diritto Bancario, Giurisprudenza Civile, Procedura Civile

Fido di fatto: la Cassazione chiarisce prova e prescrizione per i contratti ante 1992

Con una recente ordinanza, la Corte di Cassazione è tornata a pronunciarsi su una questione cruciale nel contenzioso bancario: la validità e la prova del cosiddetto fido di fatto per i rapporti sorti prima dell’introduzione dell’obbligo di forma scritta. La decisione ribadisce principi fondamentali in materia di onere della prova e decorrenza della prescrizione per le azioni di ripetizione dell’indebito, offrendo importanti tutele ai correntisti.

I Fatti di Causa

La vicenda trae origine dalla domanda di un correntista volta a ricalcolare il saldo del proprio conto corrente, acceso presso un noto istituto di credito. Il Tribunale, in primo grado, aveva accertato un credito a favore del cliente. La Corte d’Appello, pur rideterminando la somma, aveva confermato un punto centrale: per il periodo antecedente al 1992, doveva considerarsi esistente un’apertura di credito, sebbene non formalizzata per iscritto.

Questa qualificazione era fondamentale, poiché l’esistenza di un fido determina la natura dei versamenti effettuati dal cliente sul conto scoperto. Se c’è un fido, i versamenti sono ‘ripristinatori’ e non fanno decorrere la prescrizione; in sua assenza, sono ‘solutori’ (pagamenti di un debito) e la prescrizione decennale inizia a decorrere da ogni singolo versamento.

L’istituto di credito ha quindi proposto ricorso per cassazione, sostenendo che la Corte d’Appello avesse errato nel riconoscere un fido di fatto basandosi su prove presuntive.

La Prova del Fido di Fatto e la Decisione della Cassazione

La Suprema Corte ha dichiarato il ricorso della banca inammissibile, confermando in toto l’impostazione dei giudici di merito. Il fulcro della decisione risiede in un principio consolidato: prima dell’entrata in vigore della Legge n. 154 del 1992 sulla trasparenza bancaria, i contratti di apertura di credito non richiedevano la forma scritta ad substantiam.

Pertanto, la loro esistenza poteva essere provata con ogni mezzo, inclusi i ‘fatti concludenti’, ovvero quei comportamenti delle parti che dimostrano in modo inequivocabile la loro volontà. Nel caso specifico, la Corte d’Appello aveva correttamente valorizzato elementi come:

* L’ammissione del consulente tecnico della stessa banca, che aveva riconosciuto l’esistenza di un affidamento sin dal 1989.
* Le risultanze del prospetto delle segnalazioni alla Centrale dei rischi.
* Gli estratti di conto corrente.

La Cassazione ha chiarito che la valutazione di tali elementi costituisce un accertamento di fatto, riservato al giudice di merito e non sindacabile in sede di legittimità, se non per vizi logici o giuridici che, in questo caso, non sussistevano.

Le Motivazioni della Corte

La Corte ha respinto le censure della banca, spiegando che la doglianza non verteva su una errata applicazione delle regole sull’onere della prova (art. 2697 c.c.), ma mirava a ottenere un riesame del merito della valutazione probatoria, attività preclusa in Cassazione.

Il Collegio ha ribadito che, in tema di prescrizione del diritto alla ripetizione di somme, la prova della natura ripristinatoria delle rimesse (e quindi dell’esistenza di un fido) può essere fornita dal correntista anche tramite presunzioni. Queste presunzioni possono includere, come nel caso esaminato, le stesse dichiarazioni formulate dal consulente tecnico di parte della banca. Sebbene non abbiano valore di confessione, tali ammissioni costituiscono validi indizi che il giudice può liberamente valutare per formare il proprio convincimento.

La decisione sottolinea come l’obbligo della forma scritta per i contratti bancari sia stato introdotto solo con la Legge 154/1992. Prima di tale data, vigeva il principio della libertà di forma, e un’apertura di credito poteva quindi essere conclusa anche verbalmente o tramite comportamenti concludenti. Di conseguenza, il giudice di merito ha correttamente ritenuto provata l’esistenza del fido, impedendo così che il diritto del correntista alla ripetizione delle somme indebitamente versate si prescrivesse.

Le Conclusioni

L’ordinanza in esame consolida un orientamento giurisprudenziale di grande importanza per la tutela dei correntisti nei rapporti bancari di lunga data. Si afferma con chiarezza che, per i periodi antecedenti al 1992, la banca non può trincerarsi dietro la mancanza di un contratto scritto per contestare l’esistenza di un fido e far valere la prescrizione.

La prova del fido di fatto può essere raggiunta attraverso un’analisi complessiva del rapporto, valorizzando elementi presuntivi come le comunicazioni interne, le segnalazioni ad autorità di vigilanza e persino le ammissioni contenute nelle perizie di parte. Questa pronuncia rappresenta un monito per gli istituti di credito e una garanzia per i clienti, riaffermando che la sostanza dei rapporti prevale sulla forma, soprattutto quando la legge non imponeva specifici vincoli formali.

Prima del 1992, un contratto di apertura di credito doveva essere stipulato per iscritto?
No, prima dell’entrata in vigore della Legge n. 154 del 1992, il contratto di apertura di credito era a forma libera e poteva essere concluso anche per ‘fatti concludenti’, cioè attraverso comportamenti che manifestavano in modo inequivocabile la volontà delle parti.

Come può un correntista provare l’esistenza di un fido di fatto concesso dalla banca?
La prova può essere fornita anche tramite presunzioni. Nel caso di specie, sono state considerate decisive le ammissioni del consulente tecnico della banca stessa e le segnalazioni alla Centrale dei rischi, che attestavano l’esistenza di affidamenti.

Perché la distinzione tra rimesse ‘solutorie’ e ‘ripristinatorie’ è importante ai fini della prescrizione?
Se esiste un fido, i versamenti del cliente entro il limite del fido sono ‘ripristinatori’ della provvista e non fanno decorrere la prescrizione del diritto alla ripetizione di somme indebitamente pagate. Se il fido non esiste, le rimesse sono ‘solutorie’ (pagamento di un debito) e la prescrizione inizia a decorrere da ogni singolo versamento.

La selezione delle sentenze e la raccolta delle massime di giurisprudenza è a cura di Carmine Paul Alexander TEDESCO, Avvocato a Milano, Pesaro e Benevento.

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